«Noi, i giovani e Piazza Tahrir»

Sono più di trenta le vittime nel Paese nordafricano. E, mentre continuano le proteste, si avvicina l'appuntamento alle urne del 28 novembre. Da "Oasis", l'intervista a padre Rafic Greiche, capo ufficio stampa della Chiesa cattolica d'Egitto
Maria Laura Conte e Meriem Senous

Dopo quattro giorni di manifestazioni e di violenza in piazza, sembra che il Consiglio supremo delle Forze armate abbia dato ascolto alla richieste dei manifestanti. Come vede lei l’attuale situazione?
Il maresciallo Tantawi ha annunciato il cambio di governo, che era una delle richieste dei manifestanti di piazza Tahrir, ma non conosciamo ancora il nome del prossimo primo ministro. Ci si aspetta comunque che il prossimo governo sia dotato di maggior potere per agire veramente, rispetto al precedente che non aveva alcuna efficacia e sembrava temporeggiare.

Ma i manifestanti occupano ancora la piazza, non basta l’annuncio dato a placare gli animi?
No, continuano a chiedere la formazione di un nuovo governo e la fine della violenza. Al momento vi sono scontri vicino al Ministero dell’Interno, non lontano da Piazza Tahrir. Alcune persone si recano lì spinte dal desiderio di vendetta per ciò che è successo sabato e domenica scorso, per i massacri e le violenze subite.

Chi c’è in piazza oggi?
Soprattutto giovani egiziani. La piazza è piena di giovani del “25 gennaio”, che non hanno etichette politiche, non dipendono da partiti politici o religiosi. Qualche rappresentante dei Fratelli musulmani ha tentato di entrare ieri, ma è stato espulso. Un candidato alle elezioni presidenziali, salafita, ha cercato anche ieri mattina di entrare in piazza, ma è stato allontanato.
Tuttavia sono sempre più divisi i manifestanti: quanti sono già impegnati in politica sostengono che la nomina di un nuovo governo possa essere rimandata fino a giugno. Altri chiedono che l’esercito se ne vada per lasciare spazio a un nuovo governo di civili subito. Il problema è che se l’esercito si ritirasse davvero, rimarrebbe un pericoloso vuoto di potere e nessuna reale autorità nel Paese.

Si rimpiange il passato regime forse?
Al momento nulla è cambiato dai tempi di Mubarak, anzi la situazione è peggiorata: ci sono più tensioni tra cristiani e musulmani, più incidenti, più incendi delle chiese (basti ricordare i fatti di Maspero), i giovani attivisti vengono arrestati e portati di fronte ai tribunali militari, i media sono controllati dalla censura. Stiamo tornando indietro. La situazione democratica sta andando molto peggio che con Mubarak. I giovani chiedono che si costituisca un governo di transizione democratica.

Queste nuove manifestazioni potrebbero causare un ritardo dell’appuntamento elettorale?
Finora nessuno, neppure il Consiglio Supremo, ha messo in dubbio la scadenza elettorale. Ma già l’altra sera alcuni politici hanno suggerito che la prima parte delle operazioni di voto – che dovrebbero interessare il Cairo, dove c’è oggi tutta l’agitazione di Piazza Tahrir – sia posticipata per avere una situazione più calma. Ma nulla ancora è stato deciso in questa direzione.

Quale è stato questa volta il motore scatenante la sommossa?
C’è stata una grande manifestazione in Piazza Tahrir venerdì scorso, durante la quale la maggioranza dei manifestanti era costituita da gruppi di islamisti. Non c’è stato alcun incidente, non c’era nessun soldato. Sabato mattina invece si sono aggiunte alcune persone che erano rimaste ferite durante la rivoluzione di gennaio e febbraio scorsi, che non hanno né denaro né medicine per curarsi. Erano circa duecento persone, sedute in un giardino vicino alla piazza. Contro di loro la polizia è intervenuta, a mezzogiorno circa, intenzionata ad allontanarli dal giardino. C’è stata una repressione brutale che ha scatenato la furia di questi manifestanti e di altri giovani che si sono uniti ed hanno cominciato a tirare pietre e gridare.
Va anche rilevato che tra Piazza Tahrir e il Ministero dell’Interno ci sono pochi metri. I giovani volevano entrare là e questo ha messo in allarme i soldati di guardia che, per difendere la sede istituzionale, hanno impiegato gas lacrimogeni e ogni modo per allontanare i manifestanti.

I cristiani come si posizionano in queste nuove circostanze?
Sono in piazza con i musulmani. Tra i molti cristiani, inoltre, c’è il gruppo che si è autoproclamato il “gruppo di Maspero”, per ricordare le vittime dei carri armati dell’esercito del 9 novembre scorso. I giovani cristiani danno una mano per come possono, aiutano con le medicine, con la distribuzione di cibo, bevande, ed eventuali aiuti sanitari.

E i Fratelli Musulmani, come guardano a queste nuove manifestazioni?
Dapprima si sono tenuti lontani da Tahrir, ora cominciano a voler farsi presenti, ma sono rifiutati dalla piazza stessa. Questo è un aspetto molto positivo. I giovani sanno che questi esponenti islamisti sono interessati innanzitutto ai propri vantaggi, più che ad ogni altro aspetto.

Secondo lei realisticamente i giovani otterranno ancora qualcosa occupando la piazza?
Hanno ottenuto le dimissioni del governo, che il Consiglio Supremo dell’esercito ha accolto, e penso che alla fine metteranno in moto scelte più decisive e rapide da parte di chi ha il potere. Un primo risultato si è visto: l’altra notte il Consiglio supremo ha approvato il divieto per i seguaci di Mubarak di partecipare alle prossime elezioni, e questo è un passo importante per la Piazza. Era la prima cosa da fare, ma appunto chi governa procede lentamente e questo rende la gente più aggressiva e violenta.

La Chiesa Copta come si esprime su questi nuovi movimenti di popolo?
La Chiesa copta non ha fatto dichiarazioni ufficiali sulla situazione attuale, ma incoraggia i giovani ad andare a manifestare in piazza, a esserci.

Quel è il modello di Stato al quale vi ispirate? Che vorreste vedere applicato in Egitto?
Per noi cristiani e per molti musulmani il modello di riferimento è quello francese, cioè una Repubblica presidenziale, con un presidente e un primo ministro che hanno mansioni e compiti diversi, senza interferenze. Non vogliamo né un regime presidenziale come al tempo di Mubarak, né un puro sistema parlamentare come in Italia, ma una combinazione di questi due con alcuni adattamenti alla realtà locale.

E tra i Paesi a maggioranza musulmana? Non c’è un’esperienza che in Egitto possa interessare in qualche modo tenere in considerazione?
Nel mondo arabo non c’è nessun modello da seguire. Forse quello turco non è male. Ma gli Stati arabi sono tutte dittature.
(da Oasis, 22 novembre 2011)