Emmanuel Exitu.

EUTANASIA Farli parlare? Certo, ma non basta

"Avvenire" chiede di dare spazio a chi combatte contro gravi malattie, senza scegliere la morte. In una lettera al quotidiano, il regista Emmanuel Exitu va a fondo di questa sfida. E la rilancia: «Solo da una vita nuova, nasce una nuova cultura»
Emmanuel Exitu

Nelle discussioni scatenate dalla campagna “Fateli parlare” sembra che ci sia un equivoco. In sintesi si dice che «Avvenire chiede la par condicio», mentre è molto di più e molto più semplice: raccontiamo tutta la realtà. Nell’intervista rilasciata ad Avvenire pochi giorni fa, come regista, ho invitato il dream team di “Vieni via con me” ad allargare l’inquadratura sulla realtà perché - soprattutto nei malati di Sla e nelle famiglie di persone in stato vegetativo - contrariamente all'adagio l’immensa foresta che cresce stavolta fa molto più rumore degli alberi che cadono; e anche perché raccontare solo la disperazione è davvero facile: basta tenere l’inquadratura molto stretta e ben ferma e il mondo sembra pieno soltanto di male e d’anime che si spezzano. Ma dov’è la nostra bravura di cacciatori di storie? Dov’è la novità quando davanti al limite straziante si pensa di farla finita? La vera novità, la vera sovversione, la vera audacia è in chi decide di non darla vinta alla morte perché, sperando contro ogni speranza, ha scoperto qualcosa che dentro il dolore è più forte del limite e della morte. E io voglio scoprirlo con i miei occhi, toccarlo con le mie mani, condividerlo col mio lavoro.
Detto questo, il suddetto dream team ha tutto il diritto di raccontare ciò che vuole negli spazi che si è conquistato. D’altra parte, il cda Rai fa bene il suo mestiere sollecitando il diritto di replica, ma c’è qualcosa che non torna. “Vieni via con me” è forte perché frutto di una strapotenza pervasiva, macroestesa e microcapillare che si chiama proprio cultura, che in tv affiora e abbaglia nel suo precipitato apparentemente spontaneo che si chiama mentalità. È la «celebrazione liturgica» (Grasso sul Corriere della Sera del 24 novembre) di una cultura secolare che viene da lontano, che ha il suo esercito, le sue roccaforti e il suo Imperatore, il peggiore possibile: l’io che si lascia solo e resta schiavo di se stesso. È davvero possibile combattere questa mentalità a colpi di piccoli orticelli dentro l’Impero (implorati o pretesi, fa poca differenza)? Pensiamo pure in grande: vogliamo prendere il potere e costruire un Impero uguale e contrario? A un’ideologia che consideriamo cattiva opponiamo un’ideologia che consideriamo buona? Ma il problema non è se l’ideologia sia buona o cattiva, ma che sia ideologia, cioè qualcosa che non serve a nulla nella vita vera, quella dura e gloriosa di tutti. Anche se è meritorio l’impegno del cda Rai, alla politica non bisogna chiedere orticelli (che comunque mostrano anche altri frutti, meno amari e meno tossici di quel che passa l’Impero). Il palinsesto televisivo sembra molto vicino al concetto d’infinito matematico, lo spazio c’è: l’impegno da chiedere è per costruire spazi alternativi che raccontino lo scandalo della vita. I monasteri nelle invasioni barbariche non hanno chiesto o preteso nulla: vivevano la loro vita. Sono contrario alla par condicio. La mia proposta è per una “sussidiarietà televisiva” da parte del servizio pubblico: se funziona nella società, perché non dovrebbe funzionare in tv?
A me non interessa pestare i piedi alle persone con le quali non sono d’accordo. Desidero solo raccontare chi mi mette in discussione, chi mi fa paura perché sbrana il mio torpore, chi mi provoca a essere più uomo. Io ho bisogno di uomini vivi per ricordarmi di essere vivo perché ferito d’infinito. Non ho bisogno di manifesti d’ortodossia morale, ho bisogno di Mario Melazzini, di Fulvio de Nigris, di Margherita Coletta, di Rose Busingye, di padre Aldo, di migliaia e migliaia di persone normali come loro. È solo da una vita nuova che nasce una nuova cultura. Bisogna solo guardarla, soffrirla, amarla. E poi raccontarla. C’è qualcuno che ha voglia e coraggio di dare spazio a questa vita, prima che in palinsesto, innanzitutto nella sua vita?
(da Avvenire, 1 dicembre 2010)