Da dove riparte il desiderio

PRIMO PIANO - ALL'ORIGINE DELLA CRISI
Davide Perillo

Abbiamo perso la voglia di «costruire e cercare la felicità». E ai ragazzi insegniamo che «tanto non si può». Ma che cosa può riaccendere l’interesse? L’Italia «sazia e disperata» fotografata dal Censis, al centro di un dialogo con MARIO CALABRESI, direttore de La Stampa.
Passando per la lezione di sua nonna, le «scintille» di alcuni incontri.?E quello che desidera lui



In fondo, aveva ragione nonna Maria. Quella che spunta nelle prime pagine di La fortuna non esiste, unico accenno autobiografico in un libro che raccontava storie americane di «uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi». Mario Calabresi, quarantenne direttore de La Stampa, ci aveva messo dentro anche lei, la nonna, e un paio di sue frasi che valgono una vita: «Ho vissuto 94 anni, ma alla fine l’unica lezione che mi porto dentro è che non bisogna mollare mai. Mai arrendersi: bisogna essere curiosi, ambiziosi...». In una parola, desiderare.
Le rileggi adesso, con in mano il volantino di Cl sulle «forze che cambiano cuore e storia», su quel «calo del desiderio» che spiega la crisi, sulla constatazione che «abbiamo meno voglia di costruire, di crescere, di cercare la felicità», sui «nostri nonni e genitori umanamente meglio attrezzati per affrontare simili sfide», sul fatto che per riprendere il bandolo della matassa bisogna ripartire da lì, dal desiderio. E pensi che aveva davvero ragione Maria Tessa, la nonna di Calabresi. Lei, e il Censis, l’istituto di ricerca che quello stesso «calo del desiderio» lo ha usato come chiave di lettura per un Rapporto che fotografa l’Italia, ma racconta molto di più. Che cosa ne pensi, direttore? «Sono analisi corrette. Ma va fatta una premessa: questo è un problema dell’Occidente, non del mondo. Se uno va in India, Cina o Sudamerica vede un’energia enorme. Una quantità di sogni, progettualità e aspirazioni che fanno venire i brividi, altro che calo del desiderio».

Questione di fame?
Non solo. Certo, riguarda il bisogno: i figli che crescono, le necessità economiche... Ma non si può ridurre a soldi e consumi. Si vede la voglia di diventare qualcosa. Soprattutto per chi viene da certe situazioni difficili: c’è il desiderio di essere protagonisti della propria vita. E l’idea che non solo esistono le possibilità, ma hai la chance di coglierle.

E noi perché l’abbiamo persa per strada, questa voglia?
Qui il declino economico ha creato una situazione mai vista. Per la prima volta negli ultimi due secoli i padri hanno la sensazione che i figli non staranno meglio di loro. Il grande motore della nostra società è che le persone sopportavano i sacrifici perché pensavano che i figli avrebbero avuto una vita migliore. Per paradosso, non era neanche importante quanto uno si realizzasse davvero nella realtà, ma l’idea che ci fosse la possibilità di riuscirci, di migliorare. Questo ha fatto superare difficoltà enormi con un’energia incredibile, che dava persino la forza per riuscire a fare altro. Pensa all’impegno sociale e al volontariato: sono nati in situazioni di sofferenza, mica come passatempo per benestanti.

E oggi?
Domina l’incertezza. Uno non sa se sarà così, se avrà ancora queste possibilità. Anzi, è quasi sicuro che i suoi figli saranno precari a vita.

Ma perché è difficile tramandare questa “voglia di fare” di padre in figlio? L’aver spostato le attese sul “dopo” e il tentativo di mettere i figli al riparo dalle difficoltà non sono segni di una riduzione? È come se un paio di generazioni avessero detto alle successive: non desiderare troppo, basta un posto fisso, una certa tranquillità... Desideri ridotti, insomma.
In un certo senso, sì. Ed è una responsabilità grave. Molti padri e madri, soprattutto delle generazioni che hanno vissuto le ideologie, quando le hanno viste crollare e hanno perso il loro rifugio non hanno saputo trasmettere l’idea che potesse esserci qualcosa oltre la politica e il consumismo. È terribile ripetere ai giovani che tanto sono fregati, tirarli su a forza di «dovete accontentarvi» e di una vita fatta di ponticelli, mezze reti e pensioni della nonna che ti pagano l’affitto, senza mai spingerli a tuffarsi in acqua. Cinquant’anni fa sarebbe stato impensabile. Dopo la Guerra nessuno diceva «sarete bloccati per sempre dalle macerie». Oggi ci facciamo spaventare da molto meno.

