Nicolò Zanon.

GIUSTIZIA Vi spiego cosa cambia al "parlamento delle toghe"

La riforma della Giustizia inizia l'iter parlamentare. E l'opposizione al provvedimento è feroce. Ma «il cambiamento è indispensabile». Nicolò Zanon, costituzionalista e membro del Csm, spiega, punto per punto, il disegno di legge
Alessandra Stoppa

Il 10 marzo il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge di riforma della Giustizia. È una legge di revisione costituzionale - modifica il titolo IV parte II della Carta - per cui dovrà essere approvata due volte da entrambi i rami del Parlamento: se avrà il consenso di due terzi, entrerà subito in vigore. Se no, con ogni probabilità, si passerà al referendum popolare.
Si tratta davvero della tanto attesa “riforma epocale” di un sistema giudiziario condannato anche dagli osservatori internazionali («un incubo» lo definì il The Economist: «Intrusivo, eppure lento, costoso e imprevedibile»)? Lo abbiamo chiesto a Nicolò Zanon, costituzionalista e membro laico del Consiglio superiore della magistratura (Csm).
Che ci guida tra i punti cardine del ddl, per capirne le conseguenze reali sul sistema.

È necessaria una riforma della Giustizia?
Una revisione costituzionale è indispensabile. Ed è anche un esercizio di democrazia al massimo livello. Chi si strappa le vesti affermando che è una follia è ideologico. Non è ragionevole opporsi a priori a questo cambiamento. O nascondendosi dietro alle vicende dell’“imputato premier”, che non hanno assolutamente nulla a che vedere con la riforma, la quale peraltro non verrà applicata ai procedimenti penali in corso. Quello che è giusto fare è ragionare nel merito del provvedimento.

Facciamolo. Il punto più “caldo” è la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti.
È uno degli aspetti principali perché risponde al criterio ispiratore di tutta la riforma: quello di far emergere il giudice rispetto al pubblico ministero. Questo è quanto si può capire per ora, in linea di principio: in sostanza, il ddl introduce una netta distinzione dal punto di vista della carriera tra le due funzioni della magistratura. E fa questo non agendo sulle norme processuali, ma sulle regole organizzative della carriera: il concorso di accesso non sarebbe più unico ma distinto, e il cambiamento da una carriera all’altra potrà avvenire solo tramite dimissioni.

Perché è così importante separare le carriere, incide anche sui ruoli processuali?
L’appartenenza alla stessa organizzazione burocratica e ordinamentale lede proprio la distinzione dei ruoli nei processi. Non va bene che giudici e pubblici ministeri facciano parte dello stesso ordine, siano governati dal medesimo organo (il Csm), abbiano gli uffici vicini e magari appartengano anche della stessa corrente associativa. Anche oggi, ovviamente, c’è una distinzione di funzioni e una certa “terzietà” del giudice, ma questo deve trovare una corrispondenza nell’organizzazione. Tanto che il ddl vuole spezzare l’unicità di ruolo anche introducendo due Csm: uno per amministrare la carriera dei pm, l’altro quella dei giudici.

Il “doppio” Csm è un altro punto cardine della riforma, insieme alla sua nuova composizione: cambia la proporzione tra membri laici e togati.
Sì, oggi il Csm è composto per due terzi da togati e per un terzo da laici (tecnici del diritto eletti dal Parlamento in seduta comune, ndr). Il ddl prevede la quasi parità: metà saranno laici e metà togati.

Perché «quasi» parità?
In realtà, con i membri di diritto (il presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione che faranno parte - rispettivamente - del Csm dei giudici e di quello dei pm) i togati avranno sempre la maggioranza numerica.

Ma entrambi rimarranno presieduti dal Capo dello Stato?
Sì, questo è molto importante. Perché il Capo dello Stato conferisce la sua autorevolezza all’organo e la sua è una presidenza “alta”, non quotidiana, né di gestione, ma di garanzia con poteri reali. La sua presenza e la composizione “mista” indicano che si vuole evitare derive “autoreferenziali” dell’organo giudiziario.

