Il cammino al vero, un'esperienza

La Pagina Uno di "Tracce" di luglio-agosto: appunti dalla sintesi di Julián Carrón all’incontro con il Centro nazionale degli universitari di Comunione e Liberazione. Milano, 18 giugno 2011
Julián Carrón

1. IL SORGERE DELLA DOMANDA
Questa mattina ci veniva ricordato il cammino compiuto insieme in questi mesi, iniziato il 26 gennaio con «Il senso religioso, verifica della fede» e sviluppato poi in tutte le altre tappe: «La sorgente del giudizio», «L’urgenza del giudizio» e gli Esercizi della Fraternità. Avrò modo in altra occasione di tornare su questa traiettoria. Ma ora sarei curioso di sentire cosa rispondereste se io vi domandassi: in che cosa stamattina abbiamo percepito che il senso religioso è la verifica della fede? Per me, ascoltando i vostri interventi, il segno più palese davanti ai nostri occhi dell’esperienza della fede che stiamo facendo è stato il sorgere della domanda.
Penso a quello che diceva il nostro amico verso la fine dell’assemblea. Quante volte avrà ripetuto certi discorsi come cose già sapute! Invece oggi, a un certo momento, ha ammesso: «Tutto quello che ci diciamo è verissimo; infatti sono qui, non metto in discussione niente, continuo ad andare a messa, faccio tutto quello che mi viene proposto; ma se devo dire che il fatto che Cristo c’è è il punto di partenza di tutto quello che vivo nella mia giornata, è l’ipotesi con cui entro nel reale, non posso dirlo, non è così. Io lo desidero con tutto il cuore, ma non ci riesco, vedo che sono mancante in tutto e vedo che a volte anche il nostro stare assieme lo è, cioè è mancante di Cristo. Tu ci hai parlato di un cammino e la mia disponibilità a farlo c’è. Ma mi domando: come si fa questo cammino?». Dobbiamo ringraziarlo per la semplicità con cui ha posto la domanda: è un aiuto per tutti, perché ci rende consapevoli di qual è la sfida, di quanto don Giussani colga il punto della questione. Possiamo, infatti, stare insieme per anni e alla fine constatare che manca l’essenziale. Oppure penso a quello che metteva in luce un altro di voi subito dopo: «Mi sono capitati tanti fatti belli, ma non è cambiato il sentimento di me. Quando parlavi di quello che è accaduto alla Madonna, di quel “sentimento di sé profondo, misterioso: una venerazione di sé, un senso di grandezza pari soltanto al senso del suo niente”, io mi dicevo: “Ma questo sentimento di me io non ce l’ho!”. Come si fa ad averlo?».
Innanzitutto, ecco il primo punto, incominciamo a non dare le cose per scontate, iniziamo a vedere emergere la nostra esigenza e a capire che non ci basta stare insieme in un certo modo per rispondervi. Proprio questo ridestarsi del senso religioso, del nostro io, accorgerci che non ci basta ripetere un discorso o una formula, è il segno della contemporaneità di Cristo in mezzo a noi. Tale risveglio è, infatti, la cosa meno scontata che ci sia. Anzi, tante volte, noi stessi possiamo essere, pur vivendo tra noi, come appiattiti. Allora il sorprendere l’emergenza di certe domande in noi, il fatto che uno non fugga davanti a esse, oppure che incominci a non dare per scontato che un altro domandi, mostra una differenza in atto, è il segno che qualcosa nel nostro io incomincia a muoversi, a ridestarsi.
