Il lavoro che ti cambia

PRIMO PIANO - UN "POSTO" NELLA CRISI
Giorgio Vittadini

Se ne parla sempre. Perché è da riformare, e perché manca. Viene ridotto a pensioni, contratti, licenziamenti. Ma a noi il mercato del lavoro cosa chiede? GIORGIO VITTADINI, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, traccia un breve “vademecum” per affrontarlo. Da uomini. Imparando che il mestiere è «un incontro». E un percorso. Come documentano alcune storie

Don Giussani disse che il lavoro è l’aspetto più concreto, arido e faticoso del proprio amore a Cristo, e poi aggiunse che viverlo così facilita un’attenzione alla totalità dei fattori in gioco, un rispetto nel trattarli, un atteggiamento paziente di fronte al dilatarsi del tempo e alle circostanze sgradite.
Quanto detto offre la prima chiave di lettura: per affrontare adeguatamente il mercato del lavoro bisogna considerarlo come un incontro tra un soggetto e un oggetto, che interagiscono in base alle loro caratteristiche e alla corrispondenza alle esigenze del soggetto. Questa non è una cosa scontata, perché normalmente il lavoro è considerato, o un problema di adeguamento alle condizioni oggettive che impone, oppure un problema che riguarda il loro superamento, la forzatura della realtà oggettiva in base agli schemi e alle immagini che si hanno.
La dimensione dell’incontro, invece, è ciò che permette di salvaguardare sia le condizioni soggettive che quelle oggettive. Concependosi in un continuo rapporto, il nostro desiderio si confronta con la realtà e prende coscienza di se stesso.
Quando viene meno questa coscienza, di fronte alle scelte lavorative, di solito, si fanno due tipi di errori. Il primo possiamo chiamarlo errore da “idealismo”: avere un progetto in mente e cercare di applicarlo a prescindere dalle condizioni, scambiando il desiderio con la pretesa, saltando il paragone del desiderio con la realtà.
Il secondo tipo di errore potrei chiamarlo errore da “relativismo pragmatico” e consiste nel rinunciare a giocare i propri desideri e idee, dando solo spazio alle necessità oggettive. A volte capita di parlare con persone che non sanno davvero, non riescono a dire cosa desiderano.
Invece c’è una posizione che è più realista e tiene insieme entrambi i termini della questione ed è quella in cui il desiderio è sempre tenuto presente, e, in azione, viene fatto interloquire con i dati della realtà. Questo è molto interessante perché capiamo chi siamo in azione e può capitare che nel rapporto con la realtà ci accorgiamo di essere diversi da quello che pensavamo. Il desiderio, confrontandosi con la realtà, si modifica. La presa di coscienza di sé è progressiva; non rinuncia al desiderio che ci muove, ma, man mano, in azione, si modifica, si approfondisce. Per questo uno che aspettasse a lavorare fino a quando non ha ottenuto il lavoro che ha in mente, è tagliato fuori. Ed è tagliato fuori anche chi si lasciasse determinare dalla mentalità dominante o si appiattisse sulle circostanze.

Senza difendersi. Per quanto riguarda il fattore oggettivo - la situazione del mercato del lavoro -, la prima considerazione da fare è che, mentre fino a qualche anno fa l’obsolescenza era di quarant’anni, oggi è di cinque anni: in cinque anni cambiano completamente le conoscenze e le tecniche che si devono utilizzare. In questo contesto, ripetere semplicemente quello che si è imparato all’università, anche bene, non può bastare, e mette in luce l’importanza di considerare il lavoro come un percorso in continuo cambiamento in cui è fondamentale non smettere di imparare, di aggiornarsi, di guardare come evolve la situazione.
Continuare a guardare ciò che accade permette di accorgersi delle diverse opportunità che si aprono. Ci si può rendere conto, ad esempio, che le mansioni richieste riguardano sempre più le qualifiche alte e quelle basse e si stanno riducendo quelle relative alle posizioni intermedie; oppure che se si desidera proseguire negli studi, oggi le università estere offrono migliori possibilità; oppure, ci si può rendere conto che, mentre fino a qualche tempo fa chi aveva studiato lettere o filosofia poteva aspirare quasi solo all’insegnamento, oggi invece, in azienda, un umanista è preferito a profili più tecnici nella gestione delle risorse umane; oppure ancora che oggi accade sempre più spesso che l’ingegnere gestionale sostituisca l’economista nell’organizzazione aziendale.
Da queste brevi osservazioni potete capire che affrontare il lavoro “nozionisticamente” o spaventarsi del cambiamento, oggi può non dar scampo. Ma occorre sentire la dinamicità, il cambiamento, la necessità di conoscere, come qualcosa di profondamente positivo, non qualcosa da cui difendersi.
Oggi, non solo la piccola azienda, ma anche la grande è diventata molto dinamica, è costretta a cambiare in tempi brevi, fare nuove acquisizioni, spostarsi su settori diversi. Questo implica che il lavoro sia concepito sempre più come un percorso in grado di star dietro a questi cambiamenti. E ciò non riguarda solo il mondo industriale: in una società in rapido cambiamento, ad esempio, anche l’insegnamento deve tener conto dei nuovi bisogni e delle nuove aspettative e quindi occorre trovare sempre nuovi strumenti e modalità per comunicare i contenuti.

