Vivere sempre intensamente il reale

Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 1 ottobre 2011

JULIÁN CARRÓN
Ogni inizio ha dentro sempre un’attesa. Quanto più riconosciamo qual è la natura della nostra attesa, tanto più siamo consapevoli che ad essa non possiamo rispondere, ultimamente, noi. Per questo l’attesa di un uomo adulto diventa domanda, domanda all’Unico che può rispondere veramente alla portata della nostra attesa. Perciò, vedendo vibrare in noi questa attesa, all’inizio di questo gesto domandiamo lo Spirito, l’Unico in grado di rispondere ad essa.

Discendi Santo Spirito

DAVIDE PROSPERI
Domandiamoci che significato ha trovarci qui (noi presenti a Milano e tutti gli altri collegati da tutta Italia e dall’estero), per ricominciare insieme questo anno. La risposta è che oggi più che mai ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di ricordarci le ragioni per cui vale la pena ricominciare, perché siamo immersi in una grande confusione, sociale, politica, ma soprattutto in una grande crisi economica e del lavoro, che mette a repentaglio seriamente la speranza di un popolo. E allora siamo qui per dirci perché vale la pena ricominciare.
Il Papa, intervenendo al Parlamento tedesco la settimana scorsa, durante il suo viaggio in Germania, ha posto senza mezzi termini la questione radicale di cosa voglia dire oggi stare davanti all’urgenza del bene di un popolo: «Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011). Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale?
Il 26 gennaio scorso, presentando Il senso religioso, don Carrón ha lanciato a tutto il movimento la grande sfida di quest’anno: il senso religioso come verifica della fede. Che vuol dire: la fede vissuta come giudizio sulla realtà è capace di suscitare un’umanità piena, una ragione che resiste davanti agli assalti del nostro tempo, dominato, come ha detto il Papa, da una concezione positivista?
Questa ipotesi è stata subito messa alla prova durante le elezioni amministrative della primavera scorsa. E prima ancora siamo stati provocati dal volantino dal titolo Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo. Qualcuno inizialmente lo ha interpretato come se mancasse qualcosa, come se si avesse paura a schierarsi fino in fondo, accontentandosi delle ragioni di una posizione ultima. Ma è stato un bene che questo sia accaduto, perché ci ha costretto a domandarci non superficialmente quanto le ragioni date fossero decisive per sfidare il mondo. Infatti abbiamo dovuto entrare nel merito (e non ci siamo certo risparmiati), abbiamo voluto verificare se le ragioni di quello che noi difendiamo, che non è un partito, ma un’esperienza, appunto, «ciò che abbiamo di più caro», tenevano. Abbiamo dovuto renderci conto se i criteri per guardare le cose che nascono dalla nostra esperienza erano sufficienti a porre una posizione originale davanti a tutti, per poter vivere innanzitutto pienamente noi quella circostanza. Oppure se, al contrario, era necessario aggiungere altro, un criterio diverso, una strategia diversa. Ma se avessimo aggiunto un altro criterio (un criterio, diciamo, «politico», o comunque «più politico»), ad un certo punto avremmo dovuto scegliere tra l’uno e l’altro, perché, prima o dopo, un criterio deve pur prevalere.
Allora la questione è: l’esperienza cristiana può essere sufficiente a determinare una posizione e un giudizio integrale sulla realtà oppure no? Ecco, noi abbiamo scelto di assumerci questo rischio. E l’esito lo abbiamo visto al Meeting, dove l’irriducibilità della nostra posizione sulla politica, così come su tutto il resto, è stata evidente per chiunque. Dopo il Meeting, anche i giornali laici, pur non capendo fino in fondo da dove viene questa posizione, hanno dovuto ammettere, come ha fatto Michele Smargiassi su la Repubblica del 26 agosto: «Forse bisogna accantonare definitivamente la domanda-tormentone di ogni anno “con chi sta Cl?”. Cl, da sempre, sta con Cl» («“Noi, il popolo di Dio”», la Repubblica, 26 agosto 2011, p. 37). E noi gliene siamo grati. Questa irriducibilità non è strategica, ma nasce da un giudizio su quello che noi siamo, ed è questo che ci rende liberi, liberi e quindi anche autorevoli. Paolo Franchi, editorialista del Corriere della Sera, ha scritto su ilsussidiario.net del 29 agosto: «Il Meeting ha una lunga, e ormai consolidata, tradizione di apertura, la certezza di sé (...). In una stagione che sembra segnata da una guerra di tutti contro tutti tanto feroce quanto improduttiva, al centro del Meeting di Rimini c’è stata la ricerca delle cose che si possono e si debbono fare insieme senza che nessuno debba mettere a rischio la propria anima, anzi, cercando di fare in modo che ciascuno della propria storia e della propria cultura possa rintracciare e far pesare la parte migliore, meno caduca, più viva» («Io, relativista, vi spiego perché ho sbagliato a non andare a Rimini», ilsussidiario.net, 29 agosto 2011). E questo non lo diciamo noi.
Quest’anno il Meeting ha segnato un passo nuovo. Nella situazione di totale incertezza in cui tutti, veramente tutti, si lamentano e basta (non si sente in giro un solo giudizio nuovo di speranza), molti si aspettavano di trovare al Meeting la stessa confusione, la stessa incertezza del mondo, guardando magari con la coda dell’occhio a quale potere ci saremmo aggrappati. Perché questa è l’unica risposta che ci si può aspettare al di fuori di una concezione come quella che stiamo descrivendo. Invece coloro che si aspettavano questo sono rimasti spiazzati, perché hanno visto un giudizio diverso, un’esperienza di certezza che non è determinata dalle circostanze, positive o negative che siano, ma è frutto di una posizione originale rispetto alla realtà. Si è visto in tante occasioni: una nuova idea di ecumenismo, in cui un’amicizia misteriosa con gente di ogni credo è nata dal riconoscimento che l’esperienza che si è vista (non dimentichiamoci che nell’ottobre 2010 si è svolto per la prima volta il Meeting Cairo) è un punto educativo per tutti: il rettore dell’università egiziana Al-Azar, per esempio, ha chiesto a Savorana se può mandare in Italia alcuni suoi studenti universitari per conoscere l’esperienza da cui nasce il Meeting. I filosofi Costantino Esposito e Fabrice Hadjadj hanno mostrato come l’esperienza cristiana risponde al dramma del pensiero moderno. E ancora, pensiamo all’incontro su «L’Italia unita, storia di un popolo in cammino», con Giuliano Amato, Marta Cartabia e Maria Bocci. Oppure, ancora, consideriamo la reazione di Sergio Marchionne, che quest’anno è tornato al Meeting due volte e ha detto alla televisione: «Mi interessa la qualità della gente che è qua. Questa è gente vera, che fa. È la semplicità del fare. In un Paese che parla tanto, questa è gente che fa. È un bel posto in cui venire» (Intervista al TgMeeting, 24 agosto 2011). Li abbiamo visti tutti questi giovani, ai parcheggi sotto il sole, alle cucine, alle mostre, alla mostra sui 150 anni della sussidiarietà: ragazzi che hanno aspettative per il futuro, che vedono il mondo in cui sono, eppure hanno una gran voglia di costruire, perché c’è un’esperienza viva che è più positiva di tutta la negatività che sentono intorno. E noi dobbiamo guardare lì. Questo in fondo è anche l’augurio che ci ha fatto il presidente Napolitano quando, inaugurando il Meeting, ha detto: «Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza». Il nostro compito non è che tutti la pensino come noi, ma che questo anelito di certezza diventi contagioso.