Questo è anche ciò che consente di entrare in dialogo con l’altro, come dimostra l’incontro di una di noi con una signora al mercato, riferito da un intervento stamattina. «Nel ricevere il volantino Pronti a rendere ragione della speranza che è in noi - ha detto chi è intervenuto -, una signora ha risposto di botto: “Nella mia vita non c’è nessuna speranza; da quando mio figlio è morto l’esistenza mia e di mio marito è distrutta; sto cercando, attraverso delle terapie, di superare quello che è successo, perché riesco a vivere solo quando non ci penso”. Allora la ragazza che le ha dato il volantino, che ha avuto una esperienza analoga nella sua vita, si è fermata e le ha detto: “Ma io ho incontrato persone che di fronte alla morte non hanno dovuto censurare, che possono stare coscientemente, con tutte le domande che hanno, di fronte a quello che è successo”. A questo punto, la signora ha cambiato atteggiamento: “Io ho incontrato solo persone che hanno cercato di consolarmi, dicendomi che prima o poi tutto sarebbe passato, oppure hanno cominciato ad evitarmi perché non riuscivano a starmi di fronte. Anch’io vorrei tanto fare l’esperienza di cui mi parli. Se è vero che tu hai incontrato le persone che hai descritto, dimmi: dove vi posso trovare?”. E la ragazza l’ha invitata alla tua Scuola di comunità».
Una testimonianza come questa mette in evidenza che cosa è l’io e ci fa capire perché non ogni risposta è adeguata alla domanda che siamo. Alcuni cercavano di consolarla, come se il suo fosse un problema sentimentale, altri non erano in grado di starle davanti: ma a lei non bastava la consolazione, non bastava la fuga. Che cosa è in grado di rispondere alla sua esigenza? Di fronte alla ragazza si è domandata: «Voi avete una risposta? Dove vi trovate?».
Attenzione, neanche a noi, al di là delle nostre intenzioni, serve una consolazione a buon mercato, un modo sentimentale di vivere la compagnia. Quando l’io incomincia a ridestarsi non possiamo ridurlo a nostro piacimento, come se ne fossimo i padroni. Il cuore è oggettivo e infallibile, come ci siamo detti citando don Giussani, l’esigenza che lo definisce non è manipolabile, tanto è vero che quella signora può ricevere una consolazione, ma non le basta e sente tutta l’insufficienza della risposta, come la sentiamo noi, che possiamo stare insieme, ma questo stare insieme non ci basta, neanche se diciamo che stiamo insieme per Cristo, se Cristo lì non c’è!

2. L’URGENZA DI UNA STRADA
Allora, è come se emergesse sempre di più, dall’interno della nostra esperienza, l’urgenza di trovare una strada, di avere chiaro un cammino.
«Come si fa?» - hanno chiesto i nostri amici stamattina -. È significativo che, dopo l’incontro, uno continui a domandarsi: come si fa? Vuol dire che ciò che è accaduto nell’incontro non è ancora nostro. Uno incomincia a rendersi conto che ha un desiderio di verità, di pienezza, ma non riesce ad attuarlo, vede tutta la sproporzione tra il desiderio e la riuscita. Ma proprio quando questo inizia a farsi largo in noi con la consapevolezza con cui è venuto a galla oggi, incominciamo veramente a capire di che cosa abbiamo bisogno. Di che cosa abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno di una strada, di un cammino. Come identificare questa strada, questo cammino? Dobbiamo riandare a quello che ci è capitato. Dove si è cominciata a inoltrare una ipotesi di risposta? Nell’incontro. Nell’incontro ha incominciato ad apparire davanti ai nostri occhi una promessa, il presentimento di una strada.
Ora, come abbiamo detto agli Esercizi della Fraternità, nessun potere può evitare che l’incontro accada, ma può evitare che esso diventi strada, che esso diventi storia. Questa è la consapevolezza che dobbiamo avere dell’influsso del potere: possiamo essere qui, senza che l’incontro diventi strada, diventi storia; così, dopo anni, ci domandiamo ancora: come si fa? Non lo dico per un rimprovero, ma perché possiamo renderci sempre più consapevoli di qual è la lotta in cui siamo immersi. Dobbiamo imparare da quello che vediamo accadere in noi, senza spaventarci. Quello che sta emergendo è una grazia - è il Mistero, infatti, che ci dà questa consapevolezza - e dobbiamo usarlo per il nostro cammino, per continuare nella lotta, per collaborare a quella lotta che il Mistero stesso ha incominciato con noi nel Battesimo. Come dice don Giussani, il Signore, come vir pugnator, nel Battesimo ha incominciato una lotta con ciascuno di noi «per l’invasione della nostra esistenza». Non dobbiamo spaventarci, ma far tesoro di quello che il Signore ci dà, attraverso la lucidità che rende possibile in noi, per renderci consapevoli di quale sia il punto: il fatto che noi ci domandiamo «come si fa» ci dice che è come se noi non avessimo preso veramente e fino in fondo sul serio l’ipotesi che si è affacciata a noi nell’incontro. Si vede dal fatto che, come si diceva prima, tante volte noi entriamo nel reale senza partire da essa, anzi, questa è l’ultima cosa che ci passa per la testa. Magari prendiamo quell’ipotesi per fare certi gesti, perché ce lo propone il movimento, ma nel resto della vita, nell’affrontare tutto, l’affezione, il lavoro, lo studio, il problema del compimento, della soddisfazione, noi usiamo l’ipotesi di tutti. Per questo, dopo anni, possiamo essere qui e domandare: «Come si fa?», quasi fossimo smarriti come tutti, confusi come tutti.
