La sfida della crisi

PRIMO PIANO - DOCUMENTO DI CL
a cura di P. Bergamini, P. Perego, F. Rossi, A. Stoppa

Giornalisti, professori e uomini di impresa si sono confrontati con il giudizio di Cl sulla situazione del Paese. Abbiamo raccolto le loro reazioni, nel tentativo comune di «prendere atto» di quello che sta accadendo. E di iniziare a guardare la possibilità che vi è racchiusa

Inutile girarci intorno: la situazione è drammatica. La crisi è sempre più radicata, e non riguarda solo l’economia: si allarga a politica e società. Nelle piazze di tutto il mondo esplode la protesta. E nella vita di tutti, anche se in maniera diversa, emerge un disagio che a volte soffoca, perché si fatica a vederne la via d’uscita.
E invece questa via c’è. Qui e ora. C’è modo di non restare schiacciati dalla crisi, qualsiasi sia la modalità con cui ci aggredisce. Qualsiasi aspetto abbia nella nostra vita. E c’è per un motivo semplice, uno solo: che la realtà è positiva. Ultimamente positiva. Ha sempre dentro una provocazione, un’occasione per noi. È fatta per noi. Anche quando si presenta con un volto così enigmatico. Anche nella crisi.
Accorgersene, spingere la ragione fino a riconoscerlo, può far ripartire. Può far vedere la crisi per quello che è: «Una sfida per il cambiamento», come dice un documento che Comunione e Liberazione sta facendo circolare in queste settimane, diffondendolo ovunque anche attraverso incontri pubblici (il primo a Milano il 4 novembre, con Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl, e gli economisti Luigi Campiglio e Giulio Sapelli).
È una sfida, appunto. A usare la ragione fino in fondo, e a guardare. A vedere come la persona può essere rimessa in moto dalla crisi, e come questa ripresa dell’io può diventare un bene per tutti. Fino a individuare quali fattori e quali strumenti - anche politici - possono favorire la crescita e il cambiamento.
Ma, soprattutto, è la possibilità di seguire l’esempio di chi è già cambiato: uomini e donne che non subiscono la crisi, ma che affrontano la realtà «senza preclusioni».
Per noi, è l’inizio di un lavoro. Di un contributo che offriamo a tutti. A cominciare da queste pagine, in cui abbiamo chiesto a una serie di personaggi della vita sociale e politica italiana di confrontarsi con questo giudizio. Ecco le loro risposte.

il paese
nascosto

Giampaolo
Pansa
Giornalista e scrittore
«Tutto condivisibile. Se ci fosse da firmarlo lo farei subito». Bastano pochi minuti a Giampaolo Pansa per leggere e commentare così il quartino sulla crisi. Da più di cinquant’anni segue dalle colonne dei maggiori quotidiani le vicende politiche del nostro Paese: «Guardo l’Italia “buona” descritta nel volantino e penso che non sia quella vera. Cioè, non lo è la maggioranza della gente. Soprattutto non è così l’Italia politica, lontana da questa idea, diciamo, di solidarietà che imporrebbe di superare barriere ideologiche e di costume, inimicizie, odio. Un Paese che non c’è. O che se c’è, è piccolo e nascosto».
Eravamo poveri e torneremo poveri: così Pansa ha sottotitolato il suo ultimo libro Poco o niente, davanti alla paura sempre più diffusa di perdere il benessere economico conquistato a partire dal Dopoguerra: «Un’incognita che mi ha spinto a ricordare l’epoca dei miei nonni, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma quello era un Paese misero che grazie a Dio non c’è più». Un mondo dove nonna Caterina, vedova con sei figli, si svegliava col problema di dar loro da mangiare: «Andava dal parroco di Casale, o dai francescani a chiedere il cibo. L’unica vera solidarietà esistente allora, e storicamente fino all’avvento del Fascismo, è stata quella della Chiesa. I partiti, a parte forse quello socialista appena nato, erano tutti in mano ai ricchi. Che se ne fregavano. Pochi che volevano comandare su tanti. Forse oggi è così». Va bene, ma non si può negare che esista un tessuto sociale, anche laico, che tiene. Sarà anche “poco”, ma c’è. «Esiste, è vero, quello che è descritto nel volantino. Lo vedo anche dove vivo: le Misericordie con i suoi volontari, i bidoni della Caritas che raccoglie i vestiti, i circuiti di gente ottimista e di buona volontà che si muove con intelligenza. Ma mi chiedo: e poi?». Un po’ disilluso... «Io sono un ottimista. Ho imparato ad esserlo guardando mia nonna e i miei genitori. Ma davanti al bicchiere mezzo pieno non posso fare a meno di chiedermi che acqua ci sia dentro».
Cioè? «Voglio dire che un volantino con queste idee è cosa buona. Ma la chiusura del cerchio riguarda la sfera politica: che facciamo? Se tutto viene dilaniato dalla querelle sulle pensioni, o da questa minestra che si cucina nelle capitali delle nazioni legate alla Bce e che passa da relazioni che si reggono solo sul ricatto... Magari sono troppo terra terra rispetto a questo documento. Ma come farlo pesare in politica? Serve una proiezione sul terreno della politica di questo atteggiamento di fiducia con il richiamo al sacrificio, all’innovare, alla solidarietà. Allo stare insieme nella stessa barca, come ha detto Napolitano».

