Una via di Genova invasa dall'acqua venerdì scorso.

Ciò che non ti aspetteresti di trovare nel fango

La domenica dopo il disastro. Marina osserva alcuni ragazzi che spalano detriti per le strade. Uno strano movimento di popolo dentro la tragedia, che documenta un'evidenza umana inarrestabile
Marina Guariniello

Domenica mattina. Usciti da messa con un gruppo di studenti universitari e delle superiori si parla dell’alluvione. I ragazzi sono incontenibili: bisogna andare in centro a dare una mano. Nel pomeriggio ci troviamo tutti in via Tortosa, in uno dei punti più colpiti. Ci incontriamo con altri che si erano già mossi e stavano aiutando come potevano. Li lascio a "spalare" e con mio marito mentre risalgo a piedi fino al quartiere di Quezzi, dove è straripato il rio Fereggiano, nella zona tristemente nota per tutti i video mostrati da tutti i telegiornali. Vado a trovare don Ettore, un amico, parroco nella chiesa della zona, per vedere cosa si può fare l'indomani mattina coi tanti ragazzi che si vogliono organizzare, anche da altre zone, per mettersi a disposizione dei soccorritori. Resto stupita del movimento di popolo cui assisto. Ovunque ragazzi infangati che, con piglio sicuro, si muovono con pale piene di fango appena raccolto. Tutti i negozi sono aperti e pieni di gente al lavoro. Nessuno è solo con i suoi mille problemi. A succedersi sono i dialoghi, più che il lamento, così frequente a Genova: la semplicità di ritrovarsi, la gratitudine di tanti per il rischio superato, la non scontatezza nel sottolineare l’operosità che aveva ormai ripulito molte cose. Una nostra amica, mamma di una bimba che frequenta una scuola paritaria della zona devastata dall’acqua, con la figlia per mano, ci racconta di come solo per cinque minuti siano scampate alla piena e di come abbiano lavorato in centinaia tutto il giorno, per ripulire quasi ogni cosa. Nella chiesa di don Ettore c’è tanta gente, venuta a pregare il rosario per le vittime che lì riceveranno, martedì, l’ultimo saluto. Tanta gente addolorata e composta, che prega e non dispera. I bambini, raccontano, sono traumatizzati dalla visione della furia dell’acqua che li ha colti all’improvviso all’uscita di scuola, portandosi via i loro amici. E continuano a parlarne, a ricordare.
Mi colpisce l’osservazione di un ragazzo, stupito da tutto questo darsi da fare che sembra non avere antecedenti, come lo sono anche io incontrando lì in modo imprevisto vari amici e alunni, gente che non avresti mai pensato di vedere lì, in quella circostanza. Andrea, appunto, mi dice: «Ma cosa muove tutti questi, non sono mica tutti cristiani come noi…». «Ecco, questo è il punto», ho pensato di colpo: stiamo assistendo allo spettacolo della gratuità, di quel bisogno di bene, di fare del bene, di essere amico e solidale con gli altri, di sentirsi compagni di cammino con l’altro uomo. Cose che fanno parte di noi, urgenze inestirpabili che nessuno può togliere. Tante volte ci siamo detti che fare del bene fa bene. Qui non è più uno slogan, ma un'evidenza. Noi, coscienti o meno, siamo fatti per il bene.
Vedi, caro Andrea, questo è il fondo di ogni uomo. L’alluvione, come la crisi, ce lo rivela. Noi in più siamo educati a vederlo e a riconoscere l’origine di tutti i nostri impeti inarrestabili.
A sera ci ritroviamo a casa, tornano i ragazzi con una bottiglia di vino, dono del padrone della cantina che hanno aiutato a ripulire: ha voluto dargliela per riconoscenza, dopo averli chiamati «angioletti di Genova». Non si erano mai visti prima, una storia come mille altre di questi giorni, in una città di cui si dice che ci si parla a fatica. Sembra che sia vinta l’indifferenza, e il cuore si apre.