Un dono venuto da lontano

SOCIETÀ - ADOZIONI INTERNAZIONALI
Paola Bergamini

Sui giornali il grido d’allarme: le domande di adozione sono in calo. Ma l’Italia si conferma un Paese accogliente. In vista dell’Incontro Mondiale delle famiglie, fatti e testimonianze raccontano cosa vuol dire adottare. La decisione, i documenti, il viaggio... E quegli amici «senza i quali non ce la puoi fare»

Mentre gira la chiave nella serratura, Grazia si asciuga le lacrime. Chiude la casa e chiude un pezzo della storia sua e di Stefano, il marito. Il giorno della partenza, così tanto atteso, è arrivato. Al ritorno non saranno più solo loro due, ma in quattro. In Cile, li stanno aspettando Luis e Matias, i due fratellini di 9 e 10 anni che hanno adottato. Nei portafogli le foto dei due bambini sono ormai consumate. Un lungo viaggio, l’arrivo a Santiago. Nel salone dell’istituto, educatori e psicologo raccontano loro dei bambini. Poi: «Aspettate che andiamo a prenderli». Cinque minuti da soli. Ricorda Stefano: «In quei momenti pensi a tutto. Ti sfila la vita davanti. Poi si è aperta la porta e sono entrati. Ci hanno salutato chiamandoci mamma e papà». Due cappellini rossi e due palloni come regalo e dopo qualche ora trascorsa insieme, la domanda di un educatore: «Cosa volete fare? Rimanete o andate con i vostri genitori?». «Andiamo. Subito». È l’inizio di un’avventura. «Che dura tutta la vita», dice Grazia.
Il momento dell’incontro e poi del rientro è, però, l’ultima tappa dell’iter per l’adozione. In particolare di quella internazionale di cui in questi mesi hanno scritto i giornali sottolineando che le adozioni in Italia sono in crisi (vedi box a pag. 44). Ma a fronte di un calo delle domande il numero dei bambini adottati è rimasto pressoché stabile. Certamente la crisi economica ha in parte determinato questa diminuzione: adottare bambini provenienti da Paesi esteri costa. Molto. Ci sono, infatti, i costi di traduzione dei documenti e poi ovviamente il trasferimento e la permanenza che comporta spesso doversi assentare dal lavoro per periodi più o meno lunghi. È anche vero, però, che c’è una maggiore consapevolezza delle coppie e quindi una scelta più ponderata. Da più parti si reclama una maggiore apertura per poter accogliere un maggior numero di bambini. L’Italia ad esempio è uno dei pochi Paesi dove l’adozione è permessa solo alla coppia sposata. Ma il punto è: cosa si vuole offrire a questi minori?
Proviamo a ripercorrere questo cammino accompagnati da chi questa strada l’ha intrapresa. Sapendo che ogni storia, con tutte le sue difficoltà e bellezze, è unica, come unici sono i figli, naturali e adottati, che il Signore dona.

Davanti alle crocette. All’inizio spesso c’è il dolore, una ferita: l’impossibilità di avere figli naturali. Ma la decisione di adottare non è scontata. Un figlio non riempie un vuoto. Racconta Stefano: «Abbiamo cominciato un nostro percorso interiore, insieme. Volevamo capire a cosa eravamo chiamati. Abbiamo chiesto aiuto al nostro parroco». Poi l’amicizia con una famiglia che aveva adottato. Per comprendere un po’ di più. Per dare spazio dentro al loro rapporto a questa possibilità. «Da subito ci siamo accorti che avevamo bisogno di qualcuno che ci stesse accanto. Ci accompagnasse». Alla fine di questo cammino la decisione.
A volte il passo verso l’adozione è proprio un di più che arriva a compimento di una ricchezza acquisita nel rapporto tra marito e moglie. «Attraverso l’incontro e il coinvolgimento con l’esperienza di Famiglie per l’Accoglienza (una rete di famiglie diffuse sul territorio che si sostengono nelle esperienze di accoglienza; ndr) abbiamo pensato che potevamo aprire la nostra a questa possibilità», racconta Fiorenza: «Io e Giuseppe abbiamo cominciato a parlarne tra noi, con nostra figlia Sofia e con altri amici. È stato innanzitutto un arricchimento del nostro rapporto, perché a volte devi avere la pazienza di aspettare l’altro».
Ecco la prima tappa: uniti, per accogliere questo di più. E accompagnati.
Il primo passo è la dichiarazione di disponibilità da presentare al Tribunale per i Minorenni allegando una serie di documenti. Secondo la legge italiana, gli aspiranti genitori non vantano un diritto ad ottenere un bambino. L’istituto dell’adozione, infatti, ha per fine quello di soddisfare il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia. Questo perché l’Italia ha aderito nel 1998, modificando la legge sulla regolamentazione dell’adozione, alla Convenzione de L’Aja del 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, che è il principale strumento per garantire i diritti dei bambini e di chi desidera adottarli.
Tra la documentazione da presentare c’è talvolta (secondo i diversi Tribunali dei Minori) un questionario con una serie di domande sul tipo di disponibilità che si vuole dare: quanti bambini, l’età, eventuali disturbi psico-fisici. «Un foglio su cui segnare delle crocette. Non è facile», dice Stefano. Veronica Bonfadini, della Fondazioni Patrizia Nidoli, che dal 1999 come ente autorizzato segue le adozioni in alcuni Paesi del Sud America e dell’Europa, spiega: «Spesso i futuri genitori sono impreparati. Quali crocette apporre? È necessario un percorso conoscitivo prima. Non basta la generosità. Ogni coppia deve capire a cosa va incontro, quali sono le proprie risorse».
Se ci sono tutti i requisiti, il giudice entro 15 giorni dalla presentazione della dichiarazione di disponibilità all’adozione, trasmette la documentazione ai servizi sociali di competenza per il cosiddetto “studio di coppia”, un’indagine psico-sociale attraverso colloqui e visite domiciliari. Entro quattro mesi i servizi inviano al Tribunale la propria relazione. A questo punto il giudice ha due mesi per rilasciare il decreto di idoneità all’adozione internazionale o di insussistenza dei requisiti.