uomini che
ci indicano la strada

mauro magatti
Preside di Sociologia all’Università Cattolica di Milano
«C’è sempre un’urgenza in una crisi. Qualcosa che impone di non tergiversare». Di fronte a una transizione difficile, che colpisce ormai duramente la vita di tante famiglie, «nessuno può sottrarsi al dovere di trovare soluzioni», dice Mauro Magatti. Ma aggiunge che anche l’urgenza può diventare «una trappola». Perché fa tenere lo sguardo sul breve periodo: «Così ci illudiamo che tutto possa rapidamente rammendarsi e tornare come prima». Oppure c’è un’altra possibilità: «L’urgenza può essere vista come la spinta che ci fa fare un passo che altrimenti non avremmo fatto. Apre nuovi orizzonti».
In questa chiave, il volantino richiama al significato di crisi che si trova nella Bibbia: «È proprio uno dei momenti in cui Dio, di preferenza, parla. Le crisi sono una splendida occasione per abbandonare i nostri idoli e ridare dignità a ciò e a chi l’ha persa. Dio ci  sta parlando: che cosa ci sta dicendo? Certo, per udirlo bisogna almeno ammettere che l’uomo non è onnipotente e ha bisogno di essere salvato. Non è forse questo l’ultimo grande idolo che ci siamo costruiti? Per quanto difficili, i tempi di crisi non vanno maledetti. Sono anche tempi profetici. A condizione che si sia disposti ad intraprendere un qualche percorso di cambiamento. Ciò che nel linguaggio cristiano si chiama conversione».
A colpirlo è il passaggio del documento che mette in discussione l’idea ancora tanto diffusa di una crescita «ridotta ad accrescimento quantitativo». A suo parere, non usciremo dalla trappola se non ammettiamo di aver confuso l’espansione con l’eccedenza: «L’espansione è materialistica, individualistica, acquisitiva, immanente. L’eccedenza, invece - e cioè la capacita dell’uomo di essere veramente libero e di fare nuovo il mondo - è tutto il contrario: è spirituale, relazionale, donativa, trascendente. Per questo è proprio l’eccedenza - che non va confusa con l’eccesso - il vero motore e il vero fine della crescita. Ebbene, se si abbandona la strada dell’espansione e si torna all’eccedenza sono sicuro che la spinta allo sviluppo tornerà più forte di prima».
Dice con sicurezza che ci troviamo «alla vigilia di una grande stagione di innovazione, culturale (prima) e istituzionale (poi)». Con tutti i rischi: «Non sappiamo se riusciremo a guadare il fiume senza finire in acqua. Ma l’unica possibilità di farcela è essere sicuri che c’è un’altra riva che ancora non riusciamo a vedere, ma che intuiamo e cerchiamo. Una riva che sono soprattutto gli uomini e le donne generative che si sforzano di cercare». Generatività, un termine che sente molto prezioso in questo momento. «Riferendosi alla vita, la generatività ci strappa dalle nostre astrattezze e ci mette dentro una storia che viene da prima di noi e che, nello stesso tempo, ci supera, andando ben oltre noi stessi». E parla di chi è generativo attorno a noi: «Quegli uomini che ci indicano la strada. Radicati nella concretezza della vita, consapevoli dell’impegno che la vita vera richiede, sono anche dei visionari di un futuro che non è il loro, ma di quel bene che contribuiscono a mettere al mondo. Qualunque idea buona di futuro dobbiamo impararla da questi uomini e da queste donne che concretamente, nelle pieghe del loro tempo, sono capaci di sfidare la morte e di riaprire il desiderio».

