Il senso religioso, verifica della fede

La Pagina Uno di Tracce di febbraio, l'incontro di presentazione del libro di Luigi Giussani "Il senso religioso" (Rizzoli), 26 gennaio 2011. Palasharp di Milano e in collegamento video con 180 città italiane
Julián Carrón

1. IL SENSO RELIGIOSO, VERIFICA DELLA FEDE
«Quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 84-89). Questa poesia di Giacomo Leopardi esprime in modo mirabile l’esperienza in cui si svela il senso religioso dell’uomo. L’impatto dell’io con la realtà scatena la domanda umana. Vi è cioè in noi una struttura nativa che, nell’impatto col reale, viene inesorabilmente messa in moto, così da mobilitare tutto il dinamismo della nostra persona.
Nella misura in cui vive, nessun uomo può evitare certe domande, a prescindere dalla propria appartenenza etnica o culturale: «“Qual è il significato ultimo dell’esistenza?”, “Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?”. O, da un altro punto di vista: “Di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?”». Il senso religioso - ci ha insegnato sempre don Giussani - si identifica con la natura del nostro io in quanto si esprime in queste domande, «coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 59) *.
Ma perché riprendere ora, rendendolo oggetto del nostro lavoro comune, il testo de Il senso religioso? È una domanda che mi sono sentito rivolgere in diverse occasioni da quando abbiamo preso tale decisione. L’idea è emersa dall’esperienza degli ultimi Esercizi della Fraternità, in cui ho riletto due capitoli de Il senso religioso “dal di dentro della fede”, come ho avuto modo di osservare.
Tutto è nato dalla constatazione, anche in noi, che pure abbiamo la grazia di essere immersi in una certa storia, di una fragilità della fede come conoscenza (che abbiamo chiamato «frattura tra sapere e credere»). Anche noi, cioè, partecipiamo della riduzione della fede a sentimento o a etica. Don Giussani ha osservato che ciò accade non solo là dove il cristianesimo non è più proposto secondo la sua natura di avvenimento, ma anche per una mancanza dell’umano in noi. Il cristianesimo, infatti, ha un grande “inconveniente”: esso richiede degli uomini per essere riconosciuto e vissuto. Negli Esercizi della Fraternità dello scorso anno ho cercato, attraverso la rilettura di alcuni capitoli de Il senso religioso, di mostrare la natura e la dinamica di quell’“umano” che in noi manca, viene meno, si blocca. Tanti sono stati colpiti dalla pertinenza di quei capitoli al percorso che stiamo compiendo e mi hanno chiesto di riprendere insieme, da questa prospettiva, l’intero testo.

Ma che cosa significa affrontare Il senso religioso dall’interno della fede? Noi siamo abituati a intendere il «senso religioso» come una semplice premessa alla fede; perciò, esso ci sembra quasi inutile, una volta che la fede sia raggiunta. Come fosse una scala che ci serve per salire al piano superiore: una volta saliti, possiamo fare a meno della scala. No! Non solo occorre un senso religioso sempre vivo affinché il cristianesimo venga riconosciuto e sperimentato per quello che è - come ci ha ricordato sempre don Giussani citando Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone» (Cfr. R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, BUR, Milano 1999, p. 66), o non si pone più -; ma - in secondo luogo - è proprio nell’incontro con l’avvenimento cristiano che il senso religioso si rivela in tutta la sua originale portata, raggiunge una definitiva chiarezza, viene educato e salvato. Cristo è venuto per educarci al senso religioso, come ci ha sempre detto don Giussani (lo riprenderò dopo). Un senso religioso vivo rappresenta perciò una verifica della fede.
È molto significativa in questo senso la risposta di don Giussani a una domanda di Angelo Scola, nel corso di una nota intervista: «La sua proposta pedagogica - chiede Scola - fa leva sul senso religioso dell’uomo; è così?». «Il cuore della nostra proposta - risponde Giussani - è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma/Milano 1993, p. 38). L’avvenimento cristiano resuscita o potenzia, perciò, il senso religioso, cioè il senso dell’originale dipendenza e le evidenze originarie.

