In 20mila hanno partecipato ai funerali delle vittime <br> degli scontri al Cairo, fra copti ed esercito.

La Primavera tradita?

La strage cristiana, la minaccia salafita, il progetto di Erdogan. Vittorio Emanuele Parsi osserva la nuova fase delle rivoluzioni. «La domanda di libertà di quei popoli non sta trovando risposta adeguata». Ma serve tempo
Alessandra Stoppa

«Stiamo chiedendo agli arabi che le rivoluzioni realizzino i loro obiettivi in sei mesi. È mancanza di prospettiva storica». Risponde così Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano, alla fretta con cui si titolano le cronache mediorientali come “Autunno arabo” o “Primavera finita”. Ciò non toglie la preoccupazione per i fatti di questi ultimi giorni, dalla strage dei copti al Cairo agli assalti salafiti in Tunisia. Che senza dubbio segnano «la fine dell’età dell’innocenza della rivoluzione», come ha scritto lo stesso Parsi.

L’impressione diffusa nell’opinione pubblica è che la possibilità di un cambiamento reale del mondo arabo sia stato un abbaglio. È così?
No, perché il punto ineliminabile è che quei regimi non stavano più in piedi. E sono caduti. Quel mondo è stato scosso dopo decenni di autoritarismo: questo è un segnale che non si può smettere di sottovalutare. Che, poi, dalle rivoluzioni emerga per forza un regime islamico questo non è detto; o comunque, anche la vittoria di partiti islamici potrebbe non essere di per sé negativa, se dimostreranno di rispettare le regole di un sistema democratico. Di certo, la strada per l’affermazione della democrazia nel mondo arabo è ancora lunga.

Dalla Tunisia all’Egitto, passando per la Libia, ci sono dei tratti comuni sullo stato attuale della Primavera araba?
Un tratto comune è di certo il venire avanti dei partisti islamici. Sia perché sono meglio organizzati, sia perché la loro presenza e le idee che propongono sono in alcune società in linea con le opinioni prevalenti.

E questo è il fattore più preoccupante. Anche nella nuova Tunisia, che si prepara al voto del 23 ottobre con un certo fermento democratico (si contano 81 partiti e 10mila candidati), non sono mancati avvertimenti gravi, come l’assalto di trecento militanti islamici vicini ai gruppi salafiti alla tv di Taraq Ben Ammar, “colpevole” di aver trasmesso Persepolis.
Noi dobbiamo innanzitutto distinguere tra gli islamisti radicali violenti e i partiti islamici. Non solo, dobbiamo anche rispettare le scelte che le popolazioni faranno. Ciò da cui non possiamo distogliere l’attenzione sono sicuramente le conseguenze che questo ha ed avrà per le minoranze cristiane dell’area. Ad oggi, la tutela delle minoranze cristiane, persino di quella vasta e originaria dei copti in Egitto, non rappresenta una priorità per le autorità di transizione. E questo è inaccettabile.

Ora si assiste già all’esodo di 100mila cristiani dall’Egitto, e lei ha parlato di una «progressiva scristianizzazione». In più, la posizione dei cristiani sulla scena dei sommovimenti arabi è considerata “ambigua” nei confronti dei regimi.
I cristiani hanno goduto della protezione dei Governi dei Paesi in cui vivono, così come altre minoranze. E così come tradizionalmente accadeva nelle province dell’Impero ottomano. Ma il problema qual è? Che questi governi avevano una forma autoritaria e, quindi, il fatto che i cristiani abbiano dovuto avere sempre la protezione legale, li ha considerati “stampelle” dei regimi. Ma il problema non è delle minoranze che cercano protezione, ma delle forme di Governo. Tutto sommato anche nel più "democratico" dei regimi, anzi proprio nei regimi usciti dalle urne, normalmente le minoranze devono cercare la protezione legale dei Governi. Ma questa non è privilegio. Quello di cui sono accusati ora i cristiani, anche in maniera impropria, è di avere avuto dei privilegi. Mi sembra che complessivamente questo non sia vero. E comunque bisogna tenere presente tutti i fattori.