Recentemente, reagendo a questi fatti, Carrón ci ha detto: «Quando queste cose sono presenza e suscitano curiosità? Quando fanno emergere la presenza nel reale di una realtà inspiegabile: il Mistero. Noi diventiamo interessanti quando nella realtà emerge un’eccedenza, che è quello che attira veramente». Il Mistero come realtà presente, pur senza essere misurabile, anzi, proprio per questa eccedenza rispetto alla nostra misura, compie, ci compie, rende compiuto il rapporto della ragione con la realtà.
Permettetemi di raccontare un fatto che mi è accaduto questa estate e che mi ha chiarito quello che stiamo dicendo. Durante una gita in montagna, c’era un punto molto esposto, la cresta era franata ed era rimasto aperto un buco di poco più di mezzo metro che dava sul vuoto. Lungo il sentiero c’erano davanti un adulto con due ragazzini; a un certo punto, l’adulto è passato ed è passato anche il primo ragazzino, mentre il secondo è rimasto bloccato. Inizialmente ho interpretato che fosse per una questione psicologica, un’insicurezza che il primo, magari più spavaldo, non aveva. Ma poi ho scoperto che il primo era il figlio dell’adulto che era passato, mentre l’altro era un amico. E lì mi si è chiarita la questione. Per il secondo la realtà era solo quel buco che dava sul vuoto, era solo «il problema» che doveva superare e non sapeva se ne avrebbe avuto le forze. Perciò era rimasto bloccato. Mentre per il primo la realtà era il buco e il padre, il padre che era lì con lui e che era passato, era già passato, tutte e due le cose insieme. C’è un affetto, c’è una Presenza che domina la realtà: se la ragione non riconosce questa Presenza dentro la realtà, la realtà è ridotta e la ragione è bloccata.
Per cui una ragione libera, capace di stare davanti al reale, è una ragione affettiva. Dove pesca questa certezza che tutti abbiamo visto a Rimini, tanto che lo ha riconosciuto anche chi è lontano dalla nostra esperienza? Evidentemente non si tratta di una sicurezza di sé, come un’autosufficienza in cui crediamo di potere vivere. È proprio il contrario: la certezza è un legame affettivo con la verità, e questo, solo questo, può renderci liberi da qualsiasi potere.
Allora, se quello di cui abbiamo più bisogno per vivere (al pari dell’aria che respiriamo) è una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità, ti chiediamo: dove nasce e come si realizza una ragione così?

JULIÁN CARRÓN
1. «Fissare come presenza le cose presenti»

Una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento cristiano. È in forza dell’avvenimento cristiano che la ragione compie la sua natura di apertura davanti allo svelarsi stesso di Dio. Si capisce perché don Giussani dice che «il problema dell’intelligenza è tutto dentro» l’episodio di Giovanni e Andrea (L. Giussani, Si può vivere così? , Rizzoli, Milano 2007, p. 273). Per questo motivo il 26 gennaio scorso (in occasione della presentazione de Il senso religioso) abbiamo iniziato ricordando che «il cuore della nostra proposta è [...] l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma/Milano 1993, p. 38). E da che cosa si vede che esso è entrato nella nostra vita? Dal fatto che «questo avvenimento - dice don Giussani - resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”» (Ivi).
Questo è il motivo per cui l’avvenimento cristiano rende l’uomo uomo, cioè più in grado di vivere secondo le sue evidenze originali, più in grado di essere colpito dal reale, di vivere la realtà secondo la sua verità, perché capace di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità della realtà. Solo una «ragione aperta al linguaggio dell’essere» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011), come ha appena detto il Papa in Germania, può raggiungere il reale, senza rimanere prigioniera delle interpretazioni che aggiungono solo incertezza a incertezza, come vediamo oggi a tutti i livelli.
Per questo noi, che partecipiamo a questo avvenimento nella comunità cristiana, dovremmo sorprendere nella nostra esperienza che siamo più «vulnerabili» di fronte all’essere delle cose, più in grado di essere colpiti, di stupirci, perché è nel rapporto col reale, davanti alla moglie o ai figli, ai colleghi o alle circostanze, al sole o alle stelle, che noi facciamo la verifica della fede. Se è vero che ogni uomo è colpito di fronte al reale, ciascuno di noi dovrebbe essere più facilitato in questo dal fatto di essere stato risvegliato dall’incontro cristiano, così che la realtà ci parli di più, ci sorprenda di più.
Ma tutti noi sappiamo quanto spesso non è così. Ancora una volta don Giussani ci viene in aiuto per identificare dov’è la questione. Rivolgendosi ai preti dello Studium Christi, nel 1995, diceva: «La radice della questione è il fattore costitutivo di ciò che c’è, e la parola più importante per indicare il fattore più importante di quel che c’è è la parola presenza. Ma noi non siamo abituati a guardare come presenza una foglia presente, un fiore presente, una persona presente, non siamo abituati a fissare come presenza le cose presenti. Siamo approssimativi in questo» (Milano, 1 febbraio 1995). E lo dice a noi, a noi che abbiamo già incontrato Cristo e che abbiamo avuto il nostro io risvegliato da questo incontro. Perciò tutti noi possiamo fare subito la verifica e giudicare fino a che punto Giussani ha ragione: basta che ciascuno osservi che cosa è successo oggi, se si è sorpreso almeno un istante della presenza delle cose presenti.
Non rendersi conto delle cose presenti come presenza non vuol dire negarle. Intendiamoci, possiamo accettarle e riconoscerle - insiste ancora don Giussani -, e tuttavia darle per scontate. Ha perfettamente ragione: «Noi non siamo abituati a fissare come presenza le cose presenti». Dalla realtà, al marito o alla moglie, fino a noi stessi.
Che cosa deve avere visto in noi don Giussani, anni fa, osservando la nostra reazione alla sua lettera alla Fraternità (del 23 giugno 2003), dedicata al tema dell’Essere, per arrivare a dire: «Io ho dovuto scoprire in questi giorni che l’Essere non è vibrante in nessuno!»? Benedetto XVI ha identificato la conseguenza di questa posizione: «La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato Dio» (Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania, Erfurt, 23 settembre 2011).