Se il lavoro di questi anni sul libro di don Giussani Si può vivere così? ci ha permesso di vedere la novità umana che nasce dalla fede, così da poter verificare la pertinenza della fede alle esigenze della vita, quello che stiamo per intraprendere su Il senso religioso potrà permetterci di approfondire lo sguardo su questa pertinenza: essa si documenta, infatti, nella capacità della fede di ridestare l’io, di farlo diventare se stesso, di mantenerlo nella posizione giusta per affrontare tutta l’esistenza, con le sue prove e la sua problematicità.
Ecco, allora, la prospettiva da cui leggeremo il testo: ripercorrendo Il senso religioso, e confrontandoci con esso, potremo verificare fino a che punto l’esperienza che abbiamo fatto in questi anni è riuscita a incidere sulla nostra vita o, in altri termini, «in che cosa Cristo è utile per il cammino che l’uomo fa nel rapporto con le cose, camminando verso il suo destino. Altrimenti, se non ha questa incidenza come presenza reale, Cristo è una cosa che non c’entra con la vita, che non c’entrerebbe con la vita. C’entrerebbe con la vita futura, ma non c’entrerebbe con questa vita; che è la posizione propria del protestantesimo» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, BUR, Milano 1999, p. 287). Se Cristo è presente, infatti, non è in forza del nostro dire, ma attraverso dei segni che Lo possiamo riconoscere. «È, se opera» (L. Giussani, Lettera alla Fraternità, 7 ottobre 1997), questa è la regola che ci siamo sentiti dire sempre. Posso scoprire che Cristo è presente per i segni del risveglio umano che vedo accadere in me o negli altri. Tanto è oggettiva la Sua presenza quanto sono oggettivi i segni che la documentano.
Impegnandoci con il testo de Il senso religioso, potremo allora verificare se l’incontro con Cristo ha «resuscitato o potenziato» il senso originale di dipendenza, il nucleo di evidenze ed esigenze originali (di verità, giustizia, felicità, amore) che don Giussani chiama «senso religioso» e che si destano nell’impatto dell’io con la realtà. Ora, se è vero che l’emergenza di tali evidenze ed esigenze originali è in un certo senso inevitabile, è altrettanto vero che la coscienza di esse è normalmente ridotta, offuscata o messa a tacere. È ciò che si può cogliere nella debolezza o nella assenza, anche fra noi, magari dopo anni di permanenza nel movimento, del senso del mistero nella percezione del nostro io, che viene così tragicamente ridotto - molto più spesso di quanto ci rendiamo conto - a somma di prestazioni e di reazioni, a conseguenza di antecedenti storici e biologici, a prodotto delle circostanze. Ecco perché un senso religioso desto, senza rimozioni o censure, costituisce un segno e una verifica dell’incontro con qualcosa d’altro più grande di sé.
Lo stesso si può dire a proposito della ragione, che l’esperienza rivela come «esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l’uomo sia introdotto alla verità delle cose» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 133). Sfidata dall’impatto con la realtà a essere veramente se stessa («inesausta apertura») e a mettersi in moto alla ricerca della sua spiegazione esauriente, la ragione raggiunge il suo autentico culmine intuendo l’esistenza di un oltre da cui tutto scaturisce e a cui tutto rimanda. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero» (Ibidem, p. 162). Una persona che non bloccasse il dinamismo razionale messo in moto dall’impatto con la realtà arriverebbe a vivere la coscienza del mistero. E quanto più vivesse intensamente il reale, tanto più la dimensione del mistero le diventerebbe familiare.
Ma, anche qui, grande, quasi irresistibile è la tentazione di ridurre, di utilizzare la ragione come misura, invece che come finestra spalancata «di fronte all’inesausto richiamo del reale» (Ibidem, p. 134). La conseguenza inevitabile è la riduzione della percezione della realtà, priva di mistero. Ed è ciò che si può constatare nella «destituzione del visibile», nell’appiattimento o nello svuotamento delle circostanze, di ciò che ci capita, che normalmente operiamo: la realtà, che si presenta originariamente alla nostra ragione come segno, viene ridotta al suo aspetto percettivamente immediato, privata del suo significato, della sua profondità. Per questo tante volte - ciascuno lo può verificare nella propria esperienza - soffochiamo nelle circostanze: quando è ridotta ad apparenza, la realtà diventa una gabbia.
Come osservava anni fa l’allora cardinal Ratzinger, «una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 142). L’esaltazione della ragione, la liberazione dalle sue riduzioni, è di nuovo la verifica di una fede reale.