Disposti a cambiare. Per affrontare l’aspetto soggettivo, cioè cosa implica per la persona il rapporto con il mercato del lavoro, dettaglio le principali caratteristiche oggi richieste ai neoassunti, evidenziate da un’indagine realizzata presso un campione di direttori del personale.
La prima caratteristica che deve avere un lavoratore oggi è la flessibilità. Per far fronte a condizioni diverse, sempre nuove, oggi occorre essere disposti a cambiare mansione, anche all’interno della stessa azienda, e a far fronte a condizioni lavorative diverse. Quello che sto descrivendo è il tipo umano a cui siamo sempre stati richiamati nel movimento; l’apertura, la disponibilità a cambiare è, infatti, dentro il Dna dell’educazione che abbiamo ricevuto.
L’altra parola messa in luce nell’indagine è “conoscenza”: occorre imparare continuamente, per l’intero ciclo lavorativo. Purtroppo in Italia, terminata l’università, si considera finito il momento dell’apprendimento. In altri Paesi, come gli Stati Uniti, si ritorna a studiare più facilmente durante l’età lavorativa. Da noi ci sono meno possibilità e meno mezzi, ma occorre cercarli e soprattutto essere aperti a farlo. Io ho l’esempio di mio padre: medico in pensione, a 89 anni, tutti i giorni, va a fare il giro in ospedale con gli specializzandi come volontario e quando gli si chiede perché lo fa, lui risponde: «Altrimenti come faccio a imparare, ad essere aggiornato?».

Un “io” che non è statico. Il tema “conoscenza”, inoltre, non può prescindere dal fatto che siamo in un mondo globalizzato, per cui, dare del tempo allo studio delle lingue straniere è ormai indispensabile. Tutti i miei vecchi professori di statistica non hanno quasi mai pubblicato in inglese; oggi, se un ricercatore non presenta alcune pubblicazioni a livello internazionale, non può nemmeno pensare di intraprendere la carriera universitaria.
Altro aspetto sottolineato nell’indagine è la capacità relazionale. In realtà è una dimensione normale, perché strutturale nell’“io”, ma il mercato del lavoro la sta valorizzando molto come caratteristica che permette di “fare squadra”, tant’è che le aziende investono in team building e altre iniziative che coinvolgono il tempo libero e acuiscono il “senso comune”, sempre più necessario in una realtà dinamica e globalizzata che richiede la disponibilità a lavorare in gruppo e con persone diverse.
La motivazione è un altro aspetto a cui i datori di lavoro fanno molta attenzione. È interessante il fatto che questa dimensione implica la valorizzazione di un aspetto molto intimo, personale: il desiderio, da quello più profondo a quello più superficiale, ed anche la coscienza di quel che siamo, delle nostre predisposizioni e peculiarità.
L’immagine di persona che emerge dalle richieste del mercato del lavoro, è quella di un “io” che non è statico, ma che, in rapporto con una realtà che cambia, la segue in base ai desideri che lo costituiscono, e così li riscopre sempre più profondamente. Paradossalmente, questo momento così difficile nel mondo del lavoro è un’opportunità perché ciò che è richiesto con forza è un uomo, non solo un lavoratore, anche se ben impostato. Un soggetto di questo tipo non può essere generato da alcun corso di formazione, anche se poi il mondo del lavoro spesso intraprende questa strada.