La prima sfida, dunque, è cogliere la novità che si è inoltrata in noi nell’incontro. Lì è successo qualcosa, abbiamo presentito qualcosa, e dobbiamo con semplicità riandare a quel momento, a che cosa è successo in noi, per ripescare ora, nel presente, oggi, quello che con l’incontro si è inoltrato in noi e riprenderlo come ipotesi per entrare nel reale. Dobbiamo renderci più consapevoli di quello che è successo, perché è come se in quel momento non avessimo capito fino in fondo quello che era successo. Adesso incominciamo a diventare più coscienti di quale grazia ci è stata data, per quel barlume che è entrato in noi; ma perché diventi storia occorre riprendere ciò che è accaduto come «ipotesi di lavoro» - secondo l’espressione bellissima utilizzata da don Giussani -, occorre che quello che è successo diventi un’ipotesi di lavoro nel rapporto con tutto il reale.
Soltanto chi prende sul serio l’ipotesi può, a un certo momento, come diceva l’autrice della lettera citata stamattina, accorgersi che questa ipotesi non è più solo un’ipotesi. Ne rileggo un brano. «Da sempre ho negli occhi l’incapacità delle cose di soddisfarmi, fin da quando ero piccola, e da sempre mi sono accorta che posso anche impegnarmi ad essere felice, ma non ne sono capace. Di fronte a questa inconsistenza delle cose e del mio tentativo, il mio cuore però non si è mai arreso. Mi sono sempre ripetuta: “Non può essere così la vita, ci deve essere altro”. E sotto l’impeto di questo desiderio, per l’educazione ricevuta e per il mio primo incontro con il movimento, ho preso sul serio l’ipotesi che quest’altro potesse essere Gesù Cristo. Così ho iniziato ad affidarmi a “Lui”, seppure rimanesse sostanzialmente uno sconosciuto. Accogliere questa ipotesi ha scandito la mia vita fino ad ora. Ma era pur sempre un’ipotesi. All’ultima Scuola di comunità, invece, mentre una persona raccontava la sua esperienza, mi sono accorta con una chiarezza impensata che io ora non vivo più per un’ipotesi. Qualche giorno fa, come la maggior parte dei miei giorni, ero d’imbarazzo a me stessa, con il cuore ferito, mancante, da restare ammutolita. Non riuscivo a guardarmi con nessun tipo di tenerezza, non sapevo nemmeno come prendermi, come ricominciare a muovere un dito (ogni tanto sono talmente triste che non faccio nulla). Ma, in questa situazione solita, in maniera chiarissima, un volto - quello di una certa amica - ha squarciato la mia solitudine. Ho pensato: “Comunque, lei c’è”, e quasi me ne sono stupita io stessa; prima che io sia capace di portare il peso di questo mio cuore, di risolverlo, di riconvertirmi alla Sua presenza, prima che io ceda, che io chieda perdono, prima che torni a respirare, a sorridere, ad amare, prima di tutto questo, lei, con la sua vita tutta tesa a Cristo, c’è e per questo suo rapporto con Lui mi ama; solo perché Lui c’è, infatti, lei può amarsi così e amare me e io immedesimarmi nel suo sguardo e amarmi. Se prima vivevo con la tensione ad affidarmi a uno sconosciuto, adesso mi accorgo che posso immedesimarmi con quello sguardo di amore su di me. Per questo Cristo non è più un’ipotesi per me, è una presenza che mi raggiunge: in un modo misterioso, devo ammetterlo, ma c’è».

