Le Torri dopo l'attentato.

America, il sogno non è crollato

A dieci anni dalla caduta delle Torri, proponiamo una serie di articoli sull'attentato che ha sconvolto il mondo. E che continua a sfidarci ancora oggi: siamo disposti a lottare per la cultura della vita?
Joseph Wood*

Dieci anni sono un arco di tempo molto breve, per valutare la portata di un evento storico e le sue conseguenze; tanto più se si cerca di misurare l’impatto degli accadimenti di un singolo giorno su un’idea radicata nel tempo quanto quella del “sogno americano”. Quel sogno ha assunto molte forme negli ultimi tre secoli, fin dai giorni delle colonie americane prima dell’indipendenza. Ha significato la libertà di culto, la libertà di godere dell’abbondanza materiale di una nuova terra, la libertà di essere governati da istituzioni la cui sovranità deriva da coloro che sono governati; la libertà dalla fame irlandese, dalla servitù mitteleuropea o dalla povertà latinoamericana; la libertà di superare i vincoli creativi nelle arti e nelle scienze, e molti altri sogni individuali e collettivi. Nessuna espressione ha mai descritto meglio questo sogno della speranza di aver diritto a: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità».
Se gli attentati dell’11 settembre hanno distrutto molte vite, e dobbiamo ricordare dapprima le vittime e le loro famiglie, gli effetti su queste diverse manifestazioni di un sogno comune sono stati minimi. La possibilità che una famiglia qualunque ha di arrivare alla fine del mese, di comprare una casa, di assicurare l’istruzione ai figli, di praticare liberamente la propria religione, e così via, è dipesa molto più dal debito personale e nazionale, dal mercato immobiliare e dalle crisi finanziarie, dall’elezione di un’amministrazione “progressista” e dalla sempre maggiore sessualizzazione e materializzazione della cultura collettiva, che non da qualsiasi risposta ai terroristi islamici. Anzi, è stato proprio osservando le tendenze che soggiacciono a questi sviluppi nelle società europee e americane, che gli assassini dell’11 settembre e i loro complici islamici in tutto il mondo hanno maturato la sensazione che l’Occidente fosse pronto per essere conquistato.
Le analogie storiche sono sempre pericolose, ma un paio di esempi recenti possono essere istruttivi e aiutarci a mettere le cose in prospettiva. Nel 1951, dieci anni dopo l’attacco a Pearl Harbor, gli Stati Uniti avevano contribuito alla sconfitta della Germania nazista e dell’Impero giapponese. Quella guerra aveva devastato il pianeta. Nel periodo immediatamente successivo, gli Stati Uniti si erano ritirati dalle missioni estere nella speranza di ricreare la condizione prebellica di una pacifica ricerca della prosperità in patria. Ben presto avevano scoperto che le loro responsabilità globali erano gravose, e le loro capacità di creare la pace e difendere dal comunismo erano insostituibili. Dieci anni dopo Pearl Harbor, gli Stati Uniti si erano impegnati nella difesa a lungo termine dell’Europa nella Nato, stringevano altrove altre alleanze militari, stavano costruendo una serie di istituzioni politiche ed economiche, dalle Nazioni Unite al piano Marshall alla Banca mondiale, iniziavano a fare i conti con gli incubi di avversari dotati di armi nucleari, ed erano impantanati in un’impopolare “azione di polizia” in Corea che ancor oggi resta irrisolta. Nessuno nel 1941 avrebbe potuto immaginare il decennio successivo, e nessuno nel 1951 avrebbe sospettato tutto ciò che li attendeva nei sessant’anni successivi. Ma il sogno americano è sopravvissuto.
Nel 1969, gli Stati Uniti hanno portato l’uomo sulla Luna, un successo tecnologico sconcertante e coraggioso che era stato motivato dall’esigenza di dimostrare che le società libere potevano impegnarsi in quelle missioni meglio dei regimi totalitari. Ma già nel 1969, la società americana era nel mezzo di un mutamento radicale, e di un’insoddisfazione a volte violenta, e molti esperti stimavano che l’Unione Sovietica si stesse rafforzando a spese di una debolezza statunitense. Dieci anni dopo, il Paese si era ritirato dal Vietnam, era stato scosso dalle crisi petrolifere degli anni Settanta e dall’inflazione, e si preparava a eleggere Ronald Reagan per ripristinare un livello minimo di fiducia. Vent’anni dopo l’allunaggio dell’Apollo 11, cadde il Muro di Berlino (con un po’ di aiuto da parte di un Papa polacco). Il sogno americano viveva ancora.
Se è corretto associare il sogno con questa prosperità imperfetta ma sostanziale in America, il sogno però non è esclusivamente americano. Le persone - esseri umani singoli, nelle loro famiglie e comunità - ovunque e sempre vogliono essere felici nei modi più fondamentali e trascendenti, anche se non sanno bene come organizzare i governi, le politiche, la finanza o la cultura per inseguire al meglio quella felicità. Dieci anni dopo l’11 settembre, vediamo il mondo arabo scosso dalle convulsioni: non necessariamente all’inseguimento dei diritti umani o delle norme democratiche occidentali, ma perlomeno contro l’oppressione e la povertà imposta.
L’11 settembre ci ha ricordato che esiste realmente la possibilità di scelta tra una cultura della vita - l’amore, la libertà della persona, la realtà ordinata e le verità assolute - e la cultura della morte. Queste culture non si allineano ai confini nazionali nel corso del tempo, e i fautori di entrambe sono presenti in ogni luogo e in ogni momento. Le minacce a quel sogno, alla cultura della vita, possono assumere la forma di attacchi terroristici, di minacce totalitarie o di silenziose avanzate da parte dei nichilisti culturali. Dieci anni dopo l’11 settembre, siamo stanchi delle guerre in Iraq e in Afghanistan seguite a quegli attentati terroristici. La domanda più generale è se siamo stanchi di lottare per la cultura della vita.

* Senior Transatlantic Fellow presso The German Marshall Fund