Una bussola silenziosa che guida la città
«In un nord-est che vive i dolori del parto, qui s'intravede la nascita». Parola del cardinale Angelo Scola, anche lui al decennale dell'opera educativa padovana. Tra amici giovani e vecchi, la festa di una comunità «fatta di rapporti autentici»Ca’ Edimar? Tanti sanno che cos’è: il villaggio padovano dell’accoglienza, una bussola se non addirittura un’ancora di salvezza per ragazzi sballottati da tempeste famigliari, scolastiche o sociali. Eppure «Ca’ Edimar, prima ancora che un’opera, è un’amicizia tra famiglie». Così ha esordito il cardinale Angelo Scola nell’omelia per la messa del decennale, lo scorso 16 giugno. Pur non essendoci mai stato prima di persona, il Patriarca di Venezia, amico illustre a qualche decina di chilometri di distanza, la differenza l’ha colta al volo. E, giungendo a visitare la struttura di via Due Palazzi, un’architettura a metà tra il casolare ristrutturato e il chiostro postmoderno, ha voluto anzitutto incontrare loro: le tre famiglie che a Ca’ Edimar vivono 24 ore su 24 e i loro ragazzi.
Nel giugno 2001 il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo benediva e inaugurava la struttura, allora molto meno sviluppata in dimensioni ed iniziative. A distanza di dieci anni, pur con tanti risultati da esporre nei convegni e cifre da snocciolare, nessuna autocelebrazione. Solo incontri. Quello con M. per esempio, diciassettenne musulmano proveniente dal Marocco, con un grande attaccamento al Dio potente che vive nell’alto dei cieli professato dalla sua famiglia. E con un’altrettanto grande curiosità per il Dio che legge stampato sulle facce dei suoi amici, che si immischia nelle faccende umane, soprattutto quando meno te lo aspetti. È un abbraccio quello che viene dal Patriarca, un incoraggiamento a proseguire nella verifica. «Ecco un esempio di dialogo vero tra religioni», commenta. Un dialogo della vita: il soggetto che lo pratica non è evidentemente un teologo.
Da knock-out anche l’esperienza raccontata da R. Maturando, ha imparato a non essere più arrabbiato con sua madre che anni prima se n’è andata. Dopo aver incontrato Carlo Castagna, unico sopravvissuto alla strage di Erba, compassione e forse comprensione cominciano a spalancare la porta a un’altra parola, impensabile: perdono. Il Cardinale è molto colpito, ne riparlerà poi nell’omelia. Poi interviene S., altro diciassettenne: «Non so perché, ma a un certo punto non me la sono più sentita di seguire gli amici di un tempo con cui rubavo motorini e mi facevo le canne». «Vi si è aperta davanti una grande strada», è l’indicazione sobria di Scola: «Una strada di verità e maturità, proseguite!»
È poi il momento della messa all’aperto con gli amici di Edimar. Ovvero un bel pezzo di società civile di Padova e territori circostanti, in testa il presidente del consiglio regionale Clodovaldo Ruffato e il vicario per la città, monsignor Daniele Prosdocimo. L’esperienza di quelle famiglie in dieci anni ha attirato tanti. Hanno visto che qui non si fa assistenza, ma si vive bene (cioè si fanno ottime cene, si riparano le scarpe, si incidono dischi, si va al mare tutti assieme...). E così dai commercianti ai panificatori, dai club di imprenditori ai gruppi parrocchiali, tutti durante la concelebrazione hanno potuto verificare l’identikit che il Cardinale ha fatto di Ca’ Edimar: «Non primariamente un’opera, ma una realtà viva fatta di rapporti autentici». Autentici non è sinonimo di perfetti: «Non esenti da errore ma giocati con tutta la loro libertà e il loro volto». Al di là della confusione, infatti, che nel momento presente è grande sotto il cielo, in via Due Palazzi almeno un’evidenza c’è sulla quale costruire: «Tutti stiamo bene quando amiamo Dio, gli altri e noi stessi». Tre amori più legati di quanto si creda comunemente.
Il cardinale Scola passa poi, istigato dal salmo, a tracciare fili delicati e luminosi tra giustizia, verità e amore. Giustizia: tutti la vogliamo («Almeno leggendo i giornali degli ultimi 18 anni...»), ma se questa nobile e fragile istanza non si riempie di qualcosa che la renda possibile nonostante me e te, nel migliore dei casi rimane una parola sospesa nell’aria. È l’amore che dà sostanza alla giustizia? «Sì! Ma non quello che espone tanti nostri ragazzi a relazioni che li debilitano, invece di costruirli come persone». E quindi amore con verità, perché «non tutto è a disposizione del narcisismo dell’io».
Si conclude da dove si era cominciato, da Ca’ Edimar. Con una sintesi emozionante: «Luoghi come questi sono l’espressione della bellezza appassionata della sequela di Cristo, perché scaturiscono da una sete di amore e di verità che ha toccato il cuore di qualcuno tra noi. Nello stesso tempo però ambiti come questi rappresentano la garanzia che la nostra società civile del Nordest non solo non è in crisi, ma è in un grande travaglio, attraversa i dolori del parto. Ma se noi stiamo fermi e solidi su questa impostazione, se noi seguiamo realtà vive come queste, già s’intravvede lo splendore della nascita nuova. Non dobbiamo piangere i tempi perduti, ma certo dobbiamo lasciarci interrogare da ognuno dei volti dei nostri ragazzi e di tutti coloro che hanno voluto questo luogo... Bisogna che riverberi in noi la domanda: tu che vuoi per te e per gli uomini di oggi? La giustizia, tu, dove la cerchi? Da chi l’aspetti? Dove la impari?».
E da chi si lascia interrogare il Patriarca? Lo scopriamo alla fine della messa: da Anna, la figlia di Mario Dupuis colpita da un grave danno cerebrale, morta a 15 anni nel 1995. Anna è il centro di gravità permanente di Ca’ Edimar. Di fronte a lei, come di fronte a Gesù sulla croce, si sta solo - come suggerisce Scola al termine della messa - in silenzio. Non un silenzio come di fronte a un grande vuoto, ma di fronte alla dolce certezza che «ognuno di noi è sempre amato e voluto da un padre». «Figure come Anna sono l’espressione più potente del mistero nella nostra storia. Cosa stiamo facendo di questa grande eredità umana? Questo è un invito alla libertà». Grazie, Eminenza.