Ora, perché è così decisivo oggi il ridestarsi del senso religioso? Perché abbiamo questa urgenza? È decisivo perché il senso religioso è il criterio ultimo di ogni giudizio, di un giudizio vero e autenticamente «mio»: se non vogliamo «essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 13), dobbiamo abituarci a paragonare tutto con quel criterio immanente e oggettivo che è il senso religioso. Dopo l’incontro cristiano, noi continuiamo infatti a vivere nel mondo e siamo chiamati ad affrontare, come tutti, le sfide della vita. Dobbiamo affrontarle in questo momento particolare, storico, dominato dalla confusione e dal «calo del desiderio», da un razionalismo soffocante, da una parte, e da un sentimentalismo dilagante, dall’altra, dalla riduzione della realtà ad apparenza e del cuore a sentimento. Se Cristo non incide su di noi ridestando la nostra umanità, allargando la nostra ragione e non riducendo la realtà, ci troviamo a pensare come tutti, con la stessa mentalità di tutti, perché il criterio di giudizio che pure originalmente possediamo, il «cuore», che è ragione e affezione insieme, è avvolto in quella confusione. Ciò significa che noi possiamo continuare ad affermare le “verità” della fede, ma non essere protagonisti della storia, poiché in noi non vi è nessuna diversità rilevabile, come ha detto Benedetto XVI: «Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla XXIV Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i laici, Città del Vaticano, 21 maggio 2010).
Questo, oltre a farci diventare inutili per la storia (sempre più dominata da un “potere” che mira a gettare l’uomo nella confusione, a ridurre il suo desiderio e a favorire un uso ridotto della ragione), fa sorgere la domanda sulla ragionevolezza della fede. Perché è ragionevole essere cristiani? Qual è la convenienza umana della fede? Il motivo per cui tanti abbandonano la fede è che non sorprendono alcun riscontro della sua convenienza. Così il potere può allargare sempre più la sua influenza, trovando l’uomo sempre più disarmato. «È come se il potere, vale a dire la mentalità dominante, avesse costretto i nostri educatori, compresi i genitori, ad alterare la semplicità della nostra natura [“le evidenze originarie”, dicevamo prima] fin da piccoli. Perciò bisogna recuperare la semplicità della natura nostra. Questa Scuola di comunità su Il senso religioso non è nient’altro che un invito e uno stimolo a recuperare la semplicità, l’autenticità della nostra natura (non per nulla, nella terza premessa, la moralità necessaria per conoscere si chiama “povertà dello spirito”)» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 162).

Dell’incidenza del potere noi possiamo essere complici, se presuntuosamente pensiamo di potercela cavare da noi, senza una sequela intelligente e affettiva all’unico punto che ci è stato donato dal Mistero per strapparci dal nulla. La confusione, anche fra noi, può essere così profonda che, quando cerchiamo di indicare una soluzione alla situazione in cui viviamo, ci troviamo a ripetere le risposte di tutti: alcuni pensano che la soluzione sia mettersi d’accordo («stare insieme»), altri che essa si trovi nella politica, in una maggiore partecipazione alla distribuzione del potere, oppure nella carriera, o in una nuova avventura affettiva, e così via. Dopo duemila anni di storia cristiana, dopo anni di grazia del carisma, potremmo trovarci nella situazione dell’uomo prima di Cristo: una sconfinata varietà di tentativi ultimamente impotenti, in cui ciascuno enfatizza i suoi pregiudizi o gli aspetti più consoni alla sua indole.
«Chi ci libererà da questa condizione mortale?», diremmo con san Paolo. Che cosa ci è necessario? Quale esperienza? È da questa varietà di tentativi ultimamente impotenti che ci libera Cristo. Proviamo a ritornare all’origine.