3. IL CAMMINO AL VERO È UN’ESPERIENZA
Ora, che cosa fa diventare un’ipotesi non più solo un’ipotesi? Un cammino. Occorre che io abbia fatto un’esperienza, abbia fatto un cammino, abbia verificato l’ipotesi nel rapporto con il reale. Così uno scopre che non è più soltanto un’ipotesi, ma è una certezza. Per questo la risposta alla domanda che è emersa non è una formula: come ci ha detto sempre don Giussani, il cammino al vero è un’esperienza. Capite ora perché negli ultimi mesi abbiamo insistentemente ripreso la formidabile provocazione di don Giussani: «Mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva l’opposto» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20). La strada al vero, alla certezza - ci dice don Giussani -, è questa esperienza, la fede come esperienza presente: solo questo fa sì che l’ipotesi non sia più solo un’ipotesi.
La compagnia che ci facciamo non è per sostituire l’esperienza che ciascuno deve fare, ma per testimoniarcela l’un l’altro e sfidarci a farla. Ciascuno ha bisogno per sé di questa esperienza, non possiamo vivere soltanto dell’esperienza di un altro, perché sono io che devo fare l’esame di latino, sono io che devo stare davanti alla morosa, non è l’altro, non siamo noi tutti insieme. Davanti al dramma del vivere ci sono io. Per questo, la formula che abbiamo utilizzato: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che elida la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, Rimini, 28-30 settembre 1982, Archivio Cl), è un gesto di carità di don Giussani verso ciascuno di noi. È come se ci dicesse: guardate che se voi pensate di cavarvela semplicemente eludendo la vostra responsabilità, non coinvolgendovi in una verifica dell’ipotesi inoltrata dall’incontro, non sarà mai vostro quello che ci diciamo. Don Giussani è così realista, è così amante del nostro destino, che non ci promette che uno possa arrivare a compiersi eludendo la propria libertà. Ci dice al contrario: se voi pensate di andare avanti senza coinvolgervi personalmente nella verifica dell’ipotesi cristiana, non soltanto in certe iniziative, ma in ogni particolare del vivere, non potrete resistere neanche qui, perché «se non sei teso a capire e se non sei teso ad amare la vita e il suo destino, allora ci lascerai» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, cit., Archivio Cl). Neanche il movimento resterà per noi interessante. Invece, chi fa una esperienza, chi compie la verifica, incomincia «a guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero».
Allora, tutto quanto ci capita nella vita è per compiere questo cammino con quella ipotesi negli occhi. Perché i fatti irrompono nella vita, e in questi tempi non sono mancati dei fatti. L’avete vissuto tante volte in questa tornata elettorale, ogni incontro vi chiamava in gioco, chiamava in gioco la vostra ragione e la vostra libertà: la vostra ragione, per non fermarvi all’apparenza, per vedere la realtà come segno che ci chiama oltre; la vostra libertà, per aderire a quell’oltre. Così uno comincia a trattare tutto diversamente, comincia a trattare le cose non «come se fossero “dei”», come richiamavo all’amico che ci raccontava la sua esperienza davanti all’esame di latino. Infatti, «se si trattano le cose come se dicessero: “Io sono tutto”», non si possiedono veramente. Quando godi di più dei fiori che ti hanno regalato? Quando dici: «I fiori sono tutto» o quando li guardi dicendo: «Non è qui, non è per questo, è più in là», quando cioè i fiori ti rimandano alla persona cara che te li ha mandati? Se noi ci fermiamo all’apparenza, identificando persone e cose con il tutto, «come se fossero “dei”», il rapporto diventa menzogna, perché non sono dei. Il Papa questa settimana ha parlato proprio di questo, degli idoli, riferendosi al profeta Elia (Benedetto XVI, Udienza generale, 15 giugno 2011). Un idolo che cos’è? È qualcosa che tu affermi come un dio quando non è dio. Tale affermazione è una menzogna, che nel tempo viene smascherata e allora la cosa rivela la sua faccia vera. E la sua faccia vera non ti può che deludere, è piena di tristezza. Il problema è «non vivere i rapporti come se fossero “dei”, come se fossero rapporti con il divino; sono rapporti con il segno, perciò non possono compiere, possono diventare strada, passaggio, segno, possono rimandare, come diceva Clemente Rebora [...]: “Non è qui, non è per questo”; tutte le cose che prendi ti dicono: “Non è qui, non è per questo, non è per questo!”» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 385). Non basta quindi accorgersi dell’insufficienza delle cose, perché le cose sono segno.
