Faccia a faccia con NOI

PRIMO PIANO - EMERGENZA IMMIGRAZIONE
Fabrizio Rossi

Sono arrivati nel nostro Paese a migliaia. E per mesi le reazioni si sono sprecate. Ma che cosa ci chiede la loro presenza ora? E perché dovremmo accoglierli? Abbiamo provato a vedere se è solo un problema da risolvere. O se è la possibilità di conoscere di più la realtà e noi stessi. A partire da chi sono loro...

Non sono più in prima pagina, perché?la risacca delle notizie va e viene e dopo l’ondata del mese scorso altre urgenze (Bin Laden, le elezioni)?confinano gli sbarchi dei profughi nelle pagine interne. Però ci sono. E sono tanti. Trentamila almeno. Forse più, visto che gli approdi a Lampedusa non si fermano. Comunque, abbastanza per metterci di fronte a una sfida che pure, in questi giorni di polemiche infinite, non è stata affrontata fino in fondo. Si è discusso molto di accoglienza. Ci si è lamentati (a ragione) dell’Europa.
Soprattutto si sono visti affiorare tutti i limiti, uguali e contrari, di posizioni a prima vista opposte. Il disarmante «fuori dalle scatole» di Umberto Bossi vale l’impraticabile «tutti dentro» di molti esponenti del centrosinistra. Ed entrambi fanno il paio con l’irritante «non è un problema nostro» di tedeschi, francesi ed euroburocrati vari. Tutte posizioni sfuggevoli e impotenti. Incapaci di reggere alla piena.
La verità è che un problema improvviso e imponente come questa ondata fa venire a galla qualcosa che sta prima delle posizioni - o delle soluzioni - politiche.
Una posizione umana. Un uso della ragione. Non è un problema anzitutto etico, ma di conoscenza. Di rapporto con la realtà.
Allora ci siamo chiesti, semplicemente: che cosa permette di affrontare il problema, di starci di fronte senza fuggire? Di guardare gli immigrati per quello che sono, persone? E cercare una risposta al loro dramma - complicata, difficilissima - mentre in un modo o nell’altro si fa un pezzo di strada insieme, sia quello che ti fa dire «resta, è ragionevole» o quello che porta ad un «ti aiuto a tornare a casa»?
Ecco un accenno di risposta, in tre tappe. Un viaggio tra gli immigrati per capire chi sono, al di là dei numeri. La testimonianza piena di ragioni di chi spende la vita per accoglierli come persone, appunto.
E un’intervista che aiuti a capire che cosa c’è in gioco, davvero.
Buona lettura.

«Io non ho programmi». Tiene gli occhi bassi, Mhadeb, quando gli chiedi cosa farà. Andare in Francia? Chissà. Tornare a Milano? Forse. Ma in cerca di cosa? «Non so...». Intanto, s’abbandona su una sedia della stazione. Accende una sigaretta. Qualche metro più in là, un suo compagno di viaggio dorme su un materasso in mezzo al corridoio. Ne ha fatta di strada fino a Ventimiglia, questo ragazzo di venti anni. Quattordici ore per arrivare a Lampedusa, su una barca di 11 metri. Il trasferimento a Trapani. Quindi la fuga, su e giù dai treni per evitare controlli: Messina, Roma, Milano. Ventimiglia. Duemila chilometri per finire a fare la spola tra il bar e la stazione, la stazione e il bar. Attendendo un amico che gli deve dei soldi, ma che non arriverà mai.
Quanti, come lui. Dall’inizio dell’anno, a Lampedusa sono sbarcati circa 30mila clandestini. Quasi tutti tunisini, con la speranza di un lavoro e di una vita migliore. Usano l’Italia come trampolino per la Francia: è lì che vogliono arrivare, spesso invitati da parenti o amici già immigrati. Come Suhail, uno spilungone di 26 anni che porta le Nike e un berretto con su scritto «Italia». Ha un diploma scientifico in tasca e conosce le lingue, ma non ha mai trovato un impiego: «Tranne qualche lavoretto in un’edicola, per duecento dinari al mese». Cento euro. «Il punto è che Ben Ali ha derubato il Paese per 23 anni. Ovunque c’era corruzione. La polizia ti faceva storie? Pagavi. Volevi passare un esame? Pagavi. Ho un amico che, per finire Gestione aziendale, ha dovuto sborsare 7mila euro». E adesso che Ben Ali non c’è più? «Io a Tunisi ho fatto la rivoluzione. Ma non è cambiato nulla: il pane resta caro, il lavoro manca». Per questo Suhail vorrebbe andare in Francia: «So la lingua e lì vive mio fratello. Troverò qualcosa da fare, se Dio mi aiuta».
Nel frattempo, da metà marzo stanno arrivando anche i clandestini che scappano dalla guerra in Libia. Migliaia di persone senza nome affollano i campi, che diventano terra di nessuno. La legge, di per sé, parla chiaro: l’Italia ha 180 giorni per capire se si tratta di immigrati illegali, rifugiati o richiedenti asilo. I primi due finiscono nei centri di identificazione ed espulsione: se in patria non rischiano persecuzioni, vengono rispediti indietro. Quando è scoppiata l’emergenza, però, Tunisia e Libia non volevano riconoscere gli accordi sui rimpatri. Poi, a inizio aprile, è arrivata l’intesa e un decreto del Presidente del Consiglio: gli immigrati entrati tra il 1° gennaio e il 5 aprile possono ottenere un permesso di soggiorno di sei mesi, mentre gli altri devono tornare a casa. Problema risolto? Si vedrà nelle prossime settimane, da come i leader europei accoglieranno la richiesta di Italia e Francia di cambiare il trattato di Schengen. Riconoscendo che l’arrivo in massa dei migranti non è un problema solo nazionale. Così, mentre ogni giorno salta fuori una nuova presa di posizione, una cosa è certa: dietro al battibecco della politica, c’è in ballo la vita di migliaia di persone.