Nella sua semplicità, questa lettera di un giovane universitario di Roma esprime bene la questione:
«Nel novembre dello scorso anno, ho avuto un incidente che mi ha costretto fermo a letto per più di tre mesi. È stata una grande fatica. Non mi potevo muovere, ero impossibilitato a qualsiasi attività, qualsiasi, non potevo nemmeno studiare a causa degli antidolorifici che prendevo, che mi impedivano qualsiasi attività che richiedesse un minimo di concentrazione. Tre mesi a letto, fermo, immobile. Ricordo però che un paio di mesi dopo aver ricominciato a camminare, guardando delle foto di me a letto con degli amici intorno, andai da mia madre e le dissi quasi d’istinto: “Guarda che bella foto! Comunque, è stato proprio un bel periodo!”. Riguardando indietro posso dire che, nell’immensa fatica dello stare fermo a letto, in tutta la smania di voler presto rialzarmi in piedi, c’era qualcosa che non mi rendeva infelice; anzi, ero ultimamente lieto nella fatica.
Per due motivi. Il primo è che in tutto il dolore sono stato sempre sostenuto, in un modo libero e gratuito: dalle facce degli amici che instancabilmente si dedicavano a me, come dai miei genitori, che mi dicevano sempre di offrire la fatica e il dolore. Mi accorgevo di una totale dedizione a me: totale e dettagliata. Il secondo motivo è che le cose, anche le più piccole, non erano più scontate: ero sorpreso per un piatto di pasta un po’ più elaborato, per la compagnia che vedevo intorno a me, per il fatto che le mie sorelle prima di addormentarsi mi mettevano vicino al letto la padella per la notte, senza che lo chiedessi. Fino ad arrivare, una mattina, mentre un’ambulanza mi portava in ospedale per alcune visite, a stupirmi di rivedere il cielo: io, che ci fosse il cielo, lo sapevo già, ma finalmente mi ero accorto che c’era, che era lì. [Quando uno se ne rende conto per una volta nella vita, capisce quante volte per lui il cielo non è stato una cosa presente] Non facevo niente, non potevo fare niente, eppure, in tutto il dolore, in tutta la smania, non ero infelice. Tutto era preso per il valore che aveva, niente era più scontato. E il riconoscere il valore delle cose mi rendeva lieto.
Ora dopo quattro mesi dall’aver ricominciato a camminare, mi accorgo che quella tensione verso le cose è già scemata: il piatto di pasta più elaborato è ridiventato un piatto di pasta normale, le cose sono ancora una volta sotto l’ombra della mia misura e del mio compiacimento... Qual è la strada che può restituirmi quella condizione, che può farmi vivere sempre quell’esperienza?».
Tutti possiamo riconoscerci in questa situazione: se non vediamo continuamente l’essere vibrare in noi, tutto torna di nuovo piatto e diventa sempre più urgente in ciascuno di noi la domanda: qual è la strada che può restituirmi quella condizione che rende possibile non dare per scontato tutto, ma sorprendermi di tutto?
Per rispondere a questa domanda occorre capire perché ci capita questo. Perché, dopo un’esperienza come quella descritta, ritorniamo a dare tutto per scontato e non ci stupiamo più di niente? Don Giussani identifica le ragioni in Ciò che abbiamo di più caro, il libro dell’Equipe degli universitari pubblicato quest’anno:
1) Questo accade - dice Giussani - per colpa di una ragione debole, cioè di un uso ridotto della ragione che, non essendo in grado di cogliere la presenza delle cose presenti, ci porta a dare tutto per scontato. È una ragione fragile il motivo per cui il reale non ha presa su di noi, non ci colpisce e tutto diventa di nuovo grigio. Questo uso della ragione porta a una conseguenza inevitabile.
2) Una divisione fra il riconoscimento e l’affettività, tra il riconoscimento e l’essere attaccati al riconoscimento: l’io resta diviso tra il riconoscimento (che rimane astratto) e l’affettività (che fluttua). Non essendo la ragione in grado di raggiungere la realtà, l’affettività non s’incolla, rimane fluttuante e niente ci prende.
Don Giussani ci offre anche un esempio di questo: «All’inizio dell’evo moderno: Petrarca ammetteva tutto il dottrinale cristiano, eccome, lo sentiva anche meglio di noi, ma la sua sensibilità o affettività fluttuava autonoma» (Ciò che abbiamo di più caro. 1988-1989, Bur, Milano 2011, p. 156). Cioè, il solo affermare il dottrinale cristiano come discorso non è in grado di trascinare l’affettività, generando quella unità di ragione e affezione senza della quale non si conosce, e l’io rimane diviso. Possiamo affermare il dottrinale cristiano (così come dichiarare che c’è il cielo) come un a priori astratto: ma non c’è vibrazione, non c’è attaccamento, non c’è qualcosa al di fuori di noi che ci salva da noi stessi e dalla nostra misura. Questa è «l’anoressia dell’umano» che è all’origine della confusione, dello smarrimento, dell’incertezza in cui tante volte ci troviamo a vivere in questi tempi, nei quali ci vediamo fluttuare, come un sasso che viene travolto dalle opinioni, dagli stati d’animo, non essendo in grado di attaccarci a qualcosa di reale presente, né di interessarci veramente a qualcosa. Questa anoressia non si risolve aumentando i discorsi, ma educando la ragione ad aprirsi al «linguaggio dell’essere».
Che cosa voglia dire questa apertura all’essere lo documenta bene un episodio della vita di don Giussani, che mi ha sempre colpito. Scrivendo ad Angelo Majo, dice quello che vede in chi gli è amico: «Un po’ di sere fa, pensando, ho scoperto che l’unico amico mio eri tu». E perché lo considera amico? Perché «quella vibrazione ineffabile e totale nel mio essere di fronte alle “cose” e alle “persone” non riesco a captarla se non nel tuo modo di reagire» (Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi, 2007, p. 103). Tra le tante cose a cui Giussani poteva guardare per identificare chi gli era amico, quale indica? Ancora una volta ci spiazza: non una intelligenza particolare, non una capacità di dominare il suo pensiero, non una coerenza etica da ammirare, ma la «vibrazione ineffabile e totale» davanti all’essere, che lui coglie nel modo di reagire del suo amico. Allora si capisce perché la radice della questione è che noi facciamo fatica, non siamo abituati a guardare come presenza una foglia presente, non siamo abituati a cogliere, a fissare come presenza le cose presenti. Non è che uno neghi la presenza delle cose. Semplicemente la dà per scontata. Lo si vede dal fatto che non c’è neanche un istante di stupore. Non che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, semplicemente non abbiamo sorpreso vibrare l’essere in noi. Tutti sappiamo a che grado d’insopportabilità si può arrivare quando la vita diventa così priva di stupore.
Si capisce, allora, l’urgenza di abituarsi a fissare come presenza le cose presenti, in modo tale che possiamo vedere vibrare il nostro io, qualsiasi sia la circostanza. E siccome le cose sono comunque presenti, quello che manca non sono le cose, ma è un io in grado di rendersi conto di quel che c’è. Questo ci fa capire fino a che punto il clima razionalistico in cui viviamo incide su di noi, molto di più di quanto riusciamo a renderci conto. Lo vediamo dalla fatica che facciamo a riconoscere la realtà secondo tutta la sua natura. Oggi domina una concezione positivista, secondo le sue nuove traduzioni. Ma come ha ricordato ancora il Papa in Germania, «la visione positivista del mondo (...) nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011).