Questi cambiamenti, lo sdoppiamento e la nuova composizione, possono incidere davvero sulla “politicizzazione” del Csm?
La “politicizzazione” è da capire bene. Da una parte, la presenza di laici votati dal Parlamento conferma il legame necessariamente “politico” del Csm con l’intero sistema costituzionale. Dall’altra, c’è la “politicizzazione” in senso deleterio: accade che i laici siano vincolati da logiche partitiche. Così come i togati abbiano un atteggiamento subalterno a logiche politiche, o di collateralismo politico. Ciò che fa più inconvenienti è la deriva “correntizia” tra i togati, che sostengono a priori gli affiliati alla propria corrente, o attribuiscono al Csm ruoli impropri.

Ma la riforma può garantire da queste derive?
Da una parte argina la deriva correntizia dei togati, ma aumenta il rischio delle logiche “partitiche” perché aumenta i laici. Solo scelte di alto livello da parte del parlamento e permetterebbero di incidere davvero su questo aspetto. Mentre per i togati c’è già una novità importante.

Quale?
Saranno eleggibili «previo sorteggio». Questa è una scelta dirompente, su cui nel dibattito pubblico non si è ancora ragionato. Non sappiamo ancora come sarà la legge ordinaria, ma ad ora potremmo ragionare così: saranno presi tutti i magistrati, ne verrà sorteggiata una piccola parte, e tra questi i magistrati eleggeranno i membri togati. Questo “spaccherebbe” le logiche di corrente. Oggi vengono scelti i candidati che fanno una propria e vera campagna elettorale in nome e per conto della loro corrente…

Ma il sorteggio non ostacola una logica di merito?
Il sorteggio affermerebbe che chiunque può arrivare al Csm e che la elezione non è un “premio”. Mentre oggi il Csm è vissuto come un traguardo di grande prestigio, un trampolino per incarichi importanti. Su questo si scatenerà una lotta fortissima, anche per il fatto che il sorteggio potrebbe anche comportare un abbassamento di rango, di qualità degli eletti. Aumenterebbe la disparità con i laici, che invece hanno una legittimazione forte, perché sono eletti dal Parlamento in seduta comune.

Altro punto: l’obbligarietà dell’azione penale. Oggi è radicale: con la notizia criminis, il pm si attiva in automatico. Cioè, l’azione penale non è sottoposta a una valutazione di opportunità. Perché questo principio viene toccato?
Da tempo si è posto il problema di questa regola assoluta. Che è molto importante, per due ragioni: garantisce l’uguale soggezione di tutti alla legge penale e garantisce l’indipendenza del pm, che non agisce su istruzioni di altri poteri. Ma, allo stesso tempo, è un falso feticcio.

Per la mole di lavoro?
Sì, l’obbligatorietà nei fatti non regge. Gli uffici delle Procure non riescono a perseguire tutto e tutto allo stesso tempo: è inevitabile che diano delle priorità. Per questo, alcuni procuratori intelligenti, capendo di non poter scegliere caso per caso, né “di nascosto”, hanno deciso che i criteri dovessero essere pubblici e soprattutto ex ante. Hanno mandato circolari ai loro sostituti, dando criteri di priorità nel loro esercizio dell’azione penale. Ma la scelta di perseguire “che cosa e quando” non è del magistrato, è una scelta che spetta alla politica. Per questo, il ddl interviene sull’obbligatorietà. Il problema è, però, che la riforma rimanda ai «criteri stabiliti dalla legge», per cui dipenderà dal legislatore ordinario.

Passiamo alla responsabilità civile dei magistrati.
Anche qui il ddl compie una scelta netta. Il magistrato è «direttamente responsabile» delle sue violazioni, come tutti gli altri funzionari dello Stato. Viene meno l’attuale filtro dello Stato, che risponde per lui. Ma quello che non funziona oggi sono i meccanismi procedurali, più volte sanzionati dall’Ue. Per esempio: nella legge vigente, dalla responsabilità sono esclusi a priori la mala interpretazione del fatto, della norma e delle prove. Eppure l’errore abnorme con dolo o colpa grave avviene sempre per uno di questi tre motivi. Ma nella riforma hanno deciso di intervenire togliendo lo schermo dello Stato. A mio avviso, l’idea della responsabilità diretta non era necessaria: al cittadino non cambia nulla se a risarcirlo è lo Stato o il singolo magistrato. E, soprattutto, per il magistrato è davvero molto condizionante lavorare sotto la pressione di azioni di responsabilità civile. Un bilanciamento più sapiente avrebbe modificato le procedure, tenendo lo schermo dello Stato. (Mentre scriviamo, alla Camera passa un emendamento leghista al ddl comunitario che “allarga” la responsabilità civile a qualsiasi «manifesta violazione», ndr).