2. CRISTO CHIARISCE IL SENSO RELIGIOSO
Invitandoci a immedesimarci col Vangelo di Giovanni, Giussani descrive in modo mirabile come è accaduto questo fatto.
«Finalmente questo Giovanni, detto il battezzatore, venne, vivendo in modo tale che tutta la gente ne era percossa e, dai farisei all’ultimo contadino, lasciava le case per andare a sentirlo parlare, almeno una volta. Saranno stati tanti o pochi, non sappiamo; in quell’occasione però ve n’erano due che vi andavano per la prima volta, ed erano tutti tesi, con la bocca aperta, nell’atteggiamento di chi viene da lontano e vede quello che è venuto a vedere con una curiosità senza barriere, con una povertà di spirito, con infantilità e semplicità di cuore [...]. Ad un certo punto una persona si stacca dal gruppo e se ne va lungo il sentiero che risale il fiume. Quando questi si muove, il profeta Giovanni Battista, improvvisamente ispirato, si mette a gridare: “Ecco l’Agnello di Dio. Ecco Colui che toglie i peccati del mondo”. La gente non vi fa caso [...]. Ma quei due, con la bocca aperta e con gli occhi sbarrati come due bambini, vedono dove si indirizza l’occhio di Giovanni Battista: su quell’individuo che se ne sta andando. Allora, istintivamente, gli si mettono alle calcagna, lo seguono, timidi, impacciati. S’accorge, lui, che qualcuno lo segue. Si volta: “Che cosa volete?”. “Maestro - rispondono - dove stai di casa?”. “Venite a vedere”, dice loro gentilmente. Vanno, “e videro dove abitava, e stettero con Lui tutto quel giorno”. Noi ci immedesimiamo facilmente con quei due seduti, che guardano parlare quell’uomo che dice cose mai sentite, eppure così vicine, così aderenti, così riecheggianti. [...] Loro non capivano, erano semplicemente afferrati, trascinati, travolti da quel parlare: Lo guardavano parlare. Perché è attraverso un “guardare” [...] che taluni uomini si sono accorti che c’era tra di loro qualcosa di inenarrabile: una Presenza non solo inconfondibile, ma incomprensibile, eppure così invadente. Invadente perché corrispondeva a quello che il loro cuore aspettava, in un modo senza paragone con nulla: padre e madre non avevano detto loro, quando erano piccoli, con altrettanta evidenza ed efficacia, ciò per cui il tempo della loro vita valeva la pena d’essere vissuto. Non avevano potuto e saputo dirlo; dicevano tante altre cose giuste, buone, ma come frammenti di qualcosa che si doveva cercare di afferrare nell’aria per vedere se uno si qualificava adatto all’altro. Una corrispondenza profonda. [...] Man mano che le parole arrivavano a loro, e che il loro sguardo, intontito e ammirato, penetrava quell’uomo, essi si sentivano cambiare, sentivano che le cose cambiavano: il significato delle cose cambiava, l’eco delle cose cambiava, il cammino delle cose cambiava». Il racconto non finisce qui, perché Giussani immagina il ritorno a casa di Giovanni e Andrea dopo l’incontro con Cristo: «E quando son tornati, la sera, sul finir della giornata - ripercorrendo molto probabilmente la strada in silenzio, perché mai si erano parlati tra loro come in quel grande silenzio in cui un Altro parlava, in cui Lui continuava a parlare e riecheggiava dentro di loro -, e sono arrivati a casa, la moglie di Andrea, guardandolo, gli ha detto: “Ma che hai, Andrea, che hai?”. E i figlioletti, stupiti, guardavano il padre: era lui, sì, era lui, ma era “più” lui, era diverso. Era lui, ma era diverso. E quando - come abbiamo detto una volta, commossi, con una immagine facile a pensarsi perché così realistica - lei gli ha chiesto: “Che cosa è successo?”, lui l’ha abbracciata, Andrea ha abbracciato la sua donna e ha baciato i suoi bambini: era lui, ma mai l’aveva abbracciata così! Era come l’aurora o l’alba o il crepuscolo di una umanità diversa, di una umanità nuova, di una umanità più vera. Quasi dicesse: “Finalmente!”, senza credere ai propri occhi. Ma era troppo evidente perché non credesse ai propri occhi!» (L. Giussani, Il tempo si fa breve, Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione. Appunti dalle meditazioni, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 1994, pp. 23-25).