Quindi è vero che i nostri predecessori erano «umanamente meglio attrezzati»...
Se guardiamo gli indicatori di economia, longevità e istruzione, non siamo mai stati così bene nella nostra storia. Ma galleggiamo in una situazione che ha spento la voglia di combattere. E in questo c’entrano anche le tecnologie e l’informazione.

Perché?
Hanno cambiato completamente la concezione del tempo, dello stare con gli altri. Stanno trasformando il nostro modo di riflettere, discutere, prendere decisioni. Oggi lo fai senza profondità. Antonio Scurati lo chiama «il tempo della cronaca», di una dilatazione senza fine del presente: tutto diventa uguale. Non ti prendi il lusso di decisioni di lungo periodo. Ma anche l’idea e il valore dell’incontro stanno diventando secondari: fai tutto per messaggi e non ti muovi più per andare a trovare una persona. Solo l’idea di metterti in viaggio ti dà fastidio. È come un bombardamento che riduce tutto all’istante. Tagliando via sia il passato che la prospettiva del futuro.

Ma il tuo libro sull’America, per dire, mostra un pezzo di Occidente che va in direzione opposta, che desidera ancora. Cosa spiega la differenza?
Lì si parla di situazioni in cui c’è in atto un crollo molto più forte di quello che viviamo noi. E c’è una mentalità in cui te la devi cavare da solo, anche perché i meccanismi di welfare sono ridotti al minimo. Da noi è l’idea di responsabilità personale ad essere ridotta. E anche quella di famiglia, a volte: invece di essere un luogo di incontro in cui ci si scambia il meglio, cioè valori e modo di vivere, diventa un piccolo stato assistenziale. È una visione difensiva che serve a garantire il minimo comune.

Tu lì raccontavi storie in controtendenza. Testimonianze, insomma. Nel volantino di Cl si indica come prospettiva di uscita il «sottomettere la ragione all’esperienza», uscire dagli schemi e «dalle prevenzioni ideologiche» per cercare esperienze in atto che in qualche modo indicano una strada. «Qualcosa che nella realtà già funziona». Che cosa significa per chi fa il tuo mestiere?
È essenziale. In fondo, è la regola numero uno del giornalismo come te la insegnano alla Columbia University: «Show, don’t tell». Mostra, non dire. Io provo a fare così. E poi, ho preso molto da mia madre. Mi ha insegnato a cercare. A darmi una mossa. A reagire anche di fronte alle difficoltà più grandi. Alla fine è questo il ruolo dei genitori: trasmettere l’idea che uno abbia infinite possibilità e se le giochi. A cosa serve scoraggiare un ragazzo dicendogli «tanto non ce la fai, non si può», per evitargli la delusione? Molto meglio dargli nella vita la compagnia di un desiderio.

E che cosa può riaccenderlo? Nel volantino si lancia una sfida: «Non basterà più una risposta ideologica, perché di tutti i progetti abbiamo visto il fallimento. Saremo costretti a testimoniare un’esperienza».
Forse è banale, ma per me sono esempi, dialoghi, incontri. Persone, insomma. Non è che domattina c’è uno che si alza, magari si candida alle elezioni e riaccende il desiderio di un Paese. Ma possono esserci tante scintille negli incontri tra persone. L’alternativa è qualcosa di arido.

Il volantino interpella anche la Chiesa, chiamata a risvegliare interesse e gusto per la vita, non solo a dare richiami morali: occorre «mostrare che Cristo è così presente da essere in grado di ridestare la persona - e quindi tutto il suo desiderio». Tu come la vedi?
Penso che in una fase così per la Chiesa ci sarebbero praterie da percorrere. Per dare messaggi di umanità.

Ma tu che cosa desideri per te?
Tre cose su tutte. La prima è riuscire ad avere sempre uno sguardo aperto e curioso sugli altri. Quando mi accorgo che certi aspetti del lavoro - il gestire la macchina del giornale, le riunioni a raffica, il passare troppo tempo in ufficio - me lo stanno facendo perdere, mi cerco l’occasione per uscire. Voglio vedere e incontrare.

E le altre due?
Continuare a scegliere le cose che uno ha davvero nel cuore, al di là di soldi e carriera. Ed essere un buon padre per Emma e Irene. Non un miniwelfare, ma qualcuno che le incoraggia a buttarsi in mare. E nuotare.