Una volontaria egiziana e un'italiana,  al Meeting <br> del Cairo (© Giorgio Salvatori).

AL CAIRO Io, Karim e il Meeting "dietro le quinte"

Una trentina di universitari italiani tra i volontari della kermesse. Con loro, molti ragazzi musulmani. Il racconto di due giorni che «hanno cambiato le carte in tavola»
Linda Stroppa

Le brillano gli occhi. Francesca sapeva che il Meeting del Cairo sarebbe stato un evento. Se lo aspettava. Ma non aveva previsto che quei due giorni avrebbero cambiato le carte in tavola. A lei. «Come posso raccontare tutto?», dice: «È stata una cosa dell’altro mondo». Davvero un altro mondo. L’Egitto. L’islam, tradizioni lontane, una lingua difficile. La distanza sembra abissale. Eppure, eccole. Francesca, accanto a Sarah. Che porta il velo in testa. Entrambe di vent’anni, entrambe con la polo blu dei volontari del Meeting. In piedi, all’ingresso dell’Aula Magna dell’Università del Cairo. Accompagnano gli ospiti a prendere posto. Con loro, anche Eleonora, Michele, Andrea. Sono alcuni dei trenta ragazzi italiani volati al Cairo per dare una mano al Meeting. Lavorano con altri duecento volontari egiziani. C’è Eslam, musulmano sunnita di ventun anni, e c’è Karim che al Meeting è venuto «solo per ottenere i crediti formativi, “premio” dato dalla mia scuola a chi fa volontariato». Eppure, poi, sta con i ragazzi italiani tutto il giorno e decide di seguirli anche a cena.
Il posto è accogliente. Grandi lampadari, odore di spezie. A tavola sono una ventina. Si parla dello studio, di calcio «e anche di donne», ammette qualcuno ridendo. «All’inizio ero diffidente», racconta Eleonora. «Durante la serata ho dovuto cedere: Karim rispondeva alle nostre domande come avrei risposto io. Colpito e appassionato alle stesse cose. Ci trattava come fossimo amici da sempre». Ma, a un certo punto, Michele chiede della loro religione. Si discute un po’. Poi i ragazzi egiziani tagliano corto: sono due posizioni diverse. Punto. La questione è chiusa.
Dopo cena, di nuovo, l’imprevisto. Si canta. Michele è in piedi in un angolo e guarda la scena. Uno spettacolo. «I ragazzi egiziani tutti a bocca aperta. Come bambini». Davanti a una ragazza italiana che canta Negra sombra. In un istante, Michele pensa: «L’avvenimento è più grande di un discorso». Dice che era venuto qui credendo, in fondo, di aver già capito tutto. «Ma quella sera, grazie a loro, ho scoperto una cosa: il cristianesimo fa diventare gli uomini più uomini. Ma uomini come Dio li ha pensati. Musulmani o buddisti». A Eleonora, però, rimane una domanda. «Era chiaro che a tutti piaceva cantare. Tutti cercavano di seguire le parole e battere le mani a tempo. Ma che cosa ci permette di cantare bene?».
La risposta le arriva vivendo quei due giorni. Nessun ragionamento, solo fatti. «Ho visto che è possibile un luogo dove tutti possono abitare. Ma un luogo così non possono costruirlo tutti. Solo Cristo può. Perché è l’unico che restituisce l’uomo a se stesso». Come racconta Francesco: «Sono andato al Cairo per una curiosità, un po’ come ha fatto Zaccheo quando è salito sull’albero. Io sono curioso per natura. Ma ho capito che non basta. Quando vorrei sapere tutto, mi accorgo che non posso. Da solo non sono capace di vivere come vorrei». Anche Eleonora, grazie a quei due giorni, sta facendo la stessa scoperta: «Se dovessi colmare io tutto il desiderio del mio cuore, l’angoscia mi soffocherebbe. Noi, però, abbiamo incontrato Uno che risponde a tutto». Lo stesso incontro che ha dato origine al Meeting di Rimini.
I ragazzi egiziani stanno con loro fino all’ultimo e li accompagnano in aeroporto. Si abbracciano. «Ci siamo lasciati con la stessa domanda di Giovanni e Andrea: “Che cosa cercate?”», dice Francesco. «È quello che ci portiamo a Milano».