Per questo don Giussani, nel capitolo secondo de Il senso religioso, identifica con chiarezza il nostro compito: «Il problema davvero interessante per l’uomo non è la logica - gioco affascinante -; non è la dimostrazione - invitante curiosità -: il problema interessante per l’uomo è aderire alla realtà, rendersi conto della realtà. È dunque una cogenza (qualcosa che costringe), non una coerenza. Che una madre voglia bene al figlio non costituisce il termine di un procedimento logico: è una evidenza, o una certezza, una proposta della realtà la cui esistenza è cogente ammettere» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 20). Soltanto l’evidenza della realtà può avere quella cogenza che ci costringe a riconoscere come presenza le cose presenti.
Nessun testo può aiutarci a verificare se la fede ci facilita il riconoscimento della realtà più del capitolo decimo de Il senso religioso, con cui riprendiamo il nostro percorso di Scuola di comunità, perché quel capitolo è la descrizione di che cosa accade in un uomo di fronte all’imponenza del reale. Consapevole che noi siamo immersi in un’epoca di ideologie (razionalismo, positivismo), che ci porta a usare la ragione in un modo ridotto, e quindi a guardare la realtà secondo tale riduzione, già dall’inizio don Giussani stabilisce un principio di metodo per una lotta contro l’ideologia: partire dall’esperienza, perché la realtà - ci ha sempre insegnato - si fa trasparente nell’esperienza. Questo principio metodologico, che fissa nel primo capitolo de Il senso religioso, è decisivo per affrontare il capitolo cruciale di tutto il libro, che è definito da don Giussani con queste parole: «Il capitolo decimo de Il senso religioso è la chiave di volta del nostro modo di pensare» (cfr. «Un uomo nuovo», Tracce-Litterae Communionis, n. 3, marzo 1999, p. IX).
Fin dalle prime battute del capitolo, egli ci invita a guardare la struttura della nostra originale reazione davanti al reale, in modo tale che non vinca in noi già dal primo contraccolpo la riduzione ideologica, per poi descrivere che cosa voglia dire seguire quella provocazione del reale fino alla sua origine, senza bloccarla a metà strada. Don Giussani descrive, cioè, in questo capitolo qual è l’itinerario vero della ragione e dell’affezione di fronte alla realtà, itinerario che deve percorrere chi vuole uscire dalla situazione di scontatezza in cui ci troviamo.
Perciò comincia con un interrogativo: se queste domande ultime che costituiscono il senso religioso sono la stoffa dell’umana coscienza, dell’umana ragione, come fanno a destarsi? «La risposta a tale domanda ci costringe a individuare la struttura della reazione che l’uomo ha di fronte alla realtà» (Il senso religioso, op. cit., p. 139). Don Giussani ci offre il metodo: «Se l’uomo si accorge dei fattori che lo costituiscono osservando se stesso in azione, per rispondere a quella domanda occorre osservare la dinamica umana [nel suo rapporto] nel suo impatto con la realtà, impatto che mette in moto il meccanismo rivelatore dei fattori» (Ivi).
E aggiunge una notazione fondamentale. «Un individuo che avesse vissuto poco l’impatto con la realtà [quante volte desideriamo risparmiarlo a noi stessi, e soprattutto ai figli!], perché, ad esempio, ha avuto ben poca fatica da compiere, avrà scarso il senso della propria coscienza [è l’io che viene meno, è l’io che manca], percepirà meno l’energia e la vibrazione della sua ragione» (Ivi). Infatti, è nel rapporto con la realtà che noi vediamo crescere il senso della nostra coscienza, l’energia e la vibrazione della ragione. Se, dunque, vogliamo risparmiarci l’impatto con la realtà sostituendolo con i discorsi o i commenti, la conseguenza inevitabile sarà che noi non vibreremo più di fronte al reale.
A ogni frase di questo capitolo ciascuno di noi dovrebbe guardare la sua esperienza, qual è la sua reazione davanti alle cose, per non affrontare tutto il capitolo decimo sostituendo il contraccolpo dell’essere con i suoi commenti al testo, parlando dello stupore senza stupirsi (tra parentesi, questo è noiosissimo, oltre che inutile!). Il primo punto che don Giussani affronta nel capitolo è proprio questo: lo stupore della presenza.

2. Lo stupore della “presenza”
Per aiutarci a riconoscere le cose presenti come presenza qual è la prima mossa geniale di don Giussani? Rompere l’ovvietà con cui noi guardiamo il reale, la nostra scontatezza. Come abbiamo visto, noi di solito guardiamo il reale come ovvio. Per strapparci questa ovvietà Giussani ci invita a compiere uno sforzo di immaginazione: «Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale?» (Ivi). Ciascuno deve cercare d’immedesimarsi con l’esperienza che don Giussani ci suggerisce, provando a seguirlo. E la forma più semplice è ritrovare nella propria esperienza un fatto che lo documenti. Come quello che mi ha raccontato il mio amico Alexandre, un medico del Brasile.
Questa estate, con un gruppo di amici universitari di lingua portoghese (brasiliani, portoghesi, mozambicani) è andato a fare una passeggiata al Colle San Carlo, a La Thuile. Mentre camminava stava pensando a che cosa avrebbe detto all’arrivo. Pensava tra sé: «Farò loro guardare il panorama, canteremo qualche canto, eccetera». Ma appena arrivati, avendo davanti il Monte Bianco, che tanti vedevano per la prima volta, sono rimasti tutti in silenzio. Mentre erano lì, tutti zitti, hanno sentito arrivare un secondo gruppo che era rimasto indietro. Le persone camminavano parlando ad alta voce. E il nostro medico ha cominciato a pensare che cosa avrebbe detto al loro arrivo: «Li farò stare zitti». Ma mentre pensava queste cose, sono arrivati e l’imponenza della presenza del Monte Bianco è stata così cogente che anche questi sono rimasti in silenzio. Questo piccolo fatto dice quanto l’immagine usata da don Giussani dell’aprire gli occhi con la coscienza che abbiamo ora non sia affatto una forzatura.
«Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente della parola “cosa”» (Il senso religioso, op. cit., pp. 139-140). È lo stesso invito che ci rivolge il Papa: «Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? (...) Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011).
Per i nostri amici che erano in gita così come per noi queste cose non sono ovvie, e si vede dallo stupore che generano. Basta leggere gli aggettivi con cui don Giussani descrive questo contraccolpo: dominato, investito dal contraccolpo “stupefatto”, riempito di questa meraviglia, di questo stupore, che nessuna situazione di questo mondo, nessuna crisi, può evitare: niente può impedire il contraccolpo dell’essere né di riempirci di questa pienezza, di fare vibrare tutto il nostro essere e di ripartire.
«L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, [una] presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone» (Il senso religioso, op. cit., p. 140). E allora riesco a fissare come presenza le cose presenti. E questo porta nella vita di ciascuno il risveglio del proprio io umano. Noi sappiamo bene quale grado di intensità acquista il nostro io quando accade questo, quale vibrazione si sperimenta.