Questa scena descrive meglio di mille parole come storicamente si è chiarito il senso religioso dell’uomo, perché ha trovato il suo vero oggetto. Incontrando Gesù, Andrea era lui, ma era “più” lui, era diverso. Infatti, «l’oggetto del senso religioso ultimamente è il Mistero insondabile; perciò, che l’uomo ci pensi in modo tale da avere mille pensieri su questo è comprensibile. Ma la verità è una, soltanto che è inarrivabile dall’uomo. Allora il Mistero è diventato un fatto umano, è diventato un uomo, un uomo che si muoveva con le gambe, che mangiava con la bocca, che piangeva con gli occhi, che è morto: questo è il vero oggetto del senso religioso. Allora, scoprendo questo fatto di Cristo mi si rivela, mi si chiarisce in modo grandioso anche il senso religioso» (L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, BUR, Milano 2000, p. 17). E così mi libera da tutti i miei tentativi.
Questa non è se non l’applicazione di una legge universale, da quando l’uomo è uomo -«La persona ritrova se stessa in un incontro vivo» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 182) -; ma qui, nell’incontro con la presenza del Mistero diventato un fatto umano, tale legge si compie, si invera in modo definitivo: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo» (Cfr. In epistola ad Ephesios, II, 4, 14), disse il retore romano Mario Vittorino annunciando pubblicamente la sua conversione. Perché «è in un incontro che io m’accorgo di me stesso. [...] L’io si desta dalla sua prigionia nella sua vulva originale, si desta dalla sua tomba, dal suo sepolcro, dalla sua situazione chiusa dell’origine e - come dire - “risorge”, prende coscienza di sé, proprio in un incontro. L’esito di un incontro è la suscitazione del senso della persona. È come se la persona nascesse: non nasce lì, ma nell’incontro prende coscienza di sé, perciò nasce come personalità» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., pp. 206-207).

Questo incontro ci abilita a scoprire il mistero del nostro “io”. «Era lui, ma era “più” lui», mai era stato così se stesso. Perciò, durante una conversazione, riferendosi al testo de Il senso religioso, don Giussani si domanda: «Perché il libro sul senso religioso lo abbiamo fatto noi […]? Perché noi abbiamo incontrato Gesù e, guardando Lui e sentendo Lui, abbiamo capito che cosa stava dentro di noi: “Chi conosce Te, conosce sé”, diceva sant’Agostino. [...] Perché per conoscere il senso religioso e per sviluppare il senso religioso abbiamo dovuto incontrare qualcheduno: senza questo maestro non ci saremmo capiti. Perciò posso dire a Cristo: “Tu sei proprio me”. “Tu sei me” glielo posso dire proprio perché, sentendo Lui, ho capito me stesso. Mentre chi cerca di capire se stesso riflettendo su di sé si disperde in miriadi di sentieri, in miriadi di idee, in miriadi di immagini» (L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, op. cit., pp. 17-18).

3. CRISTO EDUCA IL SENSO RELIGIOSO
Proprio perché Cristo svela e chiarisce il senso religioso dell’uomo, lo può anche educare. Qualcuno può pensare - anche chi ha già incontrato Cristo o vive in un contesto cristiano - che, essendo il senso religioso una dotazione originale, non vi sia alcun bisogno che esso venga educato o che, una volta ridestato, esso proceda da sé, diventi spontaneamente la dimensione di ogni istante. Il seguente brano di don Giussani ci aiuta a comprendere quanto ciò sia astratto: «Durante una conversazione in cui ebbi occasione di essere coinvolto, un importante professore universitario si lasciò sfuggire questa frase: “Se non avessi la chimica mi ammazzerei!”. Un gioco del genere, nella nostra dinamica interiore, anche quando non dichiarata, esiste sempre. Qualcosa c’è sempre che rende la vita degna ai nostri occhi di essere vissuta e senza la quale, anche se non si arrivasse ad augurarsi la morte, tutto sarebbe incolore e deludente. A quella “cosa” [il “dio”], [...] l’uomo offre tutta la sua devozione. Nessuno può evitare una finale implicazione: qualunque essa sia, nel momento in cui la coscienza umana vi corrisponde vivendo, è una religiosità che si esprime, è un livello di religiosità che si realizza. Il senso religioso ha come caratteristica sua propria di essere la dimensione ultima inevitabile di ogni gesto, di ogni azione, di ogni tipo di rapporto. [...] L’ineducazione del senso religioso [...] si documenta esattamente in questo: esiste in noi una ripugnanza divenuta istintiva a che il senso religioso domini, determini ogni azione coscientemente. È precisamente questo il sintomo dell’atrofia e della parzialità dello sviluppo del senso religioso in noi: quella difficoltà estesa e greve, quella estraneità che avvertiamo quando ci sentiamo dire che il “dio” è il determinante di tutto, è il fattore al quale non si può sfuggire, è il criterio in base al quale si sceglie, si studia, si completa il prodotto del proprio lavoro, si aderisce a un partito, si indaga scientificamente, si cerca una moglie o un marito, si governa una nazione» (L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, pp. 7-8).
Ciascuno può valutare l’ampiezza che assume in se stesso questa ripugnanza a lasciare che tutto nella propria vita sia determinato da Dio. Capirà così fino a che punto ha bisogno di lasciarsi educare al senso religioso. Infatti: «L’educazione del senso religioso dovrebbe, da un lato, favorire la presa di coscienza di quel dato di inevitabile e totale dipendenza che esiste tra l’uomo e ciò che dà senso alla sua vita e, dall’altro, aiutarlo a espugnare col tempo quella estraneità irrealistica che egli prova nei confronti della sua situazione originale» (Ibidem, p. 8).
Si capisce, allora, il motivo dell’Incarnazione: «Lo scopo per cui Dio è diventato uomo è quello di educare l’uomo al senso religioso, perché il senso religioso è la posizione esatta di partenza che l’uomo ha verso tutta la realtà e il Mistero stesso che fa la realtà. Perciò, seguire Cristo è essere nelle condizioni per affrontare la realtà e per camminare verso il destino nel migliore dei modi: si chiama salvezza, così come l’abbiamo chiamata qui, non nel senso definitivo del termine, ma nel senso dispositivo del termine. Se uno segue Cristo, è nelle condizioni migliori per affrontare la realtà e per affrontare il problema del destino» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, op. cit., pp. 286-287).