Cambia anche il rapporto tra magistrati e polizia giudiziaria.
Il ddl vuole modificare il legame, ma anche qui si pone un problema serio: la polizia ha una doppia dipendenza. Dipende dal pm come funzione giudiziaria (il pm dispone della polizia per le indagini), ma dipende anche dalla politica: in termini di carriera, dipende dal Ministero degli Interni. Per cui se si spezza la dipendenza funzionale, resta solo la “soggezione” all’esecutivo.

Ultimo punto: l’inappellabilità. Il ddl stabilisce che se sono prosciolto in primo grado, il pm non può ricorrere in appello. A parte in alcuni casi, di cui si occuperà il legislatore. Qual è l’idea di fondo di questa modifica?
Un principio molto liberale: una condanna in appello dopo un’assoluzione in primo grado è di per sé un paradosso, perché in primo grado sei stato prosciolto. E questo vuol dire che anche la condanna in appello non può sconfiggere ogni «ragionevole dubbio». Consideriamo anche che, di fatto, la parità tra difesa e accusa non c’è mai: da una parte, abbiamo lo Stato che accusa; dall’altra, il singolo privato che si difende. Se il potere pubblico, con tutto il suo peso, le sue energie, il suo servizio, lo assolve, non è sbagliato fermarsi lì.

La realizzazione di questa riforma è molto incerta, sia per l’opposizione che provoca sia per i tempi necessari: crede sia probabile che si raggiungerà il risultato questa volta?
La legislatura ha davanti a sé due anni. In linea di principio, i tempi sono sufficienti, ma la finestra si restringe perché il Parlamento non lavora continuamente e soprattutto ha delle sessioni riservate a certe materie (per esempio, la Finanziaria a fine anno), per cui lo spazio concreto per far partire la riforma e concluderla è in realtà esiguo. Le due fasi della doppia votazione nei due rami del Parlamento devono concludersi prima che si sciolgano le Camere: l’unico aspetto che può realizzarsi anche dopo è il referendum popolare.

Nel complesso, qual è la forza di questo ddl?
La forza più evidente è la matrice liberale che emerge a tratti, soprattutto nell’idea cardine di far risaltare il giudice terzo. E poi nel ricondurre il Csm al suo ruolo amministrativo, tarpando la tentazione della magistratura di renderlo un “parlamento delle toghe”.

Le debolezze?
I difetti sono, essenzialmente, alcune incertezze tecniche e la presenza di troppi rinvii alla legge ordinaria. Troppi aspetti, alcuni cruciali, sono affidati alle scelte che dovrà fare il legislatore. Alcune cose sarebbe stato meglio chiarirle in Costituzione. Ora, c’è chi enfatizza questa criticità, parlando di “decostituzionalizzazione” delle garanzie d’indipendenza dei magistrati, ma questo è troppo. Nel ddl ci sono scelte tecniche opinabili, ma non c’è nessun “attentato” alla Carta.

Nell’attesa di una Grande Riforma, e di fronte alla possibilità che anche questa volta il risultato sfumi, cosa vuol dire per lei non “rimandare” continuamente il cambiamento?
Ad oggi, io vedo che ci sono tante patologie, ma anche tanti esempi positivi di impegno. Non passerei il tempo a flagellarci. Che è un vizio tutto italiano. È nel presente che dobbiamo fare il meglio con le cose che abbiamo. Ciascuno deve fare bene nel suo ruolo, con le sue forze, nel quotidiano. Questo sarebbe già tutto, prima e al di là delle norme.