Padre Pierbattista Pizzaballa.

«La svolta araba ci chiede di cambiare»

La paura per le conseguenze delle rivolte oscura «il cambiamento epocale in atto». Padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa, commenta per "Tracce.it" la fragilità di «regimi che sembravano inossidabili». E lo smarrimento della Comunità internazionale
Alessandra Stoppa

«Eravamo tutti, e lo siamo ancora, impreparati». Della scossa rivoluzionaria che sta attraversando Nord Africa e Medio Oriente, la cosa che lo impressiona di più è la facilità con cui i regimi di Tunisia ed Egitto sono caduti: «Ci sembravano forti e inossidabili, erano fragilissimi». Padre Pierbattista Pizzaballa, francescano bergamasco da sette anni Custode di Terra Santa, è sicuro che nessuno - fuori e dentro le stesse società arabe - si aspettasse «la potenza e la velocità con cui sono crollati sistemi così cristallizzati». E ripete, con una certa insistenza, che siamo di fronte a «un cambiamento epocale».

Crede che non sia chiaro a tutti?
Prendono il sopravvento gli scenari possibili e le prospettive di incertezza. Che sono preoccupazioni assolutamente realistiche, ma per fissare l’attenzione su quelle si rischia di non guardare bene i fatti attuali, la loro portata. Parlare di un punto di rottura storico non è esagerato, come sembra risuonare in alcune dichiarazioni. Non ci si può autoconvincere che la rivoluzione porterà a regimi islamici di matrice fondamentalista, perché questo vuol dire restare legati a una visione del mondo pessimistica. Invece la storia del Medio Oriente ci sta dimostrando di essere capace di sorprese anche positive.

Che cosa può essere giudicato positivo, indipendentemente da come evolverà la situazione?
Innanzitutto, la caparbietà e la determinazione del popolo. Nel vedere il mondo esterno andare avanti e il proprio restare fermo, la gente ha reagito in un modo che, fin ora, non è stato cavalcabile. Ovviamente, questa positività l'abbiamo vista in Egitto, mentre in Libia è travolta da una tragedia completamente diversa, per la brutalità della dittatura, per l’assenza di una struttura di Stato e per il sistema tribale. Ma resta il fatto che facciamo fatica a cogliere l’impatto positivo di questa rivoluzione, anche perché siamo legati a categorie socio-politiche che in Medio Oriente non valgono: quello arabo non è il mondo degli aut-aut come l’Occidente, in cui le scelte politiche sono dicotomiche, esclusiviste. Bensì degli et-et, dove le sfumature sono molto più importanti.

Si può parlare di un cambiamento anche interno all’islam?
No, perché di islam ce ne sono tanti. Con elementi generazionali, sociali, culturali, persino tribali, molto diversi fra loro. Ma di certo il mondo religioso musulmano dovrà fare i conti con quello che sta accadendo. Perché la rivolta è una domanda che esplode, è un segno evidente di frustrazione.

Lei pensa che davanti a questa svolta epocale anche la Comunità internazionale si sia rivelata impreparata?
Assolutamente. Da una parte, perché non ha accompagnato questi cambiamenti. Li ha seguiti, ma non li ha accompagnati. E non sono state nemmeno le grandi potenze a produrli. Dall’altra, perché la Comunità internazionale va a tentoni, non sa come “agganciare” quello che sta accadendo. Ma io sono fiducioso, anche perché questo “disorientamento” è il segno della conseguenza più importante.

Quale?
Che questi cambiamenti chiedono un cambiamento a noi.

L’Italia lo capisce bene, anche solo per l’ondata di sbarchi…
Come uomini e come cristiani, ci è chiesto di affrontare la situazione, che vuol dire innanzitutto accogliere un cambiamento, ognuno nel proprio ambito. E, quindi, anche secondo logiche politiche, che vanno valutate con attenzione.

Che riflesso hanno avuto i fatti nordafricani in Palestina ed Israele?
Dal punto di vista ordinario, non ci sono state conseguenze, almeno non ancora. Ma il mondo arabo è molto emotivo, per cui l’euforia collettiva è arrivata come un’onda lunga anche qui. Credo che la dirigenza palestinese non sia entusiasta come lo è la popolazione... Ma è soprattutto Israele ad avere seri motivi di preoccupazione: il mondo arabo è diviso su tutto, tranne che sull’odio a Israele.

Qual è l’urgenza della Chiesa e della vostra missione di fronte a questa svolta?
Noi non siamo in Medio Oriente per rispondere alle esigenze immediate. Noi siamo qui per custodire una memoria che è sempre la stessa: la memoria dell’Incarnazione. Questo significa testimoniare, innanzitutto nei rapporti, una passione per l’uomo, perché se Dio si è incarnato nell’uomo, l’uomo è da amare così com’è. E per la Chiesa è lo stesso. I cristiani devono stare dove sono, vivendo l’appartenenza a fondo, portando il loro contributo, che è capacità di perdono, di speranza dentro a tutto. La continua scommessa sulla possibilità reale che l’uomo cambi.