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza» (Ivi). Scopro in me una intensità sconosciuta, per «questa originale esperienza dell’“altro”. Il bambino la vive senza accorgersi, perché ancora non del tutto cosciente: ma l’adulto che non la vive e non la percepisce da uomo cosciente è meno che un bambino, è come atrofizzato» (Ivi). È questa la mancanza dell’io, che è come atrofizzato, come un sasso che non si stupisce della bellezza delle montagne, che non vibra davanti all’essere delle cose. Capiamo che cosa sarebbe della vita di ciascuno di noi se perdessimo questa capacità di stupirci! E quale dono è l’avvenimento cristiano che ci rende più capaci di stupirci di tutto. Ha ragione Heschel: «Privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime» (A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969, pp. 273-274). Vale a dire, ci perdiamo il meglio. E nessuna distrazione creata poi artificialmente, come quelle che la società di oggi inventa, ce lo potrà restituire.
«Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello d’essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende». C’è, c’è, c’è! «Tradotto empiricamente è la percezione originale di un dato» (Il senso religioso, op. cit., p. 140); secondo il suo significato di participio passato, «dato» implica qualcosa che «dia». Tutto mi è dato, regalato. Riusciamo a immaginare che cosa sarebbe la vita se vivessimo ogni cosa come «dato», come dono, se riconoscessimo così qualsiasi cosa presente e se ci facesse vibrare? Qualunque circostanza sarebbe diversa.
Un’amica mi scrive:
«Ciao, Julián! Ti scrivo dalla camera dell’ospedale in cui è ricoverata la mia mamma, che ha subito un piccolo intervento chirurgico. Che miracolo questa giornata che è iniziata tutta all’insegna della non scontatezza; mi è sembrato di vivere in diretta quello che viene descritto nel decimo capitolo de Il senso religioso. Vedere mia mamma che scendeva in sala operatoria sotto anestesia me l’ha fatta guardare con una tenerezza grande: non solo perché è mia mamma, ma perché questa mattina la sua presenza mi risvegliava a prendere coscienza che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me, non mi dò l’essere, non mi dò la realtà che sono, sono “dato”! Non era scontato che questa mattina mia mamma mi fosse regalata e che io mi guardassi come un dono!».
Ma qual è l’ostacolo decisivo a questo modo di guardare? Che, come abbiamo visto, noi diamo per scontato questo dato, non percepiamo la realtà come dato. Si parte scavalcando l’esserci, il darsi, l’esistere delle cose. E qual è il segno più evidente che noi scavalchiamo l’esserci delle cose? La mancanza di stupore. Purtroppo questa è la posizione più comune, più radicata in noi di fronte alla realtà. «Non siamo abituati - questa è la portata di ciò che dice Giussani - a guardare come presenza le cose presenti». Per questo è così raro vedere vibrare l’essere in qualcuno! E quando lo vediamo vibrare in noi è uno stupore, tanto è raro che accada.
A questo punto, possiamo capire meglio quanto sia decisivo per ciascuno di noi imparare, affinché diventi abituale, quell’atteggiamento suggerito da don Giussani: «La stessa parola “dato” è vibrante di una attività, davanti alla quale sono passivo: ed è una passività che costituisce l’originaria attività mia, quella del ricevere, del constatare, del riconoscere» (Il senso religioso, op. cit., pp. 140-141). La prima attività, amici, è questa passività, senza della quale non mi rendo conto del dato, della realtà come dato, come un dono che mi viene fatto. Se non vogliamo perdere il reale in ogni particolare, deve diventare familiare in noi questa indicazione di don Giussani: la prima attività è questa passività. Ma dobbiamo essere attenti al tipo di passività di cui stiamo parlando per non trarre la conclusione, come al solito, che non occorre fare niente. La passività di cui si parla è un «ricevere, constatare, riconoscere» la realtà come data. Cioè, proprio il contrario del darla per scontata. E da cosa possiamo riconoscere che stiamo facendo la stessa esperienza di cui parla Giussani e non stiamo soltanto ripetendo uno slogan? Dallo stupore, dal risveglio dell’umano in noi.
La presenza è così cogente che facilita l’accorgersi di essa, perché «“l’evidenza è una presenza inesorabile!”. L’accorgersi di una inesorabile presenza!» (Il senso religioso, op. cit., p. 141). Guardate che espressione sintetica: l’accorgersi di una inesorabile presenza. Questo è trattare le cose presenti come presenza: l’accorgersi di una inesorabile presenza. Questo accorgersi non potrà mai essere ridotto a «una registrazione a freddo»: è una «meraviglia gravida di attrattiva», è uno «stupore che desta la domanda ultima dentro di noi» (Ivi); la domanda religiosa.
Infatti, la religiosità nasce da questa attrattiva. Il primo sentimento dell’uomo è questa attrattiva; la paura - che si indica tante volte come origine della religiosità - non subentra che in un secondo momento. «La religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva [dell’essere. Questo è quello che ci occorre, lo svilupparsi dell’attrattiva dell’essere]. C’è una evidenza prima e uno stupore del quale è carico l’atteggiamento del vero ricercatore: la meraviglia della presenza mi attira, ecco come scatta in me la ricerca» (Ivi).
Che semplicità occorre per lasciarsi attirare da quella presenza, che, per la vibrazione che provoca in me, diviene così interessante da fare scattare la ricerca! Se questa ricerca non si ferma, non si blocca, per spiegare quella presenza, quel dato, dobbiamo ammettere qualcosa d’altro. Ma spesso noi blocchiamo questa ricerca, e lo si vede dalle innumerevoli volte in cui sentiamo dire: perché davanti alla realtà dobbiamo tirare in ballo il Mistero, il Tu, Dio? Si domanda questo come se il rimando a un altro fattore oltre e dentro ciò che si vede, non fuori, ma oltre e dentro ciò che si vede, non fosse contenuto in ciò che si vede, nell’esperienza di ciò che si vede, nel dato, ma fosse costruito da noi. Certamente questo rimando è colto dal soggetto, ma appartiene all’oggetto, alla cosa, all’esperienza della cosa.
Per questo uno che, partendo da quello che c’è, come vero ricercatore non blocca il rimando inscritto nell’esperienza delle cose e non blocca la sua curiosità, il suo desiderio di capire fino in fondo, di spiegare in modo esauriente il dato, non può non riconoscere qualcosa d’altro come parte della presenza che c’è. Come descrive il dialogo di Dio con Giobbe: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?», vale a dire: sei stato tu a generare questa realtà che ti stupisce? «Dillo, se hai intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura?» (Gb 38,4-5).