Ma oggi noi come veniamo educati al senso religioso? Partecipando alla vita di quella realtà dove Cristo rimane contemporaneo: la Chiesa. «La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere prolungamento di Cristo: è cioè la funzionalità stessa di Gesù. La funzione di Gesù nella storia è l’educazione al senso religioso dell’uomo e dell’umanità (proprio per poter “salvare” l’uomo!), dove per religiosità, o senso religioso, intendiamo - come già si è detto - la posizione esatta come coscienza e tentativamente come atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino» (L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., p. 195).
Questo dimostra la necessità della permanenza del Mistero nella storia. Infatti, se Cristo non rimane contemporaneo e non continua a sfidare l’uomo, questi ritorna a essere irrimediabilmente da solo. E da solo ciascuno sa fin dove può precipitare.
Come possiamo liberarci da questo inesorabile decadere?

4. CRISTO SALVA IL SENSO RELIGIOSO
Nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha spalancato. Perciò l’unica risposta alla nostra fragilità è la permanenza reale della Sua presenza.
La situazione storica in cui ci troviamo oggi in Occidente costituisce, in questo senso, una vera sfida anche per il cristianesimo, che è costretto a mostrare la verità della sua pretesa di rispondere alle esigenze dell’uomo. Non servirà, infatti, qualsiasi versione del cristianesimo a risvegliare l’umanità dell’uomo (lo sappiamo bene). Né un cristianesimo ridotto a discorso (“nozionale”, nel senso newmaniano del termine) né un cristianesimo ridotto a etica saranno in grado di tirar fuori l’uomo dal suo torpore (nel discorso alla Curia Romana il 20 dicembre scorso, Benedetto XVI ha parlato di «sonno di una fede divenuta stanca»), dall’appiattimento sempre più clamoroso del suo desiderio, del suo slancio originario, del suo gusto di vivere. È nella capacità di ridestare continuamente l’umano che si documenterà la autenticità del cristianesimo.