conversione
culturale

piero Ostellino
Editorialista del Corriere della Sera
Ha appena letto sul “suo” giornale che il Ministero della Difesa ha comprato diciannove Maserati... E sbotta: «Ma ci rendiamo conto? Pensiamo davvero che il problema della crisi sia questo?». Liberale classico e aspirante credente, come si autodefinisce, Piero Ostellino dice che il volantino è decisivo nel richiamo a non negare e ridurre, appunto, la crisi: «Questa è una crisi di carattere strutturale. È scomparsa la grande fabbrica, sono scomparsi i partiti di massa, sono scomparse le ideologie salvifiche. È mutato il modo di produrre... È la crisi dello Stato novecentesco. Ma non ci si rende conto: si fa coincidere la crisi con l’ombelico di Berlusconi. Invece, che lui resti o meno, i problemi del Paese non passano. Non c’è governo che tiene: qui c’è bisogno di una conversione culturale».
E da dove può venire? «Alexis de Tocqueville fonda la democrazia americana sull’associazionismo e sui media. Guardiamo l’Italia. I media hanno rinunciato da tempo a fare il loro mestiere, a premere sulla classe politica perché prenda atto della crisi culturale. Anche gli intellettuali, al posto di assolvere il proprio compito, fanno da mosche cocchiere all’imbecillità diffusa. Per quanto riguarda l’associazionismo, ci siete voi, perché tutti gli altri sono lì a dire: “Fermi tutti, non facciamo nulla, le cose matureranno, le riforme sono pericolose...”. Voi invece prendete spunto da quello che dice il Papa - ed anche questo fa riflettere, perché non è certo il suo mestiere ma vivaddio che dice certe cose - e indicate che serve una concezione delle cose, una visione del mondo, perché ci sia davvero un cambiamento, una rivoluzione culturale».
E il primo passo è quest’affermazione che la crisi è positiva: «Io credo sia vero perché ci costringe a ripensare tutte le nostre categorie, culturali e politiche. La Quinta Repubblica francese è nata dal trauma algerino. La nostra Algeria è questa crisi. Ma noi stiamo perdendo l’occasione. Ci serve uno Stato sociale che costi meno e che tuteli sempre, in modo diverso, chi subisce di più i danni dell’economia, ma il problema è che la maggioranza dell’establishment non vuole guardare alle riforme».
Che legame c’è tra questa urgenza di riforme mancate e la capacità di cambiamento dell’io, di cui parla il Papa: «Ogni uomo è un nuovo inizio»? «Ciascun uomo», risponde Ostellino, «ciascun individuo, nel momento stesso in cui incomincia a poter liberamente ricercare e realizzare il proprio ideale di felicità contribuisce - inconsapevolmente - a produrre un bene comune. Ma serve quel liberamente: serve un quadro di maggiore libertà per l’individuo. Che non può essere oppresso, per esempio, da un sovraccarico di tasse...».

