Un momento della cena fatta insieme e Ca' Edimar.

Qualcosa di bello a cui potersi affidare

William, Wesley e Wellington visitano il centro padovano. Sono brasiliani, legati dalla stessa amicizia che cambiò la vita del ragazzino martire. Tanti chilometri di distanza bruciati da uno sguardo davanti a cui non si può barare...
Eugenio Andreatta

Non si stupiscono più di tanto a Ca’ Edimar, il villaggio padovano dell’accoglienza, quando qualcuno chiede il significato di quella “sigla”, che suona così bene. Edimar invece, come i lettori di Tracce sanno, non è una sigla, ma il nome di un ragazzo (il secondo martire della storia del nostro movimento, lo definì don Giussani, dopo l’ugandese Francis), che nel 1994 fu ucciso con una pistolettata - aveva sedici anni - per non aver voluto accettare la logica di violenza e sopraffazione dei suoi vecchi “amici”.
Dai martiri, insegna la storia della Chiesa, nasce sempre un germe di vita nuovo. E anche Edimar mostra di aver seminato bene. In Brasile come a Padova, o in Camerun, dove c’è un centro per ragazzi di strada intitolato a lui e con cui Ca’ Edimar è “gemellata”. E così qualche giorno fa, nella città del Santo, alcuni ragazzi di Brasilia, William e i fratelli Wesley e Wellington, accompagnati da padre Giorgio, che per Edimar era una figura di riferimento, così come le sue insegnanti Semia e Gloria, hanno incontrato una quindicina di ragazzi dai 13 ai 18 anni, che, per periodi più o meno lunghi, vivono a Ca’ Edimar con le famiglie di Mario, Riccardo e Giampietro.
Un pomeriggio molto semplice, nulla di formale. La visita alla struttura, un momento di incontro, la messa, la cena insieme nella elegante sala ristorazione. Ma la scintilla scatta subito. Migliaia di chilometri di distanza, ma il cuore è il medesimo. E così anche la domanda che accomuna quei ragazzi, in Italia come in Brasile: potrò mai cambiare? Perché a molti di loro la prima opportunità è stata offerta, spesso anche la seconda, e non è che le cose siano andate sempre bene. Rialzarsi è difficile.
Anche Edimar aveva imparato presto come gira il mondo. Andava agli incontri di Scuola di comunità con la P38. La posava tranquillamente sul tavolo e la riprendeva al termine della riunione. «Stai tranquillo», diceva a don Giorgio: «È perché poi, quando torni, non sai mai se per strada trovi amici o nemici». Prudentemente, non aveva voluto rompere di netto con il passato. Soprattutto con quel boss del vecchio gruppo che legava a sé i ragazzi con un ambiguo legame fatto di confidenze e fedeltà. «Ma se mi tradite sapete cosa vi aspetta». Edimar lo scoprì a sue spese il 31 luglio 1994. Lui non aveva tradito nessuno, solo non era disposto ad ammazzare per dar prova di fedeltà agli amici di prima. La sua morte, nella totale indifferenza iniziale degli altri del gruppo (ma poi per alcuni non fu più come prima), avrebbe potuto essere uno dei tanti, purtroppo ordinari e dimenticati episodi di violenza giovanile metropolitana. Invece, racconta padre Giorgio, dal suo sacrificio nascono una scuola materna e un doposcuola in cui tanti bambini e ragazzi fanno esperienza di accoglienza, educazione e perdono.
Lo testimonia Wesley, che nell’amicizia di padre Giorgio e degli altri, bella e insieme drammatica, impara a non essere più determinato dai propri errori. E a vivere quella compagnia non come una soluzione o un rifugio, ma un cammino vero, in cui tutto di te è coinvolto. Al punto che, lavorando come vigile del fuoco per mantenersi, ora sta conseguendo la seconda laurea in diritto, dopo quella in economia. «Non capivo tutto, ma ho accettato di camminare», racconta. «Oggi mi è più chiaro che non devo guardare il mio niente, ma la preferenza che il Signore ha avuto e continua ad avere verso di me». Ci vuole una domanda vera però, e la voglia di andarci a fondo. Come per suo fratello Wellington, che imparò a poco a poco a fidarsi di padre Giorgio proponendosi come autista per accompagnarlo tutte le volte che doveva andare dal medico.
I ragazzi di Ca’ Edimar non fanno fatica ad entrare in sintonia. E anche se, come D., senza tanti giri di parole, magari ti dicono che «per me non è stato così significativo quello che hanno detto, il mondo è pieno di gente che cambia in meglio o in peggio», rimangono però colpiti che quegli amici fino a ieri sconosciuti abbiano voluto dedicare a Ca’ Edimar - e soprattutto a loro - un pomeriggio della loro breve vacanza italiana. «Mi colpisce la felicità del vostro volto, soprattutto il tuo, Wesley», dice Alex. Perché di discorsi ne avranno anche loro sentiti tanti, ma sugli occhi non si può barare.
Quei nuovi amici si sono fidati di qualcuno. È dura, quando hai ricevuto qualche legnata di troppo per la tua età, magari anche non solo metaforica. Eppure si può. «Io non è che mi fidi ancora del tutto», dice S., «ma pian piano la mia fiducia sta crescendo». Cresce mettendola alla prova. Come quando ha dovuto scegliere, per scontare il furto di qualche motorino, se stare quattro mesi in carcere o un anno a Ca’ Edimar. Non era una scelta automatica. «Non è stato facile farsi aiutare», aggiunge M., che è ad Edimar da quattro anni, ma che è ospite di comunità da quando ne aveva sei, «ma adesso ho incontrato il movimento, ho scoperto cosa vuol dire essere voluti bene. Adesso voglio stare qui».
«Bisogna che ti capiti qualcosa di bello per fidarsi, perché il desiderio di cambiare emerga con tutta la sua forza», dice Mario. È quello che racconta il testo di Romaria, cantata dalla bella voce di William. La canzone descrive un uomo moralmente non ineccepibile, anzi piuttosto malandato, ma che accetta di mettersi in cammino fino al santuario di Aparecida per portare il suo sguardo davanti a quello di Maria. È commovente. Forse perché cantata da un brasiliano? Anche, magari. Ma è quello di cui si è parlato tutto il pomeriggio.