L'estate ad occhi aperti
Il silenzio dell’estate (quando lo si trova in mezzo ad altoparlanti, radio, telefoni, traffico, bambini) è vasto, pauroso, dolcissimo. Il silenzio del cielo terso. Tutto quell’azzurro per niente. L’aria brillante, inutilmente brillante, verrebbe da dire. A cosa serve questo splendore, che il cielo ripete nel mare e il mare rimanda al cielo? La vastità silenziosa, inutile, aperta dell’aria? Come se venisse qualcosa verso di noi, e non si vede. Una mole di luce. Un incanto ad occhi aperti. Una specie di ubriaca lucidità. O terrore d’ubriaco, come diceva Montale. Lui lo chiamava - e sapeva d’usar lingua dei mistici che ben conosceva - “il nulla”. Non lo si vede solo nei luoghi belli, in estate. Ma anche nel folto, nel gremito di stazioni, di viavai stradali o passeggianti, nel continuum di volti con la medesima espressione. Il deserto pressato nel treno della metropolitana, diceva Eliot, maestro a Montale. La vacanza, l’esperienza del vacuum, vuoto, non appena dei vuoti spazi nell’agenda di solito stipata. Ma del grande vacuum, del grande vuoto o vastità che ci abita e ci chiama, quando nell’estate si presenta. E uno può impazzire. O mettere a fuoco meglio e guardare se il vuoto, anche lui, parla duramente, vertiginosamente, di qualcosa che sempre arriva, dell’Essere che sempre avviene.