C’è, allora, una seconda parte della questione: tu puoi avere un possesso vero delle cose solo se quello a cui esse rimandano è diventato così presente, se è così presente ora, da renderti possibile quel modo nuovo di rapporto con esse che si chiama verginità.
La verginità - che è questo modo nuovo, vero, di trattare le cose - è l’espressione ultima della carità; non della carità come qualcosa che facciamo noi, ma della carità come qualcosa che noi riceviamo, secondo il suo vero senso: «Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Ma se incontro uno che ha pietà del mio niente, io sono così commosso di questo che, sotto la pressione di questa commozione, investito da questa commozione, investito da questa presenza, io posso trattare tutto in un modo nuovo. Altrimenti, rimane soltanto quello che ti manca. È qui la verifica della fede, ragazzi: davanti al latino, davanti alle elezioni o davanti alla malattia - perché il treno della vita arriva sempre puntuale alla stazione -, tu fai il test di quello che prevale, vedi se quello che prevale in te è ciò che manca o è la sovrabbondanza della Sua presenza. O è l’uno o è l’altro, non si scappa. E se prevale una cosa o l’altra non lo stabiliamo noi, ma lo sorprendiamo, basta essere attenti: non possiamo, infatti, cambiare al momento una cosa con l’altra, utilizzando delle interpretazioni o dei commenti o un potere o il mettersi d’accordo. In quel momento verifico se in me la fede è un’esperienza presente oppure no, verifico cioè, come dice il Volantone di Pasqua, se Cristo mi sta accadendo ora. Non verifico quello che so o quello che ho, ma se quello che so e quello che ho è un’esperienza presente ora. E ciò si documenta in come vivo il reale, qualsiasi pezzo di esso, a partire dallo svegliarsi al mattino. Il riconoscimento della Sua presenza ora, infatti, è quello che «impedisce la nostra distrazione come uomini, […] introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena di una reticenza inevitabile».
Come vedete, pedagogicamente percorriamo una strada, mettiamo un punto dopo l’altro, ma nell’esperienza succede tutto in contemporanea. O ci sono tutti gli elementi dell’esperienza cristiana o io tratto le cose come “dei”, e questo inevitabilmente porta a una menzogna, a una delusione. Può succederti con il latino, può succederti con la morosa, può succederti con il lavoro, può succederti con un progetto che hai in testa, può succederti con tutto. L’alternativa è se tu ti aspetti la salvezza da quello che riesci a fare, se la salvezza è quello che tu sei in grado di fare, il tuo tentativo, o se la salvezza è quello che ti è capitato e che capita per grazia, come una cosa assolutamente inaspettata. Ecco la questione. E perché ci diciamo che occorre un cammino? Perché soltanto uno che s’impegna in un cammino può vedere accadere il miracolo nella sua vita. Solo se mi impegno nella verifica personale dell’ipotesi cristiana, io posso arrivare a dire: ma che cosa è questo che ho incontrato, che neanche la malattia lo sconfigge, neanche il male lo ferma, nessuna cosa lo vince? Chi sei Tu, che fai questo miracolo in me, che realizzi in me questo altrimenti impossibile cambiamento? La fede diventa, perciò, un’esperienza presente, che non mi posso più togliere di dosso, qualunque cosa faccia o affronti. Quante volte, invece, noi mettiamo in contrapposizione cammino e miracolo, libertà e avvenimento, libertà e grazia!

