Giappone, dopo lo tsunami.

GIAPPONE Cosa ci dicono quei volti?

Tra rottami e macerie. O in fila per il pane. Ordinato e silenzioso. Abbiamo chiesto a Vittorio Volpi, grande conoscitore del Giappone, di raccontarci il popolo nipponico: «Evitiamo gli stereotipi: una cultura diversa, ma il cuore è lo stesso di tutti»
Paolo Perego

Poche lacrime. E nascoste. Compassati. Discreti. Tra le macerie di città fino a qualche giorno fa mai sentite: Miyako, Kamaishi, Natori, Kasennuma... Nomi vuoti che una mattina, all’improvviso hanno iniziato a prendere la forma di volti, di persone. Decine di migliaia di facce travolte prima dal terremoto e poi dalla furia dell’acqua del mare. E poi ancora bombardate da radiazioni. Il terremoto dell’11 marzo in Giappone ha aperto una finestra su un mondo conosciuto solo per luoghi comuni. I giapponesi: grandi lavoratori, metodici, precisi. E pure adesso, li guardi in mezzo a fango e rottami, o in fila per il pane, o per il treno degli sfollati. Che fanno? Ordinati, zitti, dignitosi, tranquilli. «Li osserviamo per stereotipi: i kamikaze, i samurai. Non c’entra nulla. Al contrario questo modo d’essere fa parte della loro storia culturale». Vittorio Volpi è un grande conoscitore del mondo nipponico. Banchiere, per trent’anni ha lavorato a Tokyo. Oggi è responsabile di una società di consulenza e fa parte della Fondazione Italia Giappone, un organismo che si occupa di promuovere l’immagine e la cultura dell’Italia in Giappone e viceversa.

“Storia culturale”. A cosa si riferisce?
La storia della civiltà giapponese ha quasi tremila anni. Prendiamo poi il dato delle duemila scosse all’anno che si registrano a Tokyo, di cui se ne avvertono circa il 10 per cento. Quanti terremoti, tsunami, tifoni hanno visto nella loro storia i giapponesi? Hanno imparato a vivere in un Paese dove c’è sempre pericolo.

Quindi non hanno paura?
Ne hanno, anche se sono abituati. In trent’anni li ho visti. Quando il movimento è sussultorio anziché ondulatorio, e dura più di un minuto, allora vedi che le loro facce diventano terree. Solo che sono abituati a non mostrare emozioni davanti agli altri, secondo l’educazione che hanno ricevuto fin da piccoli. Una mamma in Italia dice al figlio di non fare qualcosa perché è male. In Giappone gli direbbe: «Non farlo, pensa cosa diranno gli altri». È una cultura che riflette un atteggiamento conformistico, gruppistico di un popolo che per tremila anni ha vissuto su tre isole, separato dal mondo.

E tutta questione di come si concepisce la vita, allora?
La vita, ma anche la morte. Noi viviamo in una cultura giudeo-cristiana. Prendiamo la parola “suicidio”. In quasi tutte le lingue ha cinque o sei modi per essere detto (si è tolto la vita, si è ammazzato...). In Giappone, invece, ci sono più di 60 espressioni per definirlo, a seconda delle modalità usate (per esempio seppuku e harakiri sono quasi la stessa cosa, il taglio del ventre, ma il primo è dei ricchi, il secondo dei poveri, ndr). Per noi è una ribellione verso il Creatore, e in genere è condannato dalle società. Da loro può essere un atto catartico, liberatorio. Apprezzato da tutti. Un padre di famiglia fallito che uccide moglie e figli e si toglie la vita per evitare a sé e a loro il disonore e la fatica del vivere fa un atto che trova il rispetto e la comprensione di tutti. Anche il suicidio per un amore impossibile è accettato. È una cultura che ha in sé il portato del buddismo, per cui la morte non è l’ultima parola perché c’è la reincarnazione, e dello scintoismo, la religione panteistica e animistica del passato giapponese, dove la vita è una linea perpetua tra passato, presente e futuro. La questione è quella che scriveva Croce: «Non posso non dirmi cristiano». Nel senso che la cultura si permea dei valori della religione, e diventano parte di noi fin dalla nascita.

Guardare le immagini ti fa pensare che non chiedano nulla. Come se, pazienti, aspettassero.
Hanno la coscienza che qualcuno si muoverà per loro. E infatti la comunità si è già mossa: le banche, lo Stato, i soccorsi. Questo li fa rimanere in attesa. Fa parte di questa cultura “gruppistica”. È qualcosa di unico. Pur avendo girato il mondo, non ho mai conosciuto altre culture dove l’io è censurato così. È questa matrice confuciana che sta dietro la struttura del pensiero giapponese e che negli anni si è sincretizzata con buddismo, animismo e scintoismo. Ha creato un popolo per cui il senso di essere insieme sulla stessa barca è fortissimo.

È una umanità così lontana dalla nostra, quindi?
Nel modo di manifestare le cose. E nel modo di viverle. Confucio non ha mai parlato di Dio o della Creazione, ma di come tenere ordinato il mondo. Davanti a un fatto come questo pensano: «È successo, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo andare avanti accettando la realtà». Non si chiedono perché è successo. È successo e basta. Quando andai al funerale di un collega di 60 anni, entrai a casa sua. C’erano tanti gigli bianchi e la sua fotografia. Poi è arrivata la moglie e mi ha detto: «Mio marito sarà contento che lei è venuto a trovarlo». Non le è scesa una lacrima. Loro sono così. Noi ci fermiamo all’apparenza nel dire: «Sono bravi e razionali». Soffrono come noi, come chiunque davanti a un dramma. Il cuore è lo stesso ovunque. E pensare che stiano già metabolizzando una catastrofe del genere è riduttivo e ingenuo. Solo lo vivono diversamente. Innanzitutto nel dire: è successo, purtroppo a me, e non posso farci niente, continuo la mia vita. E poi nel rimboccarsi le maniche senza chiedere la carità, ma con il proprio impegno, per ricostruire la vita. Ma non come samurai: quelli sono finiti, morti e sepolti.