Non si torna indietro

ATTUALITÀ - L'IMPREVISTO ARABO
Alessandra Stoppa

Il Medio Oriente dove va? La risposta implica un’«idea di uomo» che riguarda tutti. Oasis ha riunito esperti del mondo musulmano, cristiani d’Oriente e d’Occidente, per capire più da vicino lo «spartiacque» delle insurrezioni. E il «desiderio infinito che si è mosso»

Un comitato scientifico irrequieto è un bel vedere. Accade se metti una cinquantina di teste ed esperienze su un tema inedito. Poche cose sicure, nessuna scontata, moltissime domande. Che ne producono altre, non previste. Per questo suoneranno come una rassicurazione le parole del cardinale Angelo Scola, alla fine di due giorni di lavoro: «La realtà è il dito di Dio». Lì dove indica, bisogna guardare. Per come si può, senza la fretta di definire, di incasellare. Ma senza sottrarsi a quello che accade: il movimento che sta scomponendo pezzo a pezzo il mondo arabo. È questo l’inedito. L’imprevisto, come dice il titolo dell’incontro annuale del comitato scientifico della Fondazione Oasis: Medio Oriente verso dove? Nuova laicità e imprevisto nord-africano.
Esperti del mondo musulmano, cristiani d’Occidente e d’Oriente, studiosi e prelati arrivati da America, Europa e soprattutto da vari Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Più che un incontro, due giorni (20 e 21 giugno) di convivenza. Da mattina a sera su un’isola della laguna veneziana, San Servolo, si confrontano fatti e interpretazioni per capire più da vicino le insurrezioni che dalle piazze arabe hanno interpellato il mondo.
Se c’è una cosa che emerge certa dal paragone di due giorni di lavoro è che queste insurrezioni sono uno spartiacque. Un punto di non ritorno. Non tanto per l’incidenza che hanno avuto, fino alla caduta dei regimi tunisino ed egiziano, ma innanzitutto perché «da rivolte sono diventate rivoluzioni», come dice Scola, che di Oasis è presidente, citando Augusto Del Noce: «Il momento della rivolta pura si dissocia dall’idea di rivoluzione in quanto a questa è essenziale l’idea di verità». E le insurrezioni arabe, dentro le rivendicazioni economiche, politiche e sociali, hanno messo in campo un’idea di uomo. Già solo per come si sono espresse: nessun marchio ideologico, «nessuna affermazione identitaria, di appartenenza religiosa, etnica o politica», spiega il politologo e orientalista francese Olivier Roy: «Bensì l’affermazione della dignità della persona. Per la prima volta, abbiamo assistito all’uso della parola karamat, che si traduce come “dignità individuale”. E non più quello di “onore”, che ha un riferimento collettivo».

Fino all’Arabia Saudita. Questo momento di rottura, che Roy tratteggia (la società araba fa meno figli, vive il rifiuto di personalità carismatiche, non è “meno religiosa” ma l’esperienza religiosa è diversificata), ha una necessità su tutte: essere orientato. Per non perdersi. Per «continuare ad esser rivoluzione», per non rimanere «un momento eccezionale ed effimero» o consumarsi in una «democrazia fugace» - come ribadiscono i vari interventi - il movimento in atto deve approfondire l’idea di uomo e di società a cui tende. Questo significa, inesorabilmente, tradursi in forme istituzionalizzate. E qui è tutto il travaglio di questo momento. Che, secondo le analisi e i racconti degli ospiti, si sta già giocando: nella spinta a pluralizzare la società. Qualsiasi saranno gli attori dei futuri scenari politici, non potranno non fare i conti con il fattore di pluralismo innescato dalle insurrezioni. Ormai imperdibile.
Lo si vede in tanti aspetti: nell’opposizione rinvigorita tra “laicisti” (ilmânîyyîn) e “islamisti”(islâmîyyîn) in Tunisia, documentata da Malika Zeghal, docente di Pensiero islamico contemporaneo ad Harvard; nella piattaforma moderata con cui si presenta il principale partito islamista tunisino al-Nahda; nelle pressioni «di intellettuali e società civile sulla “secolarizzazione” della Fratellanza musulmana in Egitto (fino all’ulteriore slittamento delle elezioni parlamentari da settembre a dicembre; ndr)», che vengono raccontate da Amr El-Shobaki, analista politico egiziano e presidente dell’Arab Forum for Alternatives del Cairo. E persino nell’Arabia Saudita descritta da Madawi al-Rasheed, docente di Antropologia sociale al
King’s College di Londra: la maggior parte dei sudditi è «sempre meno tollerante» in un Paese che «è una compagnia petrolifera gestita dalla dinastia reale», dove la religione ufficiale, il
wahhabismo, che coincide con un movimento fondamentalista islamico, è usata con i suoi divieti (e con successo) contro la possibilità di protestare: «Così l’onda della turbolenza reale che ha contagiato anche l’Arabia è stata assorbita. Per ora».
Tutti segnali diversi di un’unica cosa: «È in atto un’autonomizzazione della politica dalla sfera religiosa», sintetizza Roy. E tutto ruota attorno a una categoria, quella di una «nuova laicità», o «laicità positiva», che è al centro dell’incontro di Oasis.

