La scrittrice Dacia Maraini.

Gli sbarchi che (non) conosciamo

È "allarme immigrazione". Ma dietro quei 25.000 che hanno raggiunto l'Italia ci sono vite, speranze. Persone. La scrittrice ci spiega perché il mondo arabo in rivolta ci fa paura. E preferiamo gestirlo, piuttosto che conoscerlo
Alessandra Stoppa

La loro vita è rimasta a ondeggiare a galla, nel silenzio sotto il cielo, lontano da casa. Dispersi, si dice, per alleviare la fine disgraziata di certi uomini. O bambini. Erano in duecentocinquanta nell’ultima fuga sul mare di notte. Sono annegati tutti perché il battello che li portava dalla Tunisia a Lampedusa era vecchio e loro troppi, e forse lo sapevano, ma nessuno voleva rinunciare. A che cosa?
Noi pensiamo di saperlo. Sappiamo da dove vengono e questo ci basta per dire che cosa cercano e perché. Sui 25mila profughi sbarcati dal Nord Africa andiamo avanti per deduzioni, che appiattiscono le loro storie in un “allarme immigrazione” previsto, ma che ci ha colti di sorpresa. Che si gestisce ma non si sa affrontare. «Stiamo dando risposte povere e prive di immaginazione», scrive sul Corriere della Sera Dacia Maraini. Per lei, il problema delle risposte è nelle domande. Che non si fanno. «Nessuno chiede nulla ai diretti interessati. Si dà tutto per scontato. È singolare questa assoluta mancanza di curiosità. E molto grave».

Perché?
Perché la cosa più importante è conoscere quello che si ha davanti. Prima di prendere qualsiasi decisione, anche politica. Invece nessuno va a vedere davvero, nessuno va ad incontrare questi uomini. Tanto che a lungo andare non ci sembrano nemmeno più persone.

E cosa vuol dire trattarli come persone?
Provare a conoscerli nelle loro speranze reali e profonde, nella loro volontà. Si preferisce coprirli di etichette. Sappiamo che per lo più vengono dalla Tunisia, sono giovani che spesso hanno studiato ma non trovano lavoro, per cui fuggono. Punto e basta. Ci accontentiamo di una conoscenza vaga e distratta. E su questa costruiamo i dibattiti e le ipotesi. Ma le soluzioni socio-politiche sono inevitabilmente deboli, perché per conoscere le cose bisogna guardarle bene. Nelle risposte alla curiosità che dovremmo avere nei confronti degli immigrati, per esempio, sta il segreto di questo movimento epocale, ma anche il segreto di come affrontarlo.

La mancanza di conoscenza di cui lei parla è una debolezza culturale?
Sì, perché manca la base, l’azione principale e anche la prima da mettere in campo: quella, appunto, di “entrare” nelle questioni. Invece, quello che prevale oggi è la tendenza a chiudersi. Ed è paradossale, aggiungerei, data l’“apertura” di questo momento storico: la globalizzazione, diremmo, con il crollo delle frontiere, gli scambi e i rapporti più facili.

Perché c’è questa chiusura?
Perché si ha paura.

Di che cosa?
Della libertà. La libertà fa paura quando la si percepisce come una voragine, come un ignoto. Quando è qualcosa di non riconoscibile, di sconosciuto. Ciò che sta investendo il mondo arabo, e di conseguenza noi, è proprio una nuova libertà. Fino a essere la libertà di un altro che arriva nella tua terra. Non conoscendo che cosa ci aspetta - e che cosa ci si aspetta da noi - ci spaventiamo e blocchiamo. Ma questo vale su tutto, lo vediamo negli aspetti anche più semplici e banali della vita: ci attacchiamo alle cose che conosciamo già, a cui siamo abituati. Perché ci danno sicurezza. Ma bisogna trovare il coraggio di andare oltre.

Secondo lei, che cosa permette di vincere questa paura?
A me pare un cane che si morde la coda, perché la paura è superata solo conoscendo. Torniamo al punto di partenza. Ma non ci sono alternative: se vogliamo liberarci dai luoghi comuni, dobbiamo conoscere a fondo e superare quella paura che è una cattiva consigliera, perché non ci permette di affrontare razionalmente e adeguatamente la realtà, i problemi.

Sembra che ci si ostini a volerli risolvere, senza capirli?
Esattamente. Tendiamo a generalizzare e non riusciamo a intervenire. È vero che c’è un’emergenza - anche se non è la prima volta, noi abbiamo già vissuto l’ondata dei trentamila albanesi - ma poi bisogna scavare in questi movimenti che la storia ci mette davanti, perché diversamente non si riuscirà mai a dare una risposta decisiva. Nel caso, io vedo due strade: da un parte, nei Paesi d’origine, aiutare a costruire luoghi e occasioni di lavoro; dall’altra, iniziare seri programmi di integrazione qui. Anche se, a quanto sembra, sono gli stessi profughi a non volersi fermare. Proprio com’era accaduto con gli immigrati dall’Albania: in parte si sono integrati, altri sono rimpatriati, altri ancora si sono spostati nel resto d’Europa.

Al di là degli sbarchi, crede ci sia un’incapacità anche nel capire tutto il movimento che sta attraversando il mondo arabo?
Nel guardare a quello che sta accadendo, usiamo solo le categorie che ci sono proprie, non ultime quelle dello scontro di civiltà. Così facendo non consideriamo la novità epocale in atto, a cui io mi sento di dare credito. Mi sembra molto chiaro che queste persone non si stanno muovendo in nome di parole d’ordine religiose. Le rivolte popolari del mondo arabo sono sempre state fatte in nome del fanatismo: io mi ricordo molto bene l’Iran ai tempi della cacciata dello scià, dove la gente aveva i cartelli con le facce degli imam. Tutto era una spinta religiosa. Ma oggi è diverso e questo cambiamento è enorme. Io non credo alla prospettiva di una pianificata invasione islamica con gli sbarchi a fare da “cavallo di Troia” (secondo l’interpretazione di Guido Ceronetti su La Stampa del 5 aprile; ndr). È vero che non sappiamo dove questa trasformazione porterà, ma proprio per questo va conosciuta e capita.