un realismo
che scuote

Stefano Folli
Editorialista de Il Sole 24 Ore
«È un impegno molto realistico». Stefano Folli commenta così il contributo di Cl. «Mi colpisce che venga sottolineata la necessità di non rassegnarsi: questo sentimento ottimista, ma di un ottimismo realista, di chi crede che le cose cambiano davvero». Per lui è «un sentimento morale forte», che viene prima di qualsiasi misura da prendere: esula dalle logiche della politica che siamo abituati a conoscere nei riti un po’ incomprensibili che scorrono in Parlamento, «ma è una posizione profondamente politica: prendere coscienza dei problemi con questa capacità di forza morale è l’elemento primario, essenziale, in un momento come questo». E nel tempo che ci aspetta, nella risalita, che non sarà breve: «La politica è molto malata e, anche se inizieremo a guarire, nei prossimi anni non avremo un sistema funzionante, non avremmo istituzioni capaci di reggere il Paese. La strada è lunga e ci deve essere un modo di fare politica dal basso che possa supplire soprattutto in questo lasso di tempo alla grave mancanza politica. Per non lasciar morire la società nel vuoto».
Allora è tanto più fondamentale «la fiducia nella forza propulsiva del singolo, dei singoli e dei singoli associati, del volontariato in senso lato, di cui parla il documento: uno sguardo alla forza dinamica della società. Che mi trova totalmente d’accordo, quanto la descrizione negativa della burocratizzazione della politica. È ciò che ha fatto perdere l’occasione del bipolarismo italiano, che non ha saputo rinnovare il sistema per questo irrigidimento, per questa ingessatura, che ha portato sempre più al distacco tra la politica e il senso comune».
Se non viene diffusa in ogni modo, «con opera pedagogica», questa volontà di ricostruzione del tessuto sociale, resta solo il campo libero al rifiuto, all’antipolitica, «perché non possiamo aspettare che la politica risorga. Allora la diffusione pedagogica di questi nuovi principi - che nuovi non sono, ma oggi lo sono - è la priorità per un Paese che vuole rinascere. Bisogna fare delle persone ben istruite, soprattutto i giovani, il nostro principale capitale umano».
Sugli strumenti che possono favorire la ripresa, Folli riprende l’importanza di una concezione sussidiaria, che possa favorire l’esistente, le realtà che «già ora - questo è importante - riescono a supplire alla debolezza politica». Poi suggerisce un approfondimento: «Quando si parla di “aiutare selettivamente le imprese” bisognerebbe precisare meglio. Per non ricadere nel vizio di cacciare lo statalismo dalla porta facendolo rientrare dalla finestra, per non richiamare in nessun modo uno statalismo di ritorno, occorre sostenere la libertà di impresa con un’analisi fino in fondo coerente». Infine torna su ciò che più lo ha colpito: «È tale lo sconforto che un contributo come questo, che suscita un ottimismo realistico, è essenziale oggi. Perché è essenziale scuotere le coscienze, e questo giudizio le scuote».

il disgelo
e l’orgoglio

enrico letta
Vicesegretario del
Partito Democratico

«P rendere atto della crisi è un passaggio obbligato». Enrico Letta, alla luce del quartino, rilegge la situazione dell’Italia e della sua classe politica: «Negli ultimi anni, questi due orientamenti - comportarsi come se nulla fosse o cercare capri espiatori - hanno ritardato un processo di maturazione del passaggio storico che avremmo vissuto». Il risultato: «La crisi ci ha colto quasi di sorpresa. Ciò ha acuito il disorientamento e l’inquietudine delle persone».
Come uscirne? «Una presa di coscienza, accompagnata da un confronto su ciò che accade, è indispensabile per affrontare insieme la tempesta». Ad una condizione: «Lo spirito di una comunità che, solo se coesa, può ragionevolmente ritenere di vincere queste sfide». In che senso, allora, la crisi è «positiva»? «Quella del quartino è una sana provocazione sul piano intellettuale. Nel concreto, bisogna sentire di essere parte di una comunità che si rimetta in moto con noi. Mai come ora il nesso tra persona, famiglia e comunità mi pare centrale. È lo snodo da cui ripartire».
Il volantino cita vari esempi virtuosi: «Sono questi che occorre guardare. Perché siano uno stimolo per chi rischia di cadere nello sconforto e nella rassegnazione. Allo stesso tempo è importante l’insegnamento del passato: il nostro Dopoguerra è contrassegnato da una storia collettiva di sacrifici e fiducia nel prossimo, accettazione delle difficoltà ma costruzione, in larga parte condivisa, del futuro».
Il documento indica, poi, alcuni strumenti politici che possono favorire la ripresa, «su molti dei quali da tempo ci confrontiamo proficuamente nell’ambito dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà». Solo ci tiene a sottolineare un punto di metodo: «Rispetto all’atteggiamento da tenere in questa fase, è necessario praticare e promuovere quel “disgelo” di cui il presidente Napolitano ha parlato al Meeting. È questo oggi il compito più alto e difficile che attende la politica: aprirsi al dialogo e alla collaborazione in nome dell’interesse generale e del bene comune, ritrovare lo spirito di servizio pubblico e la dedizione per la comunità che in altre epoche hanno consentito all’Italia di risollevarsi con orgoglio e di riprendere in mano il proprio destino».