Meticciato reale. A noi “laicità” richiama subito derive precise: secolarismo, emarginazione della religione dalla sfera pubblica, individualismo... Ma qui non si tratta di una formula, piuttosto della lettura di un fatto evidente: la necessità esplosa dai fatti nordafricani di ripensare il ruolo della religione nello spazio pubblico. Il rapporto tra religione e Stato. Senza ignorare il rischio che potrebbe essere anche per le società arabe l’«insistenza sul soggetto e sui diritti del singolo», come richiama Scola: «Noi occidentali abbiamo il dovere di mettere in guardia dalla ricerca esasperata di un’identità individuale, dal secolarismo e dal venir meno dei legami». Perché conosciamo la catastrofe delle loro conseguenze.
Il confronto, dal tavolo dei relatori, continua nei pranzi e nelle cene. È la potenza di un metodo: proporre un luogo di incontro. Reale, e per questo non neutro. Dove la riflessione è essenziale quanto la testimonianza dell’esperienza. Dove, nel mezzo del dibattito, il concetto di “libertà religiosa” diventa tutt’uno con una richiesta netta: «Aiutateci a stare dove siamo, a integrarci dove Dio ci ha messi», come dicono alcuni dei Vescovi arrivati dai Paesi in rivolta. Qui non ti resta astratta nemmeno l’idea di meticciato, categoria provocatoria lanciata sempre da Scola nel 2007.«Non è una parola astrusa», ti riprende a sorpresa una delle giovani organizzatrici: «Il meticciato è tutto una domanda». E non ha bisogno di tante parole, lei italiana e cattolica con padre turco e musulmano: «È un incontro continuo, che interroga, che aiuta a non dare nulla per scontato». È una lente, che ti avvicina allo sguardo le ondate migratorie sulle nostre coste, le popolazioni sub-sahariane che premono dietro al Maghreb in condizioni disperate, gli squilibri di sviluppo (anche interni a uno stesso Paese) e l’urgenza di un intervento che sia più vasto e radicale dell’accoglienza e dell’assistenza: un cambiamento strutturale del sistema economico. Meglio, una «nuova ragione economica», quella richiamata da Benedetto XVI nella Deus caritas est e poco capita: «La necessità di introdurre la dimensione della solidarietà, della gratuità, come costitutive dell’economia», spiega Scola. E dai dati emerge chiaramente che si tratta di un’urgenza pratica, non di un invito etico.

Risposta degna. È ancora con le parole del Papa che Scola rilancia, alla fine dei due giorni, il lavoro di comprensione, che è solo all’inizio («ci serviranno decenni»). Cita un passaggio dal discorso del Santo Padre alle Chiese del Nordest: «Voi vivete in un contesto nel quale il cristianesimo si presenta come la fede che ha accompagnato, nei secoli, il cammino di tanti popoli, anche attraverso persecuzioni e prove molto dure. (...) Eppure, oggi questo essere di Cristo rischia di svuotarsi della sua verità e dei suoi contenuti più profondi; rischia di diventare un orizzonte che solo superficialmente - e negli aspetti piuttosto sociali e culturali -, abbraccia la vita; rischia di ridursi ad un cristianesimo nel quale l’esperienza di fede in Gesù crocifisso e risorto non illumina il cammino dell’esistenza». Dice di sentirsi «molto giudicato» da queste parole: «Il Papa sta dicendo che il problema è che esperienza faccio io di Cristo risorto».
Come poco prima aveva spiegato, partendo dal malessere esploso anche nelle piazze europee (gli indignados di Madrid), Javier Prades, decano della Facoltà teologica San Dámaso. Aveva parlato di «un compito pre-politico» che ci riguarda tutti. Di fronte a «un disagio profondo, che c’è, e che non ha potuto essere risolto da misure solo politiche e sociali», il lavoro pre-politico sta nell’interpretare bene questo disagio. Di cosa si tratta? L’ipotesi di Prades è chiara: «È sempre sintomo incancellabile di quel complesso di esigenze ed evidenze che definiscono l’esperienza elementare di ogni uomo». Il suo senso religioso. Bisogno di bene, di libertà, dignità. La tensione che si rintraccia nella rottura che scuote il mondo musulmano.
La responsabilità di ciascuno, e di noi come cristiani, si chiarisce qui. Non «disquisire, se pur acutamente, su ciò che altri vivono». Ma fare un cammino culturale ed educativo, accettarlo per primi su di sé. «Verificare se la fede educa l’esperienza elementare», dice Prades. È dalla maturazione di quell’esperienza che viene la comprensione di sé e l’intelligenza dell’altro, e «può nascere un giudizio critico e una capacità di dialogo». La possibilità di offrire una risposta degna di questo «desiderio infinito che si è mosso».