Tutto ciò che c’è grida la sua dipendenza da un Altro. Perciò non esiste niente di più adeguato, di più aderente alla natura dell’uomo che essere posseduto, per una originale dipendenza. Infatti la natura dell’uomo è quella di essere creato, e la sua ragione si compie nel riconoscere quella implicazione ultima che è dentro l’essere delle cose. Se uno nega il rimando, se nega l’oltre, nega la cosa, l’esperienza della cosa, la distrugge. Di fronte all’abissale gratuità del reale vi è come una strana paralisi della ragione, che si blocca. Ma se uno nega questo, nega la cosa. È come se dentro le cose ci fosse un invito, non aggiunto dal soggetto, ma riconosciuto dal soggetto, perché contenuto del fenomeno stesso della presenza. Per questo la prima originale intuizione è lo stupore del dato. Vi prego di non darlo per scontato, riducendo di nuovo l’esperienza a pensiero: il pensiero dello stupore non è lo stupore, come il pensiero di essere innamorato non è essere innamorato. Per questo don Giussani, nel quarto paragrafo del capitolo decimo - relativo all’io dipendente -, ci fa capire se veramente abbiamo fatto esperienza di quello che dice o se abbiamo seguito semplicemente la logica di un discorso senza neanche un istante di stupore.

3. L’io dipendente
«Quando è risvegliato nel suo essere dalla presenza, dalla attrattiva e dallo stupore, ed è reso grato, lieto, perché questa presenza può essere benefica e provvidenziale, l’uomo prende coscienza di sé come io e riprende lo stupore originale con una profondità che stabilisce la portata, la statura della sua identità» (Il senso religioso, op. cit., p. 146).
Il test che io ho accusato il contraccolpo dell’essere è, primo, che il mio io si è risvegliato. Lo constatiamo spesso: riconosciamo che è successo qualcosa a qualcuno perché l’io di quella persona si è risvegliato («Ma che cosa ti è successo?», le domandiamo subito). Secondo, sono grato e lieto (come l’amico dell’incidente). Io so che è avvenuto quel contraccolpo in me perché percepisco in me stesso una gratitudine, una letizia per questa presenza (posso trovarmi in ospedale, come l’amico della lettera, ma sono grato e lieto perché questa presenza c’è). Terzo, questo mi rende consapevole di me, fino al punto che, quarto, la profondità dello stupore stabilisce la portata della mia identità. Guardate qual è il criterio di misura della nostra identità! Non sono i titoli universitari o i soldi che guadagniamo o il ruolo che ricopriamo, a stabilire la portata della nostra identità, ma la profondità dello stupore che mi rende consapevole di me.
«In questo momento - continua Giussani - io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono “dato”. È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro» (Ivi).
Ciascuno dovrà chiedersi se per lui che «io non mi faccio da me» è «l’evidenza più grande». Per noi è evidente la bottiglia o il bicchiere; ma che «io non mi faccio da me» non è così evidente, e lo si vede dalla domanda che spesso ritorna tra di noi: perché davanti al reale o al mio io devo dire Tu? Non manca qualche passaggio?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo cercare di seguire Giussani nel suo percorso fino alla profondità del reale, se vogliamo coglierne l’origine. «Quanto più io scendo dentro me stesso, se scendo fino in fondo, donde scaturisco? Non da me: da altro. È la percezione di me come un fiotto che nasce da una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me, e da cui vengo». E fa un esempio bellissimo: «Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire una origine che non sa che cos’è, è altro da sé» (Ivi).
«Scendere fino in fondo dentro me stesso» è un invito a un uso vero, non fragile della ragione, l’unico in grado di vincere la separazione tra riconoscimento e affezione. La nostra difficoltà a farlo, a seguire don Giussani in questo, è segno della nostra mancanza di familiarità con un uso completo, non positivista della ragione. La fatica che facciamo per arrivare fino in fondo ci fa pensare che si tratti d’una operazione mentale, una complicazione, una sorta di creazione, e che in fin dei conti il Tu sia frutto del nostro sforzo. Che sclerosi dell’io e della ragione! Che mancanza di «io»! E che mancanza di familiarità con un uso adeguato della ragione! Lo possiamo vedere quando impariamo matematica: per non sbagliare dobbiamo fare tutti i passaggi, passo dopo passo. Tutto ci sembra così artificioso! E perché? Per una mancanza di familiarità con un uso adeguato della ragione. Infatti, quando abbiamo imparato la matematica, tutto diventa agile, veloce e affascinante. O ancora, quando uno comincia a suonare il pianoforte, le mani sembrano ingessate. Ma che delizia quando l’agilità delle nostre dita permette di goderci Mozart!
Ma noi non abbiamo la pazienza di fare questo lavoro a cui ci invita costantemente don Giussani. Ci sembra complicato, artificioso, appunto. E scambiamo la ragione col sentimento, perché sembra più facile, più immediato: se lo sento, esiste; se non lo sento, non esiste. Questa è la nostra intelligenza “logica”! A questo punto, ciascuno di noi deve decidere se seguire Giussani - scendendo dentro se stesso fino in fondo - nell’imparare questo uso della ragione per riconoscere le cose presenti come presenza, o se preferisce fare altro rinunciando a seguirlo. Ma poiché non siamo abituati a fare questo percorso, preferiamo fare altro (leggere, ripetere delle frasi), invece di impegnarci per imparare a usare la ragione come lui. E quante volte soccombiamo alla tentazione di scappare! Per questo, poi, rimaniamo confusi, nell’incertezza, travolti come un sasso dalle opinioni.
Soltanto chi segue Giussani nel percorso che ci indica potrà vedere accadere in sé quella vibrazione che ci invade quando entriamo veramente in rapporto con l’Essere; così come vediamo vibrare l’io di ciascuno di noi davanti al tu della persona amata. Uno può dire: «Tu» con tutta la vibrazione che l’essere della persona amata provoca in lui. E che ribellione sentirebbe se qualcuno - a cui manca questa familiarità - volesse ridurre quella vibrazione a una operazione mentale, a una complicazione! È come vedere la persona amata ridotta dallo sguardo freddo di un altro. Ma se noi non seguiamo Giussani fino a questo punto, tutto diventerà di nuovo piatto, malgrado tutti i nostri commenti, perché non acquisteremo quella familiarità con un uso della ragione in grado di farci aderire veramente al reale e di impedirci di continuare a fluttuare nei nostri stati d’animo.
Tutto ha la natura del segno, del fiotto. Il fiotto implica la sorgente. Conoscere significa accettare di compiere il percorso che va dal fiotto alla sorgente. Questo è l’uso vero, non fragile, della ragione.
Se uno dicesse: «Io» con tutta la consapevolezza di quello che sta succedendo ora, vedendosi donare l’essere - di cui l’incremento dell’essere che il tu della persona provoca in lui è soltanto un pallido riflesso -, con che razza di vibrazione dovrebbe dire: «Io sono “tu-che-mi-fai”»! (Ivi) Come ci testimonia don Giussani: quella sorgente che «è più di me stesso», non posso pensarla senza tremore e attrattiva. Ma per noi dire: «Tu» è quasi uguale a zero. Capite che cosa ci perdiamo? Lo sappiamo, non è che non lo sappiamo, ma non basta saperlo perché accada. È solo un’educazione che rende diversa la vita. Questa vibrazione non è un sentimentalismo, è «un giudizio che trascina tutta la mia sensibilità» (cfr. «Un uomo nuovo», op. cit., p. IX), è la consapevolezza commossa di un adulto davanti al Tu che mi dà l’essere. Per questo il Papa dice che «la Chiesa si apre al mondo, non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr. Conf. 3,6,11)» (Benedetto XVI, Discorso ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, Friburgo, 25 settembre 2011).