un’iniezione di energia
federico minoli
Ceo di Cantiere del Pardo
e presidente di Unopiù

«Davvero questa situazione può servire a rimetterci in moto». Federico Minoli, classe 1949, sa bene cosa significa la crisi. Trovare soluzioni ai casi critici è il suo mestiere: «Mi occupo di aziende che non riescono a pagare il debito messo su di loro quando sono state acquisite». La Ducati, da lui gestita per 11 anni, era una di queste. Ma Minoli ha risollevato anche realtà del mondo della moda (Escada) e delle calzature (Bally), fino a diventare oggi presidente di Unopiù, leader nella produzione di arredi esterni, e ceo di Cantiere del Pardo, dove nascono le imbarcazioni di classe Grand Soleil e Dufour.
Quella di adesso, però, è una crisi più profonda: «Le ditte sono insolventi, il mercato e il ceto bancario non rispondono... Mi ritrovo costretto a salvare il salvabile, innanzitutto le persone assunte». È il risultato degli ultimi venti anni, in cui la ricchezza è stata trasferita da chi produce al ceto finanziario: «È un’ubriacatura, che ha generato l’idea che l’unico valore sia la ricchezza materiale».
In che modo, allora, la crisi può essere «un’opportunità», come si legge nel quartino? «È l’occasione per ritrovare i veri valori dell’economia. Cioè per ricominciare a produrre beni e servizi». Per Minoli non è un salto nel buio: «L’ho già visto tante volte: persone che non erano mai state unite, davanti ad un pericolo sono costrette a domandarsi perché sono insieme. Capendo che il profitto non è il fine ultimo. Oggi un’azienda viene gestita o venduta attraverso i parametri di un freddo foglio di calcolo. Ma il futuro non può essere lo schermo di un pc. Ci vuole gente appassionata, che ci crede e si sporca le mani».
E i giovani che compito hanno in tutto ciò? «Sono la chiave di volta per la crescita del Paese. Portano idee ed energie nuove. Affidiamo loro delle responsabilità, anche rischiando». Pensa che siano pronti? «Temo di no. Ma se svolgeranno solo compiti ripetitivi, non tireranno mai fuori i talenti che hanno». Si torna così alla questione educativa: «È una vera emergenza: nella scuola oggi prevalgono conformismo e burocrazia. Ci vorrà tempo perché diventi strumento di cambiamento. Mentre noi abbiamo bisogno di un’iniezione di energia. E subito».