«Non faresti lo stesso?». Intanto, Suhail passerà questa notte al centro di accoglienza temporaneo di Bevera, gestito dalla Croce Rossa. Una vecchia caserma dei pompieri alle porte di Ventimiglia, trasformata da aprile in mensa e dormitorio. Da qualche mese, infatti, questa cittadina s’è trovata a fare i conti con l’arrivo di centinaia di immigrati, in attesa di passare il confine. Siamo alla periferia dell’Italia, ma quel che sta succedendo qui rappresenta una sfida per tutta l’Europa. E per ognuno di noi. Facendo emergere qual è il nostro volto e cosa ci permette di accogliere l’altro. Un altro non previsto e, spesso, non voluto, come capisci scambiando due battute con un barista. Ogni sera, verso le 19, un pullman raccoglie gli immigrati in stazione e li porta a Bevera. Poi torna in città, aspettando chi è sul treno delle 21 da Milano. O delle 23 da Roma. «Gli ultimi arrivano anche dopo mezzanotte», spiega Giacomo Rivera, maresciallo della Croce Rossa. Davanti ad una tenda, all’ingresso del piazzale, tre tunisini attendono il loro turno: «È un ambulatorio per una prima assistenza: dopo ore di cammino molti hanno piaghe ai piedi, qualcuno ha problemi allo stomaco...». Al centro, gli immigrati trovano un pasto caldo e un letto. Nessuno è obbligato a venire: il cancello è aperto, non c’è il filo spinato. «Non è una struttura come a Lampedusa. Ma chiediamo di registrarsi e le regole sono precise: niente cibo in camera. Non si fuma. Non si beve. E dalle 9 alle 18 tutti fuori, perché i locali vanno puliti». Lo si legge anche sui cartelli sparsi per il centro, puntualmente tradotti in francese e in arabo.
Nello spiazzo dell’ex caserma, scende dal pullman il primo gruppo della serata. Con loro c’è un uomo sulla quarantina con la divisa della Croce Rossa. Parla arabo, dà qualche spiegazione e si allontana. È Bekas, il «mediatore culturale». Una figura importante, per entrare in rapporto con queste persone. Pure lui è un volontario (come lavoro tiene puliti i treni in Francia), ma un tempo stava dall’altra parte della transenna. È arrivato dall’Iraq nel 1997, con l’esodo dei curdi. E ora dà a sua volta una mano: «Anche se non capisco fino in fondo i tunisini», racconta: «Quando siamo stati accolti noi, non ci saremmo mai sognati di rifiutare il cibo. Questi immigrati, invece, se qualcosa non va loro a genio si mettono a manifestare».
Qualche metro più in là, una decina di volontari sta finendo di preparare il piatto del giorno: riso e pollo al curry, con piselli di contorno. Altro che sbobba. Quando ti affacci nella tenda che ospita questa cucina da campo (un incastro di caldaie, piastre e brasiere in grado di sfornare 500 pasti all’ora), capisci perché: «Abbiamo voluto avvicinare la nostra tradizione a quella araba», spiega Giancarlo, che nella vita fa lo chef e ha cucinato anche per la Nazionale. Un’attenzione nient’affatto scontata: «È vero. Ma tu non faresti lo stesso?». La prima sera, Giancarlo ha perfino chiesto ai suoi aiutanti di osservare gli “ospiti” durante la cena: «Con queste persone, più che le parole sono fondamentali gli sguardi. Vedendoli più distesi, ho capito che il menù era azzeccato». Fiammetta, che nella vita fa l’impiegata e per la Croce Rossa cura la comunicazione, è venuta con lui in auto da Savona. Un’ora e mezzo ad andare, un’ora e mezzo a tornare. In tasca non le viene niente. E domattina alle 8 timbra in ufficio, come ogni giorno: «Lo faccio con il cuore», dice. «La fatica c’è, ma è ripagata. Anche solo con un “grazie” da chi non ti aspetti. E l’altra sera dovevi vedere come i tunisini ci hanno aiutato a sparecchiare e pulire la sala». Eppure Fiammetta sa che non rivedrà più quei volti: «Me lo chiedo davanti a ognuno: dove andrà? Cosa farà? Come mi hanno raccontato i colleghi di Lampedusa. Hanno aiutato i clandestini a scendere dalle barche, con la mano nella mano: quegli occhi, non li dimenticheranno mai».

