Gli "indignados" bloccano il ponte di Brooklyn.

Nell'era della "tecnocrazia"

Le strade Usa invase dagli "indignados". Che accusano Wall Street. Ma c'è di più delle colpe degli speculatori: là dove un tempo decidevano i Governi (e i cittadini), oggi regna una dittatura finanziaria. Che ci fa male. Ma si può combattere
Gianluigi Da Rold

Passa sotto il nome di protesta degli indignados e ha come bersaglio la speculazione finanziaria, apparentemente. «Blame the speculators» («Dagli allo speculatore»), gridano i manifestanti di New York, bloccando il ponte di Brooklyn e contestando apertamente Wall Street. Che in questa protesta ci sia una “spia” del disagio di una crisi prevalentemente provocata dal sistema finanziario, è verissimo. Ma l’impressione che ci sia anche una grande confusione ideologica è rilevante.
Non ci si può svegliare all’improvviso, dopo che per anni di “bonaccia” quasi tutti hanno partecipato alla baldoria finanziaria degli anni Novanta, mentre l’economia reale e, soprattutto la politica, intesa come governo e partecipazione dei problemi di una comunità, veniva messa in pensione e quasi demonizzata. Perché questo è successo. Fino a poter ormai pronunciare una frase che provoca paura: siamo sotto il controllo di una dittatura finanziaria.
Le colpe, però, non sono solo di un gruppo di finanzieri spregiudicati, le colpe sono più complessive e riguardano il modo di vivere di un mondo che forse ha dimenticato i fondamentali della vita come il lavoro e il desiderio dell’uomo di partecipare a una comunità dove equità, merito e giustizia sociale sono elementi fondanti. Per questo l’attacco alla finanza sembra una scoperta tardiva dei “falsi miti” creati da film come Wall Street: è solo una semplificazione, che non porta da nessuna parte.
Altra cosa è rendersi conto di che cos’è accaduto. Oggi la democrazia, formale, liberale, partecipativa, borghese, declinata come si vuole, appare sempre di più sotto scacco nei Paesi occidentali. Di fatto, una parte rilevante dei poteri dello Stato democratico occidentale è andata da un’altra parte. Attenzione, non è stata assorbita in Europa, per esempio, da un organismo sovranazionale ben definito e concordato tra Stati, da una Unione politicamente e sostituzionalmente funzionante, ma da entità che interpretano una esigenza di coordinamento monetario, finanziario ed economico ormai prevalente su tutto.
Prendiamo in considerazione questo concetto di un grande economista come Giulio Sapelli: «Nel mercato globale dei capitali regolato dalle banche, ormai persino l’emissione di moneta simbolica dello Stato è stata sottratta agli Stati medesimi dalla istituzionalizzazione esoterica delle banche universali che collocano i titoli di Stato. Ma che altro è la statualità se non il monopolio della forza, della tassazione e il monopolio dell’emissione della moneta-reale o virtuale che essa sia?».
Ecco, quella forza è passata altrove. In Europa, dove la gestione della crisi lo fa vedere con chiarezza e le leve sono sempre più in mano a istituzioni extrapolitiche. Ma anche nel resto del mondo. L’impressione, ormai, è che le ragioni della finanza hanno ormai un peso rilevante anche sulla democrazia americana. Se si confrontano le aspettative e i risultati portati dal presidente Barack Obama, si capisce che, nonostante le buone intenzioni, è la grande lobby bancaria a dettare i tempi della crisi e determina di conseguenza l’agenda politica. Di fatto, deciderà, con le sue scelte, anche il destino di questo Presidente del Paese più forte del mondo, nonché del prossimo Presidente.
Come questo sia potuto avvenire è compito degli storici - e principalmente degli storici del diritto e dell’economia - stabilirlo. Ma il fatto che questo fatto sia avvenuto, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, è ormai assodato, quasi di dominio pubblico. Chiaro, non è che fosse meglio la presenza dell’impero sovietico e comunista, magari nella logica dei due blocchi. Ma certamente, liberati dall’incubo a Est, gli occidentali sono stati travolti da un’euforia che li sta portando a un fallimento del sistema che hanno costruito negli ultimi venti anni della loro storia.
Non è un caso, ad esempio, che, accanto a questa irruzione della finanza, delle ragioni prioritarie della finanza nella vita pubblica, si registri una decadenza culturale e politica come in Europa, dal 1945 alla fine degli anni Ottanta, non si era mai vista. Dicono due economisti come Mario Deaglio e Francesco Forte: nella cosiddetta Prima repubblica italiana c’erano almeno dai 50 ai 70 parlamentari che sapevano leggere il bilancio dello Stato e potevano suggerire proposte o correzioni. Oggi ci sono al massimo cinque persone che sanno orizzontarsi tra i conti pubblici, ma sono solo tecnici e di politica non capiscono nulla. E non è molto diverso negli altri Paesi democratici occidentali.
