Toni Capuozzo in Libia (da Facebook).

«Come la piuma di Forrest Gump»

Ha visto con i suoi occhi tutti gli ultimi conflitti. E "dopo Milica", non crede più alle guerre umanitarie. Il vice-direttore del Tg5, Toni Capuozzo, parla del suo lavoro: «Capisco che il mio compito è lo stesso di quel missionario...»
Alessandra Stoppa

Milica Rakic. «Basta questo nome». Basta il fatto che lui se lo ricordi dopo dodici anni. La bomba era “umanitaria” e “intelligente” anche in quel caso: mirava la pista dell’aeroporto di Belgrado, di sera. Una delle case del vicino villaggio di Batajnica aveva una finestra socchiusa. Quella del bagno. Una scheggia si infilò nei pochi centimetri di spazio e uccise Milica che era sul vasino. Lei aveva tre anni e lui il tormento di decidere se andare o no al funerale: «Sono italiano. Non volevo che per la famiglia la mia presenza fosse un affronto».
All’epoca Toni Capuozzo, oggi vice-direttore del Tg5 ed editorialista de Il Foglio, seguiva la guerra del Kosovo come inviato. Ai funerali di quella bambina non andò. Ma, dopo tre anni, tornato a Belgrado, cercò la sua famiglia. I genitori tirarono fuori le foto e aprirono una bottiglia di grappa. Non ha più dimenticato Milica. Come non ha potuto farlo il tenente colonnello responsabile dell’operazione Nato all’aeroporto, che si è tolto la vita meno di un anno fa.
«Ricordarmi di Milica è per me il segno più evidente che la “guerra umanitaria” è un’illusione gigantesca», dice Capuozzo. Appena tornato da Tripoli, parla della Libia di oggi, dopo più di cento giorni di guerra e di fronte allo stallo in cui si trovano il conflitto e la comunità internazionale. Ma non può non pensare a quel 17 aprile del 1999.

Nel caso libico, che cosa ha portato all’illusione di una “guerra umanitaria”?

Quella dell’intervento Nato in Libia è un’avventura iniziata con totale leggerezza. Dalla no-fly zone si è passati ai bombardamenti, e si è andati ben oltre la difesa dei civili... Il tutto, appunto, nell’illusione che non ci fossero danni collaterali. Invece, quando arrivi lì, tra gli edifici colpiti vedi istituzioni e case private. Nello stesso raid contro la casa di Gheddafi, dove è morto suo figlio Saif al-Arab, peraltro il più distante della famiglia dall’ossessione del padre, sono rimasti uccisi anche tre bambini. È solo un esempio. Giorno dopo giorno, quest’intervento si è rivelato quanto mai fallimentare. E, al contrario di quanto dice il presidente francese, il tempo gioca a favore del Rais.

Ma quello della comunità internazionale è stato solo un errore di valutazione?
No. È vero che la Nato in versione europea, cioè senza America, si è dimostrata una tigre di carta, affetta da un vuoto di leadership totale. Ma il fatto che la via di uscita all’inizio sembrasse facile, sembrasse “già scritta”, questo non rappresenta solo un calcolo sbagliato: è la conseguenza di un atteggiamento preciso e grave. Un atteggiamento da pubblico televisivo. Intendo dire che è un modo di affrontare la realtà superficiale, figlio dell’ignoranza e di una sorta di colonialismo culturale. Non ci si attarda più a guardare, a capire la realtà.

È questa «superficialità» che porta a chiamare una guerra “umanitaria”?
Sì. Ormai le conseguenze di un intervento militare sono considerate come un triste accessorio. Qualcosa - in fondo - di scontato: ciò significa che non si sente più il peso insopportabile della morte, anche quella di un solo uomo. Ma accettare questo gioco machiavellico ti rende sempre più simile al nemico che combatti. E, soprattutto, uscirne ora vorrebbe dire fare un atto di umiltà e di ragione: guardarsi allo specchio, ammettere gli errori, farsi domande, che sarebbero molto scomode. Ed è proprio quello che nessuno oggi fa: interrogarsi. Stando là, ti accorgi immediatamente dello scarto tra la realtà e l’impatto che le notizie hanno all’estero. Soprattutto nel nostro Paese.