Infatti, perché la mia ragione possa essere affettiva occorre che sia veramente ragione, che scenda fino al punto di raggiungere il Tu reale da cui scaturisco, non una ragione fragile. Se la ragione non raggiunge il reale, l’affezione rimane staccata e fluttua; per colpa della divisione tra la ragione e la realtà, si genera una divisione tra riconoscimento e affettività. La ragione non è lucidità analitica, ma è legame con la realtà. Perciò don Giussani dice che la vera ragione si scopre in Giovanni e Andrea, perché loro sono stati «presi». Infatti, senza che la ragione raggiunga la realtà e ci leghi, noi continuiamo a fluttuare e non c’è certezza. Come ha documentato ampiamente il Meeting di quest’anno. E come ha acutamente osservato il professore Eugenio Mazzarella, commentando l’intervento di Costantino Esposito a Rimini: «Noi veniamo al mondo, siamo posti nel nostro essere, da Qualcuno [...], che è e resta la nostra originaria “provvista” di certezza. [...] Tener viva questa certezza, ravvivarla nella vita di ogni giorno e di ogni momento è riprendersi - riprendere sé - in questo originario legame a Qualcuno che ci costituisce, vera fonte della certezza» («Caro Ferraris, perché qualcuno ci ha voluto nel mondo?», ilsussidiario.net, 19 settembre 2011). Questo significa riprendere sé dallo smarrimento in cui tante volte scivoliamo.
Allora si capisce la differenza tra ripetere: «Io-sono-tu-che-mi-fai» come uno slogan pur vero e dire: «Io» con la coscienza di un Altro che mi fa ora! Se non potete dire «Tu» con la stessa emozione, con la stessa vibrazione della prima volta in cui vi siete sorpresi innamorati davanti alla persona amata, non sapete neanche lontanamente che cosa vuol dire Giussani. Altro che complicazione mentale! Altro che elucubrazione! La differenza si vede da quello che succede in noi. Nel primo caso - ripetendo: «Io-sono-tu-che-mi-fai» come uno slogan - non accade niente; se, invece, dico: «Tu» con la coscienza dell’Altro che mi sta facendo ora, non posso evitare una commozione sconfinata; non posso evitare di vedere sorgere in me una affezione a quel Tu e nello stesso tempo di sorprendere una gratitudine infinita perché c’è. Quanto cammino ci resta ancora da fare per vivere la realtà con questa intensità, come ci testimonia ancora don Giussani!
«Quando io pongo il mio occhio su di me e avverto che io non sto facendomi da me, allora io, io, con la vibrazione cosciente e piena di affezione che urge in questa parola, alla Cosa che mi fa, alla sorgente da cui sto provenendo in questo istante non posso che rivolgermi usando la parola “tu”. “Tu che mi fai” è perciò quello che la tradizione religiosa chiama Dio, è ciò che è più di me, è cio che è più me di me stesso, è ciò per cui io sono» (Il senso religioso, op. cit., p. 147). Altro che una parola! Dio mi è padre perché mi sta concependo «ora». Fuori da questo «ora» non c’è niente. «Nessuno è così padre, generatore» (Ivi). Per questo cantiamo sempre con commozione: «Quando mi accorgo che tu sei, / come un’eco risento la mia voce / e rinasco come il tempo dal ricordo» (A. Mascagni, «Il mio volto», Canti, Cooperativa editoriale Nuovo Mondo, p. 203).
«La coscienza di sé fino in fondo percepisce al fondo di sé un Altro. Questa è la preghiera: la coscienza di sé fino in fondo che si imbatte in un Altro. Così la preghiera è l’unico gesto umano in cui la statura dell’uomo è totalmente realizzata» (Il senso religioso, op. cit., p. 147). Che differenza dal pietismo e dal formalismo a cui riduciamo di solito la preghiera! Si capisce perché poi ci stanchiamo e scappiamo da essa. Mentre chi non fugge e prende coscienza di sé fino in fondo, cioè usa la ragione non in modo fragile, ma vero, completo, comincia a essere consapevole che se sta in piedi è perché si appoggia a un Altro, è perché è fatto da un Altro. E la sua vita inizia ad avere un punto d’appoggio saldo, non sentimentale, fluttuante, dipendente dagli stati d’animo, ma certo, per quel legame della ragione con la realtà fino alla sua origine.
Aiutiamoci a immedesimarci per non ridurre queste cose a un che di scontato, appena le abbiamo ascoltate! «Come la mia voce, eco di una vibrazione mia, se freno la vibrazione, la voce non c’è più. Come la polla sorgiva che deriva tutta dalla sorgente. Come il fiore che dipende in tutto dall’impeto della radice» (Ibidem, p. 148). La voce, la polla, il fiore... sono immagini che don Giussani ci offre per aiutarci a renderci conto di questo ora, per superare l’ovvietà, la scontatezza. Per questo dire: «Io sono», secondo la totalità della mia statura di uomo, non può che voler dire: «Io sono fatto». E da questo, aggiunge don Giussani, «dipende l’equilibrio ultimo della vita» (Ivi).
Da che cosa si vede che uno ha questo equilibrio? Dal fatto che «respira interamente, si sente a posto e lieto, quando riconosce di essere posseduto». Perciò, «la coscienza vera di sé è ben rappresentata dal bambino tra le braccia del padre e della madre» (Ivi). Possiamo vedere che questo diventa per noi esperienza dal fatto che, come il bambino, possiamo entrare - quanto è importante questo oggi, nel contesto di una crisi che viviamo a tutti i livelli - in qualsiasi situazione dell’esistenza, in qualsiasi circostanza, in qualsiasi buio, con una tranquillità profonda e una possibilità di letizia. «Non c’è sistema curativo che possa pretendere questo» (Ivi). E proprio perché non diventa nostra questa coscienza vera di noi stessi dobbiamo rivolgerci ad altri sistemi curativi, che tuttavia non sono in grado di arrivare a questo livello della questione, e perciò non risolvono le cose, se non mutilando l’uomo: spesso, per togliere il disagio di certe ferite, censurano l’uomo nella sua umanità. Bella soluzione!
A nessuno sfugge la portata di quanto stiamo dicendo di fronte alla sfida rappresentata dalle circostanze che siamo chiamati a vivere. Solo una certezza così radicata ci permetterà di costruire.

Conclusione
La formula dell’itinerario al significato ultimo della realtà qual è? Vivere il reale, ci dice schiettamente don Giussani. Si capisce, allora, l’importanza del reale per il vivere.