Ogni passo è definitivo. In breve, desidero proporre alcuni spunti di metodo, tratti dalla mia esperienza personale, utili per affrontare il mercato del lavoro.
1. Innanzitutto, non si è mai veramente precari perché non è il contratto di lavoro o lo stipendio che rende precari, se si ha la coscienza che quella è una condizione all’interno di un percorso. Dal nostro Paese, tra il 1880 e il 1920, sono emigrate venti milioni di persone; la gente ha fatto davvero la fame, ma si è sempre rimboccata le maniche e ha sempre ricominciato dal punto in cui era, considerando ogni passo non come precario, ma come definitivo.
2. È meglio un lavoro qualunque che nessun lavoro perché il lavoro ha un valore in sé. Poi si cercherà sempre di cambiarlo se si desidera altro, non bisogna certo rinunciare a migliorare (condizioni, stipendio, opportunità di imparare). È anche fondamentale sapere che è più facile trovare un lavoro mentre si ha un’occupazione.
3. Qualunque lavoro ha una dignità e si può imparare da tutto. C’è un piccolo episodio nella mia carriera di statistico, per me molto significativo. Riguarda il mio primo lavoro che è stato sul pendolarismo in Lombardia. Ero molto orgoglioso dell’algoritmo che avevo fatto, ma quando lo mostrai al mio professore, lui disse: «Ah, bello! Guarda un po’, a Calolziocorte alla mattina entrano cento persone, alla sera ne escono cinquanta, ci devono essere dei begli alberghi!». Avevo trascurato di fare i “conticini”, di piegarmi agli aspetti più semplici della realtà. In quel momento ho imparato che ogni tipo di lavoro ha la sua dignità. Mi ricordo, poi, che passavo pomeriggi interi in biblioteca a cercare articoli per il mio professore, a fotocopiarli e portarglieli. Allora mi lamentavo, ma a posteriori capisco che tutto era lavoro e da tutto ho avuto la possibilità di imparare qualcosa. Lamentarsi, invece, impedisce di desiderare realmente e di vedere la realtà. L’atteggiamento oscilla di solito tra il menefreghismo e la riuscita ad ogni costo, cioè l’idea che la nostra consistenza dipenda da quello che riusciamo a realizzare nel lavoro. Io ricordo periodi della mia vita in cui ho vissuto da alienato, bloccato dalla paura di non passare l’esame di associato e di ordinario. È diverso invece quando si è determinati dall’amore al lavoro concepito come un servizio, una collaborazione all’opera di un Altro. Stare lì, sul pezzo, con questa coscienza si chiama “merito”. Ed è ciò che fa superare anche il modo “burocrate” di affrontare il lavoro. Una volta, in università, si è fermato l’ascensore. Allora è stato chiamato il bidello, il quale si è disinteressato della cosa e ha detto che bisognava chiamare il tecnico il quale, a sua volta, ha detto che bisognava chiamare la ditta dell’ascensore... Fino a che l’ascensore è ripartito da solo! Capite che in certe situazioni se non c’è qualcuno che si implica perché ci tiene a quello che ha davanti, si blocca tutto.
4. La presenza di maestri disposti a insegnare è un aspetto fondamentale. I maestri possono esserci sul posto di lavoro, ma anche fuori. Io, per esempio, ho fatto ricerca non con i professori che mi hanno messo in università, ma con docenti di altri atenei.
5. Gli errori che si fanno sono una delle occasioni più importanti per imparare. Mi ricordo che ad un convegno mi fecero le pulci e io reagii subito da italiano: l’arbitro è venduto! Il mio professore mi convinse a chiamare la persona che mi aveva criticato e ad incontrarla per farmi spiegare meglio la sua obiezione. Fu quella un’occasione per me importantissima perché da quell’incontro incominciai ad occuparmi di valutazione. Un richiamo può anche essere sbagliato, ma prenderlo per l’aspetto di verità che contiene, può far fare grandi passi in avanti.
6. Come valutare il tema contratto-stipendio: anche qui è ragionevole essere flessibili. Bisogna guardare la globalità dei fattori, perché in un mondo dinamico è facile che le imprese inseriscano i lavoratori attraverso gli stage, che diventano spesso contratti a tempo indeterminato. Una delle cose che nessuno dice è che nelle regioni del Nord il 73% dei contratti a tempo determinato diventano a tempo indeterminato entro i 42 mesi, tempo non brevissimo, ma che si può considerare di assestamento del percorso professionale, soprattutto per i lavoratori più giovani. E che a volte i contratti a tempo indeterminato hanno una durata inferiore a quelli a tempo determinato perché le persone preferiscono cambiare. A volte è meglio accettare un contratto interinale, se il lavoro permette di imparare e prevede un percorso di crescita, piuttosto che un contratto a tempo indeterminato, in una ditta che non navighi in buone acque o non permetta di crescere. Anche qui bisogna ragionare in modo flessibile, considerando tutti i fattori in gioco e coscienti che, nella situazione attuale, il rischio è una condizione normale.

C’è bisogno di qualcuno che sia stabile. In sintesi, cosa educa di più ad affrontare il mondo del lavoro? Una posizione che mette in campo l’“io”, e lo rende disponibile a paragonarsi con quanto accade. Giussani raccontava spesso che quando iniziarono le invasioni barbariche la gente era costretta a scappare e a cambiare spesso territorio. I monaci, in virtù del loro rapporto con Cristo, si sono fermati, hanno accettato il rischio e col tempo hanno costruito una civiltà. E Giussani faceva l’analogia con il mondo del lavoro di oggi dove tutti sono instabili, insicuri (uno può anche fare una carriera brillante, ma essere instabile). E diceva: c’è bisogno di qualcuno che nel lavoro, per Cristo, sia stabile, non perché non viva il rischio, non perché non gli possa capitare di rimanere disoccupato, non perché non abbia cambiamenti da fare, ma perché ha dentro una certezza con cui affronta il rischio.