L’ISTANTE creativo
Antonio polito
Editorialista del Corriere della Sera
«È arrivato il momento di chiedersi cosa possiamo fare noi per il nostro Paese». Antonio Polito cita la celebre frase di Kennedy per commentare il documento sulla crisi: «Una posizione molto originale. Quindi molto interessante», dice: «Nel panorama italiano, in cui si è soliti dire che cosa il Paese dovrebbe “dare” a ciascuno, ci s’interroga su come ciascuno di noi possa reagire. E non si aspetta che la soluzione venga dalla politica. Viene considerato come un problema personale, del singolo, ma che ha un esito collettivo». Una posizione insolita anche perché richiama l’idea di popolo: «Proprio quando noi ci sentiamo sempre meno comunità, ma solo un insieme di interessi costituiti».
Il modo diffuso di concepire la crisi «è parziale», perché è ben più ampia, profonda e complessa di quanto si pensi: «In questo senso, il suggerimento iniziale del documento è fondamentale, perché è un appello a “prendere atto” della crisi. Sembra ovvio, non lo è: la consapevolezza di che cosa sia questa crisi, persino delle sue cause, è molto scarsa. E anche quando c’è, non è completa». È evidente nel dibattito pubblico: «Nei media la crisi è il teatrino di una decina di personaggi che fanno braccio di ferro. Del resto - e in questo il Governo conta - è stato lanciato per troppo tempo un messaggio rassicurante». Anche per questo oggi la crisi è sentita come «responsabilità di alcuni “cattivi”, mentre tutti abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, con un welfare protezionistico da cui ognuno ha tratto, piccolo o grande, un vantaggio». Senza riconoscere questo, non si traggono alcune conseguenze: «Per esempio, che dobbiamo accorgerci di dover tutti rimboccarci le maniche, investire, fare rinunce, e accettare che si vada verso un periodo in cui la spesa pubblica non risolverà più i nostri problemi».
«L’altra cosa che mi colpisce molto di questo giudizio è che guarda alla crisi come passaggio. Come trasformazione. Anche questo è originale, perché io credo che noi italiani non abbiamo maturato la qualità, il senso della crisi». La prima responsabilità è «avere il coraggio di dire come stanno le cose: nei commenti in politica non si fa un discorso di verità, si continua ad usare la crisi per una strisciante guerra civile. E si finisce per percepirla come un elemento del pastone politico, dettato dalla casta arricchita: un’incredibile sottovalutazione della portata che ha».
La crisi non può essere vissuta come una trasformazione senza «una società di adulti solidi, centrati su valori di felicità personale, con strumenti intellettuali e di conoscenza. Adulti educati». Non crede, infatti, ci possa essere quell’imprevedibile istante in cui un uomo genera novità senza educazione. «Da dove viene l’intuizione, l’innovazione, che ti fa vedere nella realtà un istante creativo? Che cosa te lo consente? È solo frutto dell’educazione, degli strumenti che vengono dati per padroneggiare l’esistente. Per cambiarlo».

la corsa e quei ragazzi
roberto
snaidero
Presidente di Federlegno
«Ciò che più mi ha colpito di questo testo è la concretezza. Qui c’è sostanza non “filosofia”. Per questo mi ha fatto riflettere. E lo dico da imprenditore». Nelle parole di Roberto Snaidero, si tocca con mano la tradizione operosa della sua terra, il Friuli. Di chi non si arrende. «Io sono così, con piedi ben saldi a terra. Quando ho ricevuto questo documento ero agli Stati generali del Commercio estero. Ho pensato: tutti parlano di crisi in termini negativi e invece in queste righe si dice che può essere uno stimolo per ripartire. Accidenti, mi passi il termine, qui si stuzzica l’intelligenza della persona, non ci si piange addosso. Ho ritrovato me stesso. Il mio ottimismo verso la vita».
Da dove trae origine questo ottimismo? «Innanzitutto dal proprio io. Dalla persona che desidera costruire». Non solo per sé, ma anche per la società. «Certo. Ora più che mai bisogna aver voglia di creare, di fare per questo grande Paese, perché l’Italia è un grande Paese. Soprattutto per i giovani. In fondo, alla mia età potrei tirare i remi in barca e stare tranquillo, ma penso che quello che ho ricevuto, costruito posso, in questo momento, ridarlo alle nuove generazioni. Ho in mente le facce dei giovani al Meeting, da cui sono rimasto letteralmente “folgorato”. Ripensare a quell’esperienza, al di là di ogni mia possibile aspettativa, a quelle facce, mi fa dire che bisogna iniziare a costruire dai giovani. Che sono la nostra speranza».
Le parole di Benedetto XVI prendono carne. Una speranza che ha radici certe. «La fede costruisce. E per me la fede ha voluto e vuole dire tanto. In un momento così “maledetto” in cui dobbiamo correre a destra e a sinistra se non c’è la fede a sorreggerci... Possiamo accantonare tutto. La sera, quando sono solo e mi fermo a pensare capisco che se non avessi Qualcuno in cui credere non potrei vivere in modo così convulso». La fede diventa la strada per uscire dal tunnel della crisi. «Le parole di don Giussani, che aprono il quartino, bisognerebbe sempre averle davanti agli occhi. Per poter lavorare e operare secondo quella visuale. Ecco, da lì nasce la concretezza di cui dicevo all’inizio». Cristiana, appunto.