Cioè?
Le gerarchie religiose in Paesi autoritari, o come nel caso siriano “più che autoritari”, hanno dovuto sempre tener conto del potere politico e quindi arrivare a compromessi. È inutile non guardare questo. Perché, se c’è un’autorità religiosa riconoscibile e visibile in un Paese e quel Paese è governato da un regime non democratico, o quell’autorità viene a patti con il regime oppure non è li. Il Dalai Lama non è in Tibet. Perché se voleva stare in Tibet, doveva non dire certe cose. Allora, i capi delle varie comunità in questi Paesi hanno fatto una scelta rispettabile, comprensibile, non necessariamente criticabile, di stare con i loro fedeli, con le loro comunità, e non di testimoniare un afflato di libertà. Quando, poi, il quadro politico cambia, tutto ciò che è stato fatto per proteggere il diritto di libertà religiosa viene messo sotto accusa come sostegno al regime.

Quindi, resta il fatto che il regime dava maggiori sicurezze.
In un momento di grande sommovimento politico, i capi religiosi e le comunità temono che il travisamento della realtà, il disordine e il caos post-rivoluzionari, e infine il successo che le formazioni radicali islamiche possono avere nell’opinione pubblica, rendano le loro condizioni di vita ancora più precarie. Ma questo perché? In un sistema autoritario, dove tutto sommato l’appartenenza religiosa non è la questione centrale, può esserci più spazio per la libertà religiosa rispetto a un regime complessivamente meno autoritario, ma che fonda la sua legittimazione su un’interpretazione politica della religione. Questo oggettivamente rende tutto più complicato.

Qual è la responsabilità della comunità internazionale di fronte alla drammatica condizione delle minoranze religiose?
Può solo fare moral suasion. Concretamente può fare pressione, minacciare sanzioni, essere attenta, richiamare il Governo di un Paese ai suoi doveri, chiamare a consultazione l’ambasciatore davanti a certi fatti… Sono tutti passi diplomatici, importanti. Ma l’unica cosa che si deve fare, che si sta facendo ma che sicuramente si può fare meglio, è non far sentire isolati i copti. Meglio, non far sentire a quelle comunità che ciò che succede nello scatolone egiziano, nello scatolone libico o in quello siriano riguarda solo loro. Non è così.

Nella nuova fase di questa Primavera araba, lei ha indicato come potenzialmente cruciale il progetto politico del leader turco Erdogan.
Erdogan è un islamico moderato: il suo è un partito islamico, che fonda il suo messaggio su una declinazione politica dell’islam, che non si muove su una separazione rigida tra politica e religione. È un interlocutore ascoltato dai Fratelli musulmani e dai partiti che si rifanno alla Fratellanza. È uno che può parlare con questi soggetti politici, in una relazione di “famiglia politica”. Se esistesse un domani l’Internazionale dei partiti islamici democratici, lui sarebbe un esponente. I turchi possono concorrere a proporre un modello per questo motivo, e per il crescente ruolo della Turchia nel Medioriente. Un ruolo perseguito.

Il raffreddamento dei rapporti con Israele va in questa direzione?
Sì, perché è come dire: «Siamo interessanti al mondo arabo, tanto è vero che rivediamo la nostra posizione su Israele», che è sempre stata di sostegno acritico. Questo ruolo crescente turco può offrire uno scenario per alcuni Paesi, che potrebbero in qualche misura prenderlo a riferimento. Probabilmente l’Egitto, perché come la Turchia ha un apparato militare importante e partiti islamici organizzati. La difficoltà è che si dovrebbe fare - sincronicamente - la rivoluzione di Atatürk e la rivoluzione di Erdogan: mettere insieme militari e partito islamico. È molto difficile. Ma resta un punto interessante da andare a vedere, perché la Turchia può essere una prospettiva di appoggio.

È frettoloso, quindi, affermare che la Primavera è «tradita»?
La domanda di libertà che è esplosa nelle rivolte non sta incontrando la risposta adeguata.
Potrebbe produrre regimi islamici di diversa gradazione, piuttosto che sistemi repubblicani. Ma non si può saltare, come spesso si fa, un discorso di prospettiva storica.

In che senso?
Le grandi rivoluzioni del passato hanno chiesto anche un secolo per realizzarsi. Basti pensare che, a due anni dalla Presa della Bastiglia, c’era il terrore giacobino, non c’era il “Regno dei diritti dell’uomo”. Ora, il timore diffuso è di essere di fronte a una fase leninista della rivoluzione, ovvero una fase in cui a un breve momento liberatorio segue un lunghissimo momento totalitario, che addirittura tradisce la rivoluzione.

È un timore fondato o no?
Io dico solo che fino a quando le cose non succedono bisogna lavorare perché non succedano.