Solo un cristianesimo che conserva la sua natura originale, i suoi tratti inconfondibili di presenza storica contemporanea - la contemporaneità di Cristo -, può essere all’altezza del reale bisogno dell’uomo, ed è perciò in grado di salvare il senso religioso. Non si tratta di un postulato da accettare, ma di una novità umana da sorprendere in atto: l’annuncio cristiano si sottopone a questa verifica, al tribunale dell’umana esperienza. Se nell’uomo che accetta di appartenere a Cristo attraverso la realtà della Chiesa, concretamente e persuasivamente emergente nella sua esperienza (carisma), accade quello che egli stesso con le sue forze non è in grado di raggiungere - un impensabile risveglio e compimento dell’umano in tutte le sue dimensioni fondamentali -, allora il cristianesimo si rivelerà credibile e si renderà verificabile nella sua pretesa. «Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto» (Lc 6,44): ecco il formidabile criterio epistemologico che Gesù stesso ci offre. Il cambiamento generato dal rapporto con Cristo presente è tale che san Paolo non esita a esclamare: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). La creatura nuova è l’uomo in cui il senso religioso si realizza nella sua - altrimenti impossibile - pienezza: ragione, libertà, affezione, desiderio.
«Cristo me trae tutto, tanto è bello!» (Jacopone da Todi, «Lauda XC», in Le Laude, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1989, p. 313), esclamava Jacopone da Todi. È questa bellezza, come splendore del vero, l’unica cosa in grado di ridestare il desiderio dell’uomo e di muovere così potentemente l’affezione da rendere possibile in continuazione l’apertura della sua ragione alla realtà che ha davanti - «La condizione perché la ragione sia ragione è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 117) -. L’attrattiva di Cristo facilita (non realizza automaticamente) quell’apertura che sarebbe impossibile senza di Lui. La contemporaneità di Cristo consente così alla ragione tutta la sua apertura, permettendole di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta: ogni cosa, ogni circostanza, anche la più banale, è esaltata, diventa segno, «parla», è interessante da vivere. L’uomo così ridestato e sostenuto dalla presenza di Cristo può vivere finalmente da uomo religioso, sostenere la vertigine della vita, circostanza dopo circostanza, potendo «entrare in qualsiasi situazione dell’esistenza [in qualsiasi circostanza] con una tranquillità profonda, con una possibilità [o capacità] di letizia» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 148). La contemporaneità di Cristo si rivela così indispensabile per vivere appieno il senso religioso, cioè per avere l’atteggiamento giusto davanti al reale.
Se, al contrario, Cristo non viene vissuto come contemporaneo, le conseguenze non si fanno aspettare. La mancanza d’esperienza della contemporaneità di Cristo ci fa ritornare alla situazione precedente l’incontro cristiano, e anche se continuiamo a parlare di Cristo (come capita spesso), lo riduciamo di fatto a una delle tante varianti del senso religioso. «Per l’uomo moderno [questa è un’osservazione veramente acutissima di don Giussani, che ci rende consapevoli della situazione in cui viviamo], la “fede” non sarebbe genericamente altro che un aspetto della “religiosità”, un tipo di sentimento con cui vivere l’irrequieta ricerca della propria origine e del proprio destino, che è appunto l’elemento più suggestivo di ogni “religione”. Tutta la coscienza moderna si agita per strappare dall’uomo l’ipotesi della fede cristiana e per ricondurla alla dinamica del senso religioso e al concetto di religiosità, e questa confusione penetra purtroppo anche la mentalità del popolo cristiano» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 22).
Vi è una essenziale e irriducibile differenza tra le dinamiche della fede e del senso religioso: «Mentre la religiosità nasce dall’esigenza di significato destata nell’impatto con il reale, la fede è riconoscere una presenza eccezionale, corrispondente in modo totale al proprio destino, ed è aderire a questa Presenza. La fede è riconoscere come vero quello che una Presenza storica dice di sé» (Ivi). Tale differenza si vede soprattutto nel modo di muoversi della ragione. Nella fede cristiana non vi è più una ragione che spiega, ma una ragione che si apre - percependosi così finalmente compiuta nella sua dinamica - allo svelarsi stesso di Dio. Si capisce, allora, perché don Giussani dice che «il problema dell’intelligenza [non del sentimento o dello stato d’animo] è tutto dentro» l’episodio di Giovanni e Andrea (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 273). La fede è un atto della ragione mossa dall’eccezionalità di una Presenza: «La fede cristiana è la memoria di un fatto storico in cui un Uomo ha detto di sé una cosa che altri hanno accettato come vera e che ora, per il modo eccezionale in cui quel Fatto ancora mi raggiunge, accetto anch’io. Gesù è un uomo che ha detto: “Io sono la via, la verità, la vita”. È un Fatto accaduto nella storia: un bambino, nato da donna, iscritto all’anagrafe di Betlemme, che, diventato grande, annunciava di essere Dio: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Essere attenti a ciò che faceva e diceva quell’uomo, così da arrivare a dire: “Io credo a Costui”, aderire alla Sua presenza affermando come verità ciò che egli diceva, questa è la fede» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., pp. 22-23).
Perciò: «Immaginiamo quale sfida rappresenti per la mentalità moderna la pretesa della fede: che esista un uomo - a cui io posso dire “tu” - che dica: “Senza di Me non potete fare nulla”, che esista, cioè, un Uomo-Dio. Non ci si misura mai fino in fondo con tale pretesa; oggi né il popolo né i più grandi filosofi affrontano più il problema, e se lo affrontano è per consolidare il preconcetto negativo derivato dalla mentalità dominante. Si deduce cioè la risposta al problema cristiano - “Chi è Gesù?” - da concezioni precostituite sull’uomo e sul mondo. Eppure Gesù dice, come risposta: “Guardate le mie opere”, vale a dire “Guardatemi”, che è lo stesso. Invece non lo si guarda in faccia, lo si elimina prima di prenderlo in considerazione. La non-credenza è perciò un corollario che deriva da un preconcetto, è un preconcetto applicato, non la conclusione di una indagine razionale» (Ibidem, p. 23).

