La Corte Europea dei Diritti dell'uomo.

La Corte, l'eterologa e gli occhi del giudice

Il "sì" europeo sui limiti alla fecondazione. La costituzionalista Lorenza Violini spiega una sentenza che si basa sull'autonomia degli Stati, ma in cui fa breccia un'altra ragione: la dignità della vita. Come «cuore» di tutti i diritti
Alessandra Stoppa

«Ai miei occhi, il desiderio di un bambino non può diventare l’obiettivo assoluto che prevale sulla dignità della vita umana». Sono le parole di uno dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’uomo durante la votazione della sentenza sulla fecondazione eterologa. Sentenza, molto discussa, con cui il 3 novembre la Corte ha stabilito che uno Stato può vietare - in tutto o in parte - l’accesso a questa tecnica: cioè, può vietarlo senza con questo violare il principio di non discriminazione o altri diritti previsti dalla Convenzione europea.
La sentenza ha definitivamente chiuso la controversia che oppone da anni due coppie allo Stato austriaco: in Austria la legislazione consente la fecondazione eterologa solo nel caso di un donatore maschile che permette alla madre naturale di avere un figlio, il quale così conserva almeno in parte il patrimonio cromosomico di uno dei genitori e, in particolare, della madre; mentre vieta la donazione di ovuli, e quindi la fecondazione eterologa, per parte materna.
Una prima sentenza della Corte, lo scorso aprile, era stata a favore delle due coppie, per le quali l’eterologa sarebbe l’unica possibilità di avere figli: l’Austria era stata condannata a risarcire i danni per discriminazione, violando sia l’articolo 8 della Convenzione (sul rispetto della vita privata), sia il 12 (sul diritto a fondare una famiglia). Ora, la sentenza della Grande Chambre ribalta quel primo verdetto. E si basa su quello che viene definito in sede tecnica “margine di apprezzamento”: l’autonomia lasciata ai singoli Stati nell’applicazione della Convenzione. In sostanza, la tutela dei diritti garantita in sede internazionale non può essere così pervasiva da sostituirsi alle decisioni politiche che spettano agli Stati, soprattutto su temi così delicati.
Ma a leggere la sentenza, in particolare la concurring opinion del giudice Vincent De Gaetano, maltese, c’è molto di più: sia della non discriminazione che dei margini di libera scelta degli Stati. De Gaetano ha votato la sentenza con la maggioranza (10 giudici su 18), ma nelle sue parole - che rientrano nella sentenza e quindi nell’opinione della Corte - c’è l’accenno a una nuova e diversa sensibilità: nel suo intervento dice che «l’atto personale di un uomo e di una donna che costituisce la procreazione umana è stato ridotto a una tecnica medica o di laboratorio» e definisce la dignità umana «il cuore stesso dell’insieme della Convenzione». Che le ragioni della votazione vengano precisate in questo modo è un passo significativo nel tentativo di orientare la Corte, perché «attraverso singole posizioni si possano spostare le logiche di decisione dalle procedure alla sostanza», spiega Lorenza Violini, docente di Diritto Costituzionale all’Università Statale di Milano: «La sentenza riafferma l’autonomia degli Stati nelle scelte fondamentali relative ai diritti umani e al diritto alla vita privata in particolare, senza che questo comporti automaticamente una violazione del principio di eguaglianza. E questo è il principio cardine su cui si basa la decisione della Corte, principio pienamente condivisibile. Ma è rilevante che, nell’ambito della maggioranza del collegio, sia espressa una posizione che motiva la sentenza su una base più ampia e sostanziale».
Come quella del giudice De Gaetano, che fonda la motivazione sulla tutela della dignità umana. Nel suo intervento dice: «Se è indubbio che la decisione di una coppia di concepire un bambino riguarda la vita privata e familiare, né l’articolo 8 né il 12 possono essere interpretati come il conferimento del diritto di concepire un bambino non importa a quale prezzo». Queste parole valgono quanto l’affermazione che non esiste un diritto ad avere figli tramite un qualunque mezzo che il progresso tecnico rende possibile. Ed è questa parte della sentenza che merita particolare attenzione: «Quali che siano i progressi della scienza medica e delle altre scienze, il riconoscimento del valore e della dignità di ciascuno può esigere il divieto di alcuni atti in nome del valore inalienabile della dignità intrinseca di tutti gli esseri umani. Tale divieto (…) non comporta una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo, ma può essere espressione di un riconoscimento positivo e di un progresso nella tutela degli stessi». Una posizione molto coraggiosa, oggi, perché da una parte sostiene che non tutto ciò che è possibile è lecito per definizione, dall’altra che un diritto per sua natura deve essere limitato: «È amore alla libertà e tutela del diritto», conclude la Violini, «anche introdurre, in nome del diritto stesso, limiti che lo rendano riconoscibile: ovvero un diritto è tale se ha dei limiti».