L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi, cioè uomini (non pii, uomini!), è vivere sempre intensamente il reale. Per questo uno che vive intensamente il reale, anche se è contadino o casalinga, può sapere di più del reale che un professore, perché la formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusione, senza rinnegare e dimenticare nulla.
Ma, attenzione, che cosa vuol dire vivere il reale? Don Giussani ci riserva l’ultima perla: «Non sarebbe infatti umano, cioè ragionevole, considerare l’esperienza limitatamente alla sua superficie, alla cresta della sua onda, senza scendere nel profondo del suo moto». Questo è il «positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno», che «esclude la sollecitazione alla ricerca del significato che ci viene dal rapporto originario con le cose. [...] Il positivismo esclude l’invito a scoprire il significato che ci vien rivolto proprio dall’impatto originario e immediato con le cose» (Il senso religioso, op. cit., p. 151). Come ha detto ancora il Papa in Germania, con una immagine luminosa: «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento federale, Berlino, 22 settembre 2011).
Da che cosa vediamo che siamo positivisti? Dal fatto che soffochiamo dentro il nostro edificio di cemento armato. Don Giussani ci offre tutti i dati perché ciascuno possa verificare che esperienza sta facendo. Possiamo dare le interpretazioni che vogliamo, ma se soffochiamo nelle circostanze, vuol dire che siamo positivisti (questo è il punto!). Per respirare basta «tornare a spalancare le finestre», per «vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra», ci dice il Papa, senza bloccare, aggiunge don Giussani, «l’invito a scoprire il significato che ci vien rivolto proprio dall’impatto originario e immediato con le cose» (Il senso religioso, op. cit., p. 151).
Per questo, «quanto più uno vive il livello di coscienza, che abbiamo descritto, nel suo rapporto con le cose, tanto più vive intensamente il suo impatto con la realtà e tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero» (Ivi).
Questo chiede a ciascuno di noi un impegno che nessuno ci può risparmiare. Perciò don Giussani finisce rendendoci consapevoli che «quello che blocca la dimensione religiosa autentica, [...] è una mancanza di serietà con il reale, di cui il preconcetto è l’esempio più acuto» - cioè l’ideologia, questa riduzione che viviamo tante volte per la situazione culturale in cui siamo -. «Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro, oltre sé, più su». Per questo l’analogia è la parola che «sintetizza la struttura dinamica dell’impatto che l’uomo ha con la realtà» (Ivi).
Che avventura affascinante, amici! Percorrendola fino in fondo, potremo testimoniare a tutti una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità, il solo punto che permette di costruire, in un momento in cui tutto sembra cospirare contro la ripresa della vita sociale. Questo è il nostro contributo.


Omelia alla messa
Julián Carrón

Le letture di oggi ci dicono che imparare a fare il percorso come ci siamo detti non è decisivo soltanto per il rapporto con la realtà in generale, ma anche con quel reale più reale dell’avvenimento cristiano, che è Cristo. Tanto è vero che possiamo essere davanti alla preferenza del Mistero e non rendercene conto.
Tutta la liturgia di oggi è piena di questa predilezione, di questa preferenza: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita» (Is 5,7). Da che cosa si vede questa preferenza? Perché Dio «l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino» (Is 5,2). L’aveva circondata con quella preferenza unica, ma non soltanto nella sua origine: infatti il Signore ha mandato - come dice il vangelo - i profeti, perfino il Figlio, per averne cura, ma i contadini non L’hanno accolto, non si sono resi conto di quella preferenza, di quel dono (cfr. Mt 21,33-43). E quando non prendiamo consapevolezza del dono del reale, che riceviamo dal Mistero, vediamo che si moltiplicano i disastri. Infatti dopo questo rifiuto, che cosa accade? «La terra è calpestata, diventa deserto dove crescono rovi e pruni» (cfr. Is 5,5-6). La vita si riduce a questo: un deserto, tutto diventa piatto, tutto diventa di nuovo grigio.
Inserendole nella Liturgia, la Chiesa attualizza queste due parabole di Isaia e del Vangelo per richiamarci al fatto che noi, adesso, siamo la vigna del Signore. Il Signore ha generato la Chiesa, l’ha curata, l’ha comprata a prezzo del sangue del suo Figlio. Noi possiamo dire: «Siamo la vigna prediletta». Dio non abbandona il suo popolo e continua a inviarci messaggeri, «testimoni» - come ci ha ricordato il nostro Arcivescovo domenica scorsa -, che si prendono cura della vigna, perché non diventi un deserto. Ma tante volte noi non soltanto rifiutiamo i profeti, come il popolo della antica alleanza, ma rifiutiamo anche il Figlio. «Cristo - ci ha detto l’Arcivescovo citando Giovanni Battista Montini - è un ignoto, un dimenticato, un assente in gran parte della cultura contemporanea». E questo fa sì che gli uomini «non riescono più a vederne la convenienza per la vita quotidiana loro e dei loro cari» (A. Scola, Omelia all’ingresso in Diocesi, Milano, 25 settembre 2011).
Ce lo ha ricordato lo stesso Papa - un altro messaggero - in Germania: «Constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa» (Benedetto XVI, Discorso ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, Friburgo, 25 settembre 2011). E ancora: «La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede» (Benedetto XVI, Discorso al Consiglio del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, Friburgo, 24 settembre 2011). Vediamo come continua a realizzarsi, tale e quale, la parabola: possiamo anche noi rifiutare tutti i messaggeri, e perfino il Figlio. La conseguenza la stiamo vedendo in noi e nella vita sociale: questo «massiccio abbandono della pratica cristiana» non può non implicare - diceva il cardinale Scola - un «grave detrimento per la vita personale e comunitaria della Chiesa e della società civile» (A. Scola, Omelia...). Ma il Signore continua a mandarci anche ora testimoni, messaggeri: dal Papa al nostro Arcivescovo, insieme a tante persone cambiate in mezzo a noi. Attraverso di loro Cristo continua a chiamarci, ad attrarci verso di Lui affinché la nostra vigna non diventi un deserto, ma porti frutto. Perché, come diceva il Papa, «il rinnovamento della Chiesa, in ultima analisi, può realizzarsi soltanto attraverso la disponibilità alla conversione e attraverso una fede rinnovata» (Benedetto XVI, Omelia alla Messa, Friburgo, 25 settembre 2011). La conversione non è altro che costruire sulla pietra che gli altri hanno scartato e che anche noi tante volte scartiamo; è costruire sul Signore perché - come ha affermato il Papa - «Egli ci è vicino e il suo cuore si commuove per noi, si china su di noi. (...) Egli attende il nostro “sì” e lo mendica» (Benedetto XVI, Omelia...).
È davanti a questo mendicare di Cristo del nostro sì che oggi si gioca la nostra vita. «Per comunicarsi agli uomini Cristo ha voluto avere bisogno degli uomini» (A. Scola, Omelia...), ci ha ricordato l’Arcivescovo. Dio ha bisogno di noi, siamo stati chiamati a collaborare alla Sua missione, per poter testimoniare che l’unica pietra su cui si può veramente costruire è proprio Lui.