Cosa intende?
È un Paese malato di politica, e quando un fatto non è un “motivo del contendere” tra partiti, non è motivo per schierarsi, polemizzare, allora non è più affrontato con attenzione. Siamo abituati ad attaccarci ai codicilli in ogni vicenda pubblica e, poi, davanti a un intervento militare, in cui siamo coinvolti direttamente, abbiamo assistito a un cambio di registro notevole senza fiatare.

Ma là, come si vive ora?
Io sono stato solo a Tripoli. L’ostacolo a vedere da “vicino” la vita è il controllo totale dei governativi che ti accompagnano. Io lo avevo messo in conto: ti fanno vedere quello che vogliono loro, filmi quello che vogliono loro. Ma, per quanto possa essere ferreo il controllo, riesci comunque a percepire gli umori, a vedere la guerra dal basso, a raccogliere cose a telecamera spenta. E quello che ho visto è che psicologicamente la guerra si sente: parti prematuri, i bambini che non riescono più a dormire… Oltre al grande esodo: almeno metà dei sei milioni che compongono la popolazione è scappata. Però, anche in questo caso, la realtà è diversa da quello che si pensa.

Cioè?
Noi abbiamo idea che quella che scappa sia tutta gente disperata, che fugge da condizioni gravissime. Non è così: il libico medio vive bene. Al confine con la Tunisia, riconosci immediatamente le macchine libiche, perché sono più belle. Ora, per esempio, mancano molti lavoratori manuali, perché si tratta di posti occupati di solito dagli immigrati. Insomma, sono tanti gli aspetti su cui si ha una concezione sbagliata, dal momento che si tende a imporre uno schema sulla realtà. Senza guardarla, senza conoscerla.

Per esempio?
Per esempio, si fa fatica a capire la natura del regime di Gheddafi. Io conosco la storia di ferocia e di vergogna che lo caratterizza, ma è un regime che ha una reale base di consenso. Personale, tribale, di vario genere. Peraltro, negli ultimi trent’anni, la popolazione è raddoppiata, e sono una minoranza quelli che hanno conosciuto una Libia senza di lui. La maggior parte della popolazione ha paura soltanto perché non riesce a immaginare che cosa possa essere il Paese dopo Gheddafi, per il semplice motivo che non ha mai vissuto in un’altra condizione. Così i ribelli. Che la comunità internazionale ha appoggiato senza nemmeno sapere chi fossero. O i fedeli al regime, che ci si immagina siano tutti tagliagole… È anche per questi motivi che ho voluto andare a vedere. Per raccontare la realtà. Anche se l’illusione di cambiare le cose con il mio lavoro l’ho persa da tempo. Mi ricordo anche quando.

Quando?
Un giorno preciso, a Sarajevo. Io e il mio operatore stavamo tornando dalla strage al mercato. Distrutti. Sporchi di sangue, e pieni di alcol, per cercare di stordirci dopo quello che avevamo visto. Passavamo in macchina in una zona piuttosto tranquilla. Dal finestrino, in un’aiuola spartitraffico, vedo un uomo e una donna: vestiti dignitosissimi, stavano chini a strappare l’erba con le mani. Ho voluto fermarmi. «È per fare il minestrone», ci dicono. E ci danno il permesso di filmarli: «Fate vedere al mondo cosa succede, è bene che il mondo sappia…», dice lui. E io, in quell’istante, ho sentito che li stavo ingannando. Sono stato malissimo.

Perché?
Potevano essere mia madre e mio padre. Ed io sapevo che il mondo ha visto molto peggio di quello che stavamo filmando, ma non è cambiato per questo. Prima di andare via, gli ho dato un sacco di patate che era caduto da un camion per strada. Era tutto quello che gli potevo dare. Ma mi è sembrato di mentirgli, perché le cose non cambiano per il fatto che io le mostro e le racconto.

E perché lo fa allora?
Perché questo non toglie che la testimonianza serva. Anzi, è l’unica cosa che serve. Mi ha confortato vedere la pienezza di un uomo che ho conosciuto poco tempo fa in Afghanistan. Un salesiano, piemontese. Vive in una zona fondamentalista, ha a che fare con i figli dei talebani. E di certo non si aspetta che la gente si converta o chissà cos’altro. Sta lì, e distribuisce aiuto, amore, gratis. «Io mi faccio vedere come sono, chi sono», mi diceva. Nient’altro. Senza volere un risultato in cambio. Mi è venuta in mente la piuma di Forrest Gump: non sai dove, ma da qualche parte si poserà. Con le dovute proporzioni, capisco che il mio compito è lo stesso di quel missionario.