Il tavolo della commissione "Morire con dignità".

CANADA Eutanasia della libertà

Alcuni infermieri in Quebec intervengono alla commissione parlamentare "Morire con dignità". Non parlano di bioetica, ma scombinano i lavori: «Il problema non è "scegliere", ma guardare in faccia la vita». Che poi è essere liberi
Alessandra Stoppa

Quella sua paziente voleva morire. Julien se lo ricorda bene: una donna arrabbiata e senza speranza che gli ripete quanto sia ingiusto vedere altri andarsene, smettere di soffrire, mentre lei è costretta a stare lì. «Se potessi chiedere l’eutanasia, non ci penserei due volte», gli dice. Passano alcuni giorni, Julien rimette piede nella sua stanza, e lei lo gela: «Che bella che è la vita». Le chiede se è impazzita: no, ha ricevuto la visita del fratello che non vedeva da anni.
«Io voglio essere per i miei pazienti quello che è stato il fratello della mia paziente per lei». Julien Leduc ha detto semplicemente questo quando si è trovato davanti ai deputati. È infermiere: insieme a un gruppo di colleghi ha chiesto di intervenire alla Commissione speciale dell’Assemblea nazionale del Quebec, che sta lavorando all’introduzione del suicidio assistito. La Commissione si chiama “Morire con dignità”. Il tentativo è introdurre attraverso protocolli guida la pratica dell’eutanasia, che in Canada è reato. Prima, si era cercato di depenalizzarla con un progetto di legge alla Camera dei Comuni. Bocciato il progetto, la provincia del Quebec tenta questa nuova via: i lavori della Commissione, di cui Tracce.it si è già occupato (leggi qui), sono iniziati nel dicembre del 2008. Ancora oggi, continuano i lavori e le audizioni.
Il 4 febbraio scorso, è stata la volta di alcuni infermieri. Insieme a Julien, è intervenuta anche Cristina Benetti. Lavora in sala operatoria, al Jewish General Hospital di Montreal, da otto anni. Ma è da ventisette che fa questo mestiere. «Pensate a quanti pazienti ho incontrato», ha detto alla Commissione: «Nessuno di loro mi ha mai chiesto di morire. Ma tanti erano disperati e molto sofferenti. Quello che ho imparato è che loro si guardano con gli occhi con cui li guardiamo noi». È l’alternativa di ogni giorno, scarna e radicale: «Posso entrare nella stanza e pensare: “Il paziente è ancora qui, non è ancora morto”. Oppure dirgli: “Iniziamo questa giornata insieme”. Il nostro lavoro è aiutare i pazienti ad affrontare la realtà della loro vita». Ed è solo per questo che è andata lì, davanti ai deputati: «Per difendere le ragioni per cui ho scelto di essere infermiera».
Pochi giorni prima dell’audizione, ha incontrato una sua paziente, malata di tumore, che non vedeva da quattro mesi. Dimagrita, portava i segni della chemioterapia. «Sai cosa c’è Cristina? Che vorrei vivere un altro anno…». «Anch’io», le ha risposto lei. E lo ripete ai deputati: «Siamo tutti nella stessa condizione. Né io né la mia paziente sappiamo cosa ci accadrà. Ma lei, per la malattia, ha una coscienza più grande di me, che le fa vivere il presente in modo diverso. La realtà chiede un cambiamento, ai pazienti e a noi».
Ha raccontato alla Commissione di quante persone malate ha visto cambiare in questi anni di lavoro: le ha viste andare incontro alla morte con una libertà che ha trasformato la vita di chi era accanto a loro, parenti, medici, infermieri. I vicini di letto. «Come saprete - ha continuato - un paziente che sta per morire o che perde la sua autonomia passa attraverso le “cinque fasi” di Kuble-Ross: rifiuto, collera, negoziazione, depressione, accettazione». Sono fasi che non accadono nel paziente secondo un ordine determinato, in ciascuno avvengono in tempi e modi diversi. «L’ho ricordato alla Commissione perché a noi è chiesto di accompagnare il paziente nella circostanza e nella fase in cui si trova, perché non sappiamo come e quando può cambiare».
Le reazioni dei deputati sono state immediate. Domande e provocazioni. Tutte attraversate dal problema della libertà: bisogna affermare la libertà di ciascuno rispetto alla sua vita. Cristina ha risposto che è vero, che «quello dell’eutanasia è un problema di libertà». Ma «la libertà non è scegliere se vivere o morire. Io ho visto che l’esperienza della libertà è quella di poter guardare in faccia la vita e fino in fondo, di poter vivere quello che ci accade e che noi non scegliamo. Solo così conosciamo veramente la vita e noi stessi. Ma nessuno può fare questo da solo». È per questo che la proposta della Commissione interpella il senso stesso del suo lavoro.
«Di fronte a quei deputati - racconta - ho riscoperto che lo sguardo cristiano sulla vita risponde all’uomo in modo totale, non riduce la sua vita e la sua esperienza alle nostre categorie. Proporre l’eutanasia è, invece, bloccare il processo della libertà di fronte alle circostanze. È bloccare la conoscenza, della vita e di se stessi. Introdurre l’eutanasia è una riduzione della libertà». Ed è questo che ha detto ai deputati. Davanti alle loro domande, anche lei ha chiesto una cosa: «Ma voi che cosa vi augurate per il vostro Paese? Che sia fatto di mezzi-uomini? O di uomini veramente liberi, davanti alla vita e alla morte?».
Alcuni amici, quel giorno, hanno sentito la diretta dell’audizione alla radio. Poi hanno chiamato Cristina, entusiasti: «È stato potente!». Ma non erano infiammati dalla dialettica bioetica. «Voglio anch’io la libertà davanti alla vita di cui hai parlato oggi», le ha detto uno di loro. Quella libertà è questione di vita o di morte. Che si sia malati o sani. Conoscere il fondo di ogni istante. Oppure si muore anche senza morire.