La consegna del "pacco".

Si riparte da un "secchio"

Il 3 dicembre a Milano l’assemblea nazionale con Julián Carrón. Negli ultimi anni è raddoppiata la gente che si coinvolge con questa realtà. Il presidente Andrea Franchi spiega perché «non ci muoviamo per far star meglio altri, ma per crescere noi»
Niccolò De Carolis

«Perché negli ultimi cinque anni è raddoppiata la gente che aderisce al nostro gesto di carità?». Andrea Franchi, detto “Branco”, presidente dei Banchi di Solidarietà, parte da questa domanda per lanciare l’assemblea nazionale della Federazione che si terrà sabato a Milano. Un momento per giudicare insieme (con altre 54 città in collegamento video) un anno di esperienza, con l’aiuto di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Oggi sono 6mila i volontari coinvolti e 50mila le persone aiutate, otto nuovi banchi sono stati da poco aperti anche in Spagna. Ogni due settimane, bussano alla porta di famiglie in difficoltà per portare del cibo (il "pacco", come viene chiamato) e condividere un po’ del loro tempo. Un gesto scomodo, che spesso ti sbatte davanti a situazioni che lasciano senza fiato: «Sempre più incontriamo storie di solitudine, violenza, abbandono. Genitori che perdono il lavoro e famiglie che si spaccano. Per chi fa la nostra attività la cosa più normale sarebbe, dopo un po’, stancarsi. Se io non so rispondere neanche al mio bisogno, figurati a quello di una famiglia disperata». Ma allora perché, a conti fatti, ci sono sempre più persone che si coinvolgono con questo gesto? «C’è il desiderio di essere educati. Chi ci incontra intravede un gusto nella vita e non vuole perderlo». Sembra scontato, ma non lo è: «Rispetto a qualche anno fa c’è molto di più la coscienza che non è un gesto per far star meglio altri, ma innanzitutto per far crescere sé».
Qualche settimana fa Andrea, con un amico, è andato a portare il "pacco" a una famiglia che era da poco riuscita a ottenere una casa comunale: «Li avevamo aiutati a cambiare alloggio: il luogo dove vivevano cadeva a pezzi e ogni volta che pioveva dovevano mettere un secchio in mezzo al salotto per raccogliere l’acqua». Andrea non vedeva l’ora di incontrarli, di vedere le loro facce contente, finalmente in una casa degna di questo nome. «Erano i giorni in cui a Milano pioveva tanto. Entrato in casa ho trovato non un secchio, ma sei. E loro che mi guardavano tra il triste e il rassegnato». Quegli sguardi lo fulminano e gli riaprono una domanda: cosa vuol dire, in questo momento, che la realtà è positiva? «Il lavoro di Scuola di comunità è sempre più stringente e decisivo. Vedere quei volti sconfitti ha riaperto la ferita del mio cuore. E quanto più sarà un’esperienza vera per me, tanto più sarà una sfida anche per loro. Questa è la domanda urgente che ho adesso. E che mi porto sabato all’assemblea».