Ma ciò che ora ci interessa è soprattutto mettere a fuoco la conseguenza del rifiuto del metodo scelto da Dio per rispondere alla esigenza di significato totale dell’uomo propria del senso religioso: «Senza il riconoscimento del Mistero presente la notte avanza, la confusione avanza e - come tale, a livello di libertà - la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura che è come se non si attendesse più niente e si vive senza desiderare più niente, eccetto che la soddisfazione furtiva o la risposta furtiva a una breve richiesta» (L. Giussani, Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, p. 124). Senza il riconoscimento della contemporaneità di Cristo quello che viene meno è l’umano vero, lo slancio del senso religioso. Chi invece la riconosce, vede la sua umanità portata al di là di ogni immaginazione: «Che sia convertita a Cristo la nostra coscienza, il nostro modo di pensare, e la nostra affezione, il nostro modo di amare, vuole dire che continuamente tale coscienza e tale affezione sono portate, trasportate dove non avrebbero pensato, sono continuamente sollecitate a uscire da sé, vanno fuori di sé, sono continuamente portate dentro un terreno, dentro un territorio al di là di quello che si concepiva o che si sentiva prima. È sempre nell’ignoto che vengono introdotte, è una misura che si allarga: sono introdotte continuamente, la coscienza e l’affettività, in un orizzonte imprevisto, al di là della propria misura», e la vita acquista un respiro, una portata, una intensità mai conosciute prima (L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, p. 135).
Ciascuno ha con ciò anche il criterio di una verifica del suo cammino nella fede, della sua educazione al senso religioso: l’esaltazione della sua umanità originale. «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3); questa potrebbe essere la formula riassuntiva di una vera educazione del senso religioso. E per questo Cristo chiama beati coloro che l’hanno: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Questi testi ci mostrano il vero scopo di questa educazione: spalancarci così tanto da poterci riempire con una cosa che non possiamo produrre noi, ma che dobbiamo accettare, accogliere, abbracciare come un regalo. Solo chi ha questa semplicità di bambino, questa povertà di spirito, ha la disposizione per accoglierla.

Il lavoro che ci attende quest’anno sul testo Il senso religioso ha questo livello di decisività. Dalla serietà con cui lo affronteremo dipenderanno la nostra realizzazione come persone e il contributo che possiamo dare ai nostri fratelli uomini.


* Il senso religioso è «l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino; l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio essere dipendente e responsabile; il pronunciamento informe e naturale dell’anima circa il proprio arcano rapporto verso l’Essere supremo; il nativo gesto della natura umana in atteggiamento di adorazione e di supplica; l’esigenza dello spirito verso un Infinito personale, come dell’occhio verso la luce, del fiore verso il sole». Era il 1957 quando nella sua lettera pastorale per la Quaresima ambrosiana l’allora cardinale Giovanni Battista Montini adoperava queste parole. E pochi mesi dopo, Luigi Giussani pubblicava la prima edizione del testo Il senso religioso. Esattamente quarant’anni dopo, don Giussani terminò l’ultima e definitiva versione di quest’opera (che è anche il primo volume del suo fondamentale PerCorso).

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