Juba, giovani del Sud nel giorno del referendum.

La marcia finale del Sud. O l'inizio?

Alla vigilia dell'indipendenza, le organizzazioni umanitarie chiedono al neo governo moratorie e giustizia. Mentre le parrocchie si preparano ad accogliere i profughi dal Nord. In un video, voci e volti della Chiesa. E di un popolo che inizia a camminare
Alessandra Stoppa

The final walk to freedom. La marcia finale verso la libertà. È lo slogan del nuovo Stato, il Sud Sudan: il 54° Paese dell'Unione africana, che nascerà con l'indipendenza proclamata il 9 luglio. Dopo due milioni e mezzo di morti. E dopo sei mesi esatti dallo storico referendum del 9 gennaio, quando il 99 per cento dei cittadini ha votato per separarsi dal Nord governato dai musulmani.
«Il nuovo Stato marchi da subito una differenza da Khartoum». È la richiesta avanzata in queste ore dalle organizzazioni umanitarie che operano nel Paese: con una nota congiunta, chiedono tra i primi atti del neo governo una moratoria sulla pena di morte e la liberazione dei detenuti politici.
Mentre la Chiesa sudanese si prepara ad accogliere le sfide che attendono il popolo. Lo ha accompagnato in tutto il suo cammino: attraverso le guerre civili che l'hanno dilaniato dagli anni Cinquanta al 2005, nella preparazione del referendum con i "101 giorni di preghiera" voluti dai Vescovi, perché ciascuno fosse pronto a quella giornata e perché non ci fossero violenze. E, ora, nell'esodo di centinaia di migliaia di persone che stanno abbandonando il Nord e i campi per rifugiati di Khartoum.
«È giunto il momento per il Sudan di dividersi. I tempi sono diventati maturi quando Dio ha guardato alla storia di questo Paese», come dice monsignor Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba, la capitale provvisoria del nuovo Stato, nel video di Where God weeps, programma settimanale dell'associazione internazionale "Aiuto alla Chiesa che soffre". Intanto, i Vescovi lanciano un nuovo appello alla pace e una novena, perché si stanno aggravando gli scontri al confine.


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