4. LA SEMPLICITÀ DEL SEGUIRE
Per vivere l’esperienza descritta basta avere la semplicità del cammino, cioè di vivere quello che ha proposto Gesù. Fare un cammino, infatti, si chiama seguire: «Chi mi segue farà questa esperienza del vivere, anche sbagliando mille volte». L’esempio di Pietro è spettacolare. Lui ha deciso di seguire, ha sbagliato tante volte, è ricaduto, ne ha dette di tutti i colori, Gesù l’ha dovuto rimproverare come nessun altro, ma alla fine: «Mi ami tu?». Qual è stato il miracolo? Cristo era entrato fin nel midollo di Pietro: «Guarda, Signore, io non so come, ma tutta la mia simpatia umana è per te, tutta la mia vibrazione umana è per te, lo sai che ti amo; è diventata a tal punto tutt’uno con me la tua presenza, che io davanti a te non posso non dire: “Ti voglio bene”, anche se fra cinque minuti posso ancora tradire». L’ha seguito e ha assistito al miracolo: un Pietro più umile, meno presuntuoso, per niente presuntuoso, provato da tutto il proprio male, ma non sconfitto. Il male in lui non ha prevalso. La sua affezione a Cristo, la sua simpatia umana per Cristo, gli aveva talmente preso le viscere, ogni fibra del suo essere, che il male fatto non aveva potuto prevalere. Per staccare la presenza di Cristo dalle fibre dell’essere di Pietro occorreva ammazzarlo; poteva sbagliare mille volte, ma per staccarlo da Lui occorreva ammazzarlo. Quello di Pietro è stato un cammino, umanissimo. E lo stesso è per noi. Allora incominciano a stare nel reale in un modo nuovo, con un possesso nuovo; altrimenti prevale il possesso di tutti, la tristezza di tutti, viviamo tutto come tutti. Che cosa supera questo? Si tratta di essere disponibili a fare una strada, proprio per non perdere il meglio.
È soltanto se noi facciamo l’esperienza di cui abbiamo parlato che Cristo può entrare in ogni fibra del nostro essere e noi possiamo vedere che la frase che abbiamo letto nel volantone non è per modo di dire: Cristo è qualcosa che sta accadendo in me, e lo vedo nel modo in cui affronto le domande più eclatanti, più sfidanti, nella libertà che ho davanti a un esame, nella capacità di guardare la morosa diversamente, in una modalità nuova di stare insieme. Sono tutti segni della novità che Cristo introduce nella nostra vita.
Allora Cristo non è più un’ipotesi, ma un’esperienza. E questo genera un soggetto unito (lo dicevate prima: «Voglio una vita che sia piena e unita»), non a pezzi. Quello che rende unito il soggetto non è trattare sempre una cosa sola, perché questo è impossibile; trattiamo tante cose diverse: rapporti, studio, famiglia, amici, ma quello che unisce tutto è un Fattore preponderante. Senza questo Fattore la vita è a pezzi, come dicevate prima, e non risolviamo la frattura perché mettiamo più ordine, cercando un equilibrio tra i diversi aspetti. C’è un punto che unisce tutto, che attira tutto a sé, che mi fa riprendere tutto: affrontare tutto dall’interno del Suo sguardo, da quel punto sorgivo che è la Sua presenza amata, unifica la vita. E così l’affezione a Cristo cresce e uno non lo può più lasciare fuori, non lo può non sentire vibrare quando sbaglia o quando è davanti a un dramma o quando è davanti a una malattia o a una circostanza avversa.
È soltanto se il Signore introduce in noi una vera libertà nel vivere tutto, se si rende così presente, se invade così totalmente la nostra vita da renderci liberi, che noi possiamo non avere vergogna di Cristo, in qualunque circostanza. Non perché diciamo la parola «Cristo» - a volte non occorre dire la parola -, ma perché, come ha detto uno di voi, non possiamo non guardare l’altro, neanche uno che tutti rifiutano per il male che ha commesso, sotto la pressione della commozione dell’amore di Cristo per noi: «Ti ho amato di un amore eterno, ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Soprattutto, non possiamo più guardare noi stessi, se non sotto la pressione di questa commozione. Ma ci rendiamo conto di che cosa è la vita quando riusciamo, per grazia, per l’imponenza della Sua presenza, a guardarci sotto la pressione della commozione per l’amore di Cristo? Chi non desidera questo?
