Ground Zero.

Tutta la terra è Ground Zero

Il sogno americano non può essere solo possesso, servono un «capitale di generosità», fede e audacia, perché le porte degli inferi non prevalgano. La quinta puntata della serie sul dramma dell'America racconta il punto di vista di un artista
Makoto Fujimura*

Come l’uomo non può vivere senza sogni, così non può vivere senza speranza.
(Elie Wiesel)

L’11 settembre 2001, uno dei motori degli aerei dirottati atterrò nella nostra strada, rischiando di uccidere un pedone. In questi dieci anni io, mia moglie e i nostri tre figli siamo diventati residenti di Ground Zero. I nostri tre figli frequentavano scuole pubbliche vicino alle Torri. Anche noi, come quel pedone, siamo stati risparmiati.
Dopo due mesi di esilio, ci è stato permesso di tornare al nostro loft per la festa del Ringraziamento del 2001. Le fiamme ostinate che per tutto quel tempo erano divampate a Ground Zero si spensero infine verso Natale, e i nostri figli poterono tornare a scuola a febbraio del 2002. A quell’epoca, Ground Zero non era già più Ground Zero.
Non era più una realtà selvaggia, devastante e inflessibile: Ground Zero era stata sterilizzata. Si vendevano cianfrusaglie e si sventolavano bandiere americane in nome di qualsiasi ideologia. I turisti accorrevano, da quando era stato aperto l’ingresso di Canal Street. Divenne il punto di ritrovo dei dimostranti: per la guerra all’Islam, per il destino dell’America.
Il sogno americano è un termine coniato dallo storico James Truslow Adams nel 1931, a significare che «la vita dev’essere migliore, più ricca e più piena per tutti, con opportunità per ciascuno a seconda delle abilità o dei risultati ottenuti». Ogni generazione, fino a poco tempo fa, trasmetteva alla successiva aspettative più elevate. Sospetto che ogni viaggio verso il sogno americano sia anche un ripensamento, o almeno un nuovo racconto, di storie personali. Come Ground Zero è stata assimilata, così il sogno americano può ben presto ridursi a gretto materialismo. Qualunque cosa significhi sogno americano, è vero che ogni generazione ne ha una propria versione: oggi il sogno americano può essere fluido, e certamente sfuggire all’analisi, ma gli stessi ideali possono incarnarsi in realtà diverse e corrispondere ancora alla definizione originaria.
A cosa ha posto fine l’11 settembre, e a cosa ha dato inizio? Ha messo in luce i preconcetti che stanno dietro parole come “Ground Zero” o “Sogno americano”. Di questo dobbiamo essere grati. Per me questi dieci anni sono stati un’occasione per riflettere sulle conseguenze di quei preconcetti. Questi due termini si possono connettere in una riflessione.
Dal punto di vista teologico, tutta la terra è Ground Zero. Viviamo in un mondo caduto in cui ogni realtà bella, vera e buona viene rapidamente idolatrata e trasformata in qualcosa di egoistico, avido e distruttivo. Cristo è venuto per redimere questa via all’autodistruzione portando sulla croce tutto il nostro orgoglio della carne. Cristo è il Dio di Ground Zero.
Ground Zero, in Cristo, può significare anche un punto di cancellazione, un nuovo inizio in cui possiamo ergerci sulle ceneri della desolazione e cercare ancora un rinnovamento e “momenti di genesi”.
Il “sogno americano” può essere un insieme di questi “momenti di genesi”. Il sogno americano non dev’essere un mero computo degli possessi materiali che possiamo accumulare; può essere l’unità di misura della felicità sulla base di un capitale creativo e relazionale. Anziché avanzare alla cieca per dominare ogni angolo di questo fragile pianeta, possiamo prendercene cura, come ci chiedono gli ambientalisti di ispirazione cristiana. Anziché prendere decisioni darwiniane, basate sull’assunto di risorse limitate, possiamo sforzarci di credere che le risorse di Dio, soprattutto il capitale creativo e relazionale, siano infinite. La creatività basata sull’amore può creare un capitale di generosità, nutrendo il mondo con nuove opportunità anziché stimolare la competizione. L’attenzione alla cultura, esattamente come quella per l’ambiente, è un obiettivo nobile per la generazione ventura. Non dev’essere una visione socialista, che parte dal presupposto di risorse limitate, ma può basarsi sull’abbondanza dell’ottimismo riguardo a ciò che l’America rappresenta. In altri termini, il sogno americano non deve riguardare soltanto le case e le barche che possediamo, ma anche il nostro impegno prudente e umile per custodire la Grazia infinita che Dio riversa in noi. Ha a che fare anche con i sogni di ciascuno di noi, come nella definizione di Adams: riuscire a vedere possibilità nuove anche nel lutto, sulle ceneri di Ground Zero, mentre cerchiamo di tramandare la speranza alle generazioni future.
Avremo bisogno di fede. E non è neppure necessario essere americani per far parte di questo sogno. Il sogno americano non è più vincolato dalla geografia, dal nostro passaporto, dai partiti politici a cui siamo iscritti: deve sempre essere improntato all’apertura, donato a coloro che osano raccogliere la sfida. Sì, l’America è un luogo, una località. Come tale, l’America può essere un fermento di sperimentazione; un posto in cui mettere alla prova nuove idee, testarle nel microcosmo di quella località, e poi condividerle. Può essere un fulcro del movimento creativo e comunitario dei sognatori, che insieme vigilano sul futuro del mondo.
Ora, naturalmente, si farà subito avanti il sospetto a minare una visione così ottimista: il mondo, si dirà, non è mosso dalla generosità, ma dall’autoconservazione e anche dall’avidità. Il capitalismo si basa su questa pulsione. Sento arrivare il dissenso anche dalle comunità di fedeli: è destino che trionfiamo sulla città degli uomini da questo lato dell’eternità? E se sì, non riusciremo forse soltanto a fermare l’oscurità per un tempo limitato, prima che la corruzione alligni dentro di noi? Non stiamo semplicemente facendo del nostro meglio per opporre resistenza ai mali del nostro tempo, finché Cristo ritorna? Tutte queste posizioni sono valide. Ma qui propongo un pensiero radicale, che sorge dalle ceneri dell’11 settembre e dalla successiva crisi finanziaria di Wall Street: il capitalismo basato solo sull’avidità non è sostenibile, e la fede senza audacia non può sopravvivere nel nostro clima di pluralismo estremo.
Come san Francesco e santa Chiara d’Assisi, possiamo dare inizio al nostro viaggio con umiltà, e con una fede radicale e audace. Possiamo incamminarci sulla strada tortuosa che porta verso l’alto, pregando insieme al canto degli uccelli che si chiamano l’un l’altro sui rami diversi del pluralismo. Una comunità che fa assegnamento sul proprio capitale materiale può crescere solo con guerre territoriali. Una comunità che si affida alla fede creativa e alla visione comunitaria prospererà anche se tutto il mondo, o la chiesa corrotta dei tempi di san Francesco, le si oppone. Contro di essa non prevarranno neppure «le porte dell’inferno», siano esse finanziarie, politiche o militari.

* Makoto Fujimura è un pittore di fama internazionale, autore e docente di arte e cultura, ma anche il fondatore dell'International Arts Movement