Sans futur. Che il menù fosse azzeccato, te lo conferma in un francese stentato anche Fathi, che in Tunisia faceva l’imbianchino: «C’est bon». Ha appena finito ed esce a fumare. Non tutti sono come lui, però: «Spesso sono diffidenti davanti a ciò che offriamo», racconta Enrica. Dopo una vita da ragioniera nelle aziende, ora lavora a tempo pieno alla Caritas. Con altri due volontari del centro di Ventimiglia, da qualche sera serve tra i tavoli: «L’altro giorno un ristorante ci ha donato dei vassoi di pizza. Sa che nessuno ha voluto toccarla? Temevano che ci fosse dentro del grasso di maiale». L’aiuto offerto dalla Caritas, però, non finisce qui. Pur con forze più ridotte rispetto alla Croce Rossa, gestisce un dormitorio e un ambulatorio, e distribuisce a chiunque ne abbia bisogno alimenti, sapone e vestiti: «Sarà una goccia nel mare, ma significa che qualcuno è disposto a rimboccarsi le maniche».
Anche perché, per settimane, l’Europa è rimasta a guardare. «Come se ci stesse tradendo», osserva monsignor Alberto Maria Careggio, vescovo di Ventimiglia e Sanremo. Classe 1937, ricorda bene i primi trattati, da cui sarebbe nata l’Unione: «Le radici erano cristiane: ora che fine hanno fatto?». Qualche giorno fa, monsignor Careggio è andato ad incontrare i tunisini in stazione. Con quale messaggio? «In realtà, quando ti trovi lì non sai cosa dire. Puoi solo sperare. Che raggiungano il loro destino». Allo stesso tempo, bisogna fare di tutto per sostenere lo sviluppo dei Paesi da cui vengono: «Se non risolviamo il problema a monte, è inutile». Non a caso, ciò che più l’ha impressionato sono le parole di un ragazzo: «Nous sommes sans futur».

Una nuova storia. Senza futuro, prima ancora che sans papier. È per questo che molti vedono l’Europa come l’Eldorado? Khalir, arrivato da Médenine, china il capo: «È anche colpa degli stessi emigrati, che quando tornano in famiglia raccontano solo le cose più belle. A sentirli, sembra tutto rose e fiori». Una volta, due suoi amici si sono presentati in Porsche. «I parenti erano ammirati, invece le avevano noleggiate per fare scena». Poi c’è la tv (in Tunisia RaiUno e ItaliaUno vanno alla grande), che trasforma ogni cosa in uno show. Dove basta poco per finire nel quiz giusto e portarsi a casa migliaia di euro. Così, in un colpo solo.
Lo sa bene, Sofienne. Tanto che quando il suo barcone ha avvistato Lampedusa, tutti e 120 hanno gridato: «Italia... Uno!». E ora gli brillano gli occhi, al pensiero che forse ce l’ha fatta. Lui, unico maschio di una famiglia di Djerba, a 17 anni ha salutato mamma e papà, ed è partito. Anche se aveva un lavoro, ma cosa vuoi che siano 200 euro al mese come sguattero di un hotel rispetto al sogno dell’Europa? Mentre mi racconta la sua storia, gli telefonano i genitori. Poi mette giù: «Volevano sapere come sto. Sai, quando li ho salutati mica ho pianto». Non ti mancano? «Ti sbagli: da allora, il mio cuore è pieno di lacrime». Poi mostra le foto e i video che ha sul cellulare, tutti dalla tendopoli di Manduria. Ne è orgoglioso. Per molti è un inferno. Per lui, forse, l’inizio di una nuova storia.