Noi siamo insieme perché la sovrabbondanza della Sua presenza prevalga in noi: è questo, infatti, che ci fa essere presenti nel reale con una diversità, ci fa essere una presenza, che è tale esattamente perché ha dentro questa diversità. Quello che è più affascinante è che il Signore ci fa vivere tutte le circostanze proprio per farci fare l’esperienza di che cosa vuol dire Lui, di chi è Lui. Come Lo conosciamo? Io mi rendo conto di chi è Cristo non perché faccio riflessioni in astratto o perché leggo dei libri, ma perché faccio esperienza di Lui nella vita e tutto diventa diverso. Allo stesso modo, gli altri non hanno bisogno dei nostri discorsi, non hanno bisogno dei nostri progetti, ma hanno bisogno di sentire su di loro lo stesso sguardo che ha afferrato noi, hanno lo stesso bisogno che abbiamo noi.
Propongo, perciò, di usare come tema delle vacanze la frase che abbiamo richiamato di don Giussani: il cammino al vero è un’esperienza. Essa ci fa penetrare in quello che dicevamo prima: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità»; contiene la risposta all’urgenza che è emersa oggi: «Ma come si fa?». La risposta di don Giussani è sintetica: il cammino al vero è un’esperienza (l’ipotesi deve diventare esperienza). Questa frase riassume tutto quello che abbiamo detto: ha dentro l’urgenza più volte richiamata: «Una fede che non diventa un’esperienza presente non potrà resistere»; ha dentro la provocazione di quell’«aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, [...] la vostra libertà» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, cit., Archivio Cl); ha dentro il senso della parte finale degli Esercizi: il segno palese che stiamo facendo il cammino è la libertà; ubi fides ibi libertas («Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae Communionis, n. 5, 2011, Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, p. 35).
Abbiamo, dunque, abbondante carne al fuoco per le nostre vacanze e per l’estate. Come ci diciamo sempre, la vacanza, il tempo libero, è prezioso per noi; prezioso per la verifica della fede. La verifica della fede non avviene soltanto nelle elezioni o nella preparazione dell’esame. È soprattutto nel tempo libero che viene fuori che cosa abbiamo di più caro. Perciò, questo periodo di vacanze sarà per noi un’occasione stupenda. Potremo poi ritrovarci all’Equipe di settembre e dirci: ma cosa è successo? Che cosa abbiamo vissuto? Che esperienza abbiamo fatto rispetto all’ipotesi di cui abbiamo parlato?
Quello che abbiamo detto oggi è un punto sintetico per le nostre vacanze. Come vedete, non viene lasciato fuori niente. Anzi, si evidenzia sempre di più che le due lezioni degli Esercizi della Fraternità - su cui lavoreremo - vanno necessariamente tenute insieme, contemporaneamente, perché soltanto chi ha una domanda viva può rendersi conto che non è sufficiente qualsiasi risposta e perciò capire che razza di grazia è incontrare Cristo. Allora uno è contento perché Lui c’è, è lieto che ci sia Cristo, che noi non siamo da soli con il nostro niente. E proprio perché Cristo c’è, c’è un cammino, possiamo cioè rispondere in modo vero, non ipotetico soltanto, non come un’immagine che noi ci costruiamo, tra le tante che l’uomo religioso può costruire. Il cristianesimo non è una delle possibili costruzioni della religiosità umana, ma la strada tracciata dal Mistero. Per questo, nel vangelo, Gesù riassume tutto il cammino in una parola: «Seguimi». È la sequela. Una volta che Lui ha proposto la strada, l’unica vera sfida per la ragione e la libertà è seguire, per poter verificare nell’esperienza la verità della proposta. Questo è il grande vantaggio da quando il Verbo si è fatto carne: che possiamo verificare se è vero o non è vero quello che ci viene detto, e perciò raggiungere una certezza sempre più grande. Allora è una bellissima occasione quella che abbiamo davanti. Aiutiamoci a non sprecarla.