Il fatto è che, con la svolta degli anni Novanta, ai tempi della cosiddetta “fine della storia”, la politica è stata messa in soffitta e nello stesso tempo è stato creato un nuovo soggetto finanziario, la banca universale, quella che raccoglie i depositi, che fa l'investiment banking, che gestisce il risparmio e altro ancora. Da infrastruttura necessaria e insostituibile del libero mercato, la nuova banca è diventata allo stesso tempo un’impresa multinazionale, che deve fare profitti, e il baricentro del sistema economico-finanziario. Gli americani hanno superato tutti nella nuova architettura finanziaria, creando le Banking Holiding Companies (BHC), cioè società finanziarie costruite per poter controllare sia banche commerciali, sia banche d’investimento, sia assicurazioni e altre società in grado di offrire consulenza o prodotti specifici.
Sono diventate tanto influenti le banche che si è coniato l’aforisma «Too big to fail», troppo grande per fallire. Infatti, a mo’ di esempio, nella crisi del 2008 ne è fallita solo una: Lehman Brothers. Le altre hanno continuato a cartolarizzare titoli, a fare trading, a determinare la vita di persone e imprese.
Ma c’è di più. Con questo sistema, che fu intuito già un secolo fa da economisti come Rudolf Hilferdin e paventato da Joseph Shumpeter, il capitalismo industriale è stato rimpiazzato dal capitalismo finanziario. In questa epoca di globalizzazione il nuovo sistema ha creato una autentica classe transnazionale di tecnocrati legati al profitto a breve termine, al concetto che i soldi, attraverso sofisticate architetture finanziare, creano altri soldi. È una classe sociale nuova, che si colloca tra imprese e banche con il nome di manager che guarda all’affare più che all’appartenenza a un’impresa, sia bancaria o industriale, e infatti si paga, oltre che con stipendi con bonus e stock-option.
Secondo Sapelli è proprio questa «internazionale di stock-optionisti» che ha operato un autentico colpo di stato mondiale, relegando la politica, e la cultura politica, in un angolo. La loro filosofia si basa su un’antropologia che vede l’uomo come un anarchico individuo massimizzante in perenne competizione con tutti, che non esclude periodi di disoccupazione strutturale nelle società, che detesta l’economia di mercato sociale, che sorride di fronte al concetto di bene comune, che pensa che sia il profitto a generare l’investimento e non l’investimento a produrre profitto.
Quando questo sistema è franato nel 2008, lo si è volutamente scambiato per un ciclo negativo, non per uno schianto strutturale, per una svolta epocale. E si è cercato di rimediare, tamponando qua e là, con vecchi sistemi inadeguati. I risultati di questi mesi sono sotto gli occhi tutti.
In questo scenario, si capisce anche perché nel varare una surreale Costituzione europea si rifiutavano le radici giudaico cristiane, si faceva partire la civiltà europea dall’Illuminismo nella sua parte più meccanicista e materialista, come quella di Thomas Hobbes. A una simile tecnocrazia qualsiasi principio di carità cristiana, di solidarietà e di sussidiarietà rappresentava quasi un “pugno nell’occhio”. Lo stesso discorso del lavoro che crea ricchezza e rifiuta il meccanismo della cosiddetta finanziarizzazione diventa un concetto retrogrado e insopportabile. La società della tecnocrazia, il nuovo Stato transanazionale finanziario ha altre idee per la testa e da realizzare.
Oggi il problema che si pone è come superare questa “dittatura finanziaria”, come uscire da un simile decadimento della cultura democratica. C’è innanzitutto il problema di prendere coscienza, non facendosi frastornare dai media del nuovo potere, che si accaniscono con insistenza sugli sprechi della “casta” politica (che esistono, sia chiaro), ma chissà perché (anche se è fin troppo chiaro) sorvolano bellamente sui disastri e le dissipazioni della tecnocrazia che comanda.
«Cosa fare? Da un punto di vista di regolamentazione, bisognerebbe spaccare il sistema finanziario», dice Sapelli: «Separare come un tempo le banche commerciali dalla banche d'affari e da altre attività finanziare. Ma da un punto di vista umano, antropologico, diciamo una cosa molto semplice: paghiamo meno i manager, i tecnocrati e raddoppiamo i salari a quelli che lavorano. Cioè diventiamo più buoni e meno avidi. Torniamo a vivere almeno come facevamo una trentina di anni fa. Oggi tutti conoscono il bilancio dello Stato e nessuno conosce più la giustizia sociale. C’è un esempio che mi ha colpito in questo periodo: Benedetto XVI che va a mangiare con i cassintegrati. È un esempio che dovrebbero seguire in molti».
Poi c’è un grande lavoro educativo da fare. Il ritorno alle radici della civiltà europea, il ritorno al lavoro nel suo concetto cristiano, quello che libera l’uomo ed è fonte della sua creatività e della sua ricchezza, il desiderio di infinito che si traduce nella realtà in grandi innovazioni e grandi imprese che nascono nell’economia reale, nella realtà degli uomini liberi. Sarà un percorso lungo, difficile, accidentato. Ma è l’unico che può farci uscire da questa cappa soffocante.