Paesi e culture. Questi i tempi previsti. Decreto in mano, i genitori hanno un anno per rivolgersi agli enti autorizzati per conferire il mandato. Da questo momento tempi e modalità cambiano a seconda dell’ente e soprattutto del Paese scelto. Ogni Stato, infatti, ha una sua cultura e le sue tradizioni. Differenti, quindi, sono le documentazioni richieste ai futuri genitori e anche le modalità di incontro e di permanenza. Spiega Veronica: «In Cile, come in buona parte del Sud America, c’è ancora forte il senso della famiglia e un’attenzione per il minore. Gli istituti chiedono notizie sulla vita, sulle abitudini dei futuri genitori e a loro volta sono molto attenti a fornire informazioni di carattere psicologico del bambino. Cercano in tutti i modi di accompagnare bambino e genitori. I loro tempi burocratici sono un po’ lunghi, per questo le famiglie devono fermarsi circa due mesi». Diversamente che in Russia e in alcuni Paesi dell’Est Europa, dove tutto è molto più asettico e l’iter si risolve normalmente con al massimo tre viaggi di una settimana ciascuno. E questo è forse uno dei motivi per cui il numero di bambini adottati provenienti da questi Paesi è così alto. Ma non è detto, anzi, che questa sia la via più facile. Spesso insorgono altri problemi di ordine psicologico per i bambini o burocratico per la documentazione.

Altri piani. La prima volta che Fiorenza, Giuseppe e Sofia hanno volato oltre gli Urali fino a Chelyabinsk, in Siberia, è stato nel 2002, per conoscere Andrej. Appena prima del secondo viaggio, dal Cifa (l’ente autorizzato con sede a Torino), arriva però la notizia: la nonna ha fatto domanda di affido. Ricorda Fiorenza: «Mi è rimasto nel cuore. Ma siamo stati contenti per lui. Il Signore aveva altri piani». Ricominciano tutta la trafila dei documenti e nel 2003 riprendono l’aereo. Stessa destinazione. Questa volta tutto fila liscio. Tornano, dopo altri due viaggi, con Alessandro, 17 mesi. «All’inizio Sofia ha fatto fatica, la vita è cambiata radicalmente. Alessandro mi voleva tutta per sé», racconta Fiorenza. Ma c’è anche la sorpresa e la bellezza di avere accanto questo fratello che scompiglia. Tanto che nel 2005 decidono di presentare un’altra domanda di adozione. Incontrano Maksim nel 2007: ha due anni ed ha subìto due operazioni al labbro. «Praticamente non parlava. Nell’istituto dove era vissuto c’erano quasi solo bambini malati». Sembra tutto in regola e invece per vari inghippi burocratici solo un anno dopo la pratica si sblocca e loro possono andare a prenderlo. «Ci ha subito riconosciuti». Appena arrivati a casa, Alessandro lo misura: è più basso. Può rimanere.

Il sacco a cui attingere. Oggi Luis e Matias hanno 16 e 17 anni. Ma Stefano e Grazia hanno in mente la prima notte con loro nell’appartamento di Santiago. Tutti a letto, era iniziata la processione di uno e dell’altro per andare in bagno, fino a quando Grazia aveva chiesto: «Volete venire nel lettone?». Non se lo erano fatti ripetere due volte. «È stato così per i 47 giorni che siamo rimasti in Cile. Era anche questo un modo per stare insieme». Tornati, inizia la vita quotidiana. La scuola, l’oratorio dove giocare a pallone e dove trovare gli amici. Matias non fa niente, neanche scegliere al mattino cosa indossare, senza chiedere al fratello. È il suo protettore. Ma Luis crescendo inizia a ribellarsi a tutto e a tutti. Non vuole regole. Lo scontro più forte ce l’ha con Grazia. «Riesce a dirmi le frasi più cattive e dopo poco mi chiede se andiamo a fare un giro in bicicletta. Io sono il sacco da svuotare e a cui attingere. Da soli non ce l’avremmo fatta. Hai bisogno di un aiuto, per chiedere: e adesso cosa faccio? Forse sto sbagliando?». Ci sono gli amici che dall’inizio ci sono stati vicino e poi le famiglie della Fondazione Patrizia Nidoli. «A volte hai solo bisogno di uno che ti dica che quel problema ce l’hanno tutti i genitori. Altre volte... Prendi il telefono e chiami Anna, la psicologa che ci segue da sempre, perché con tutto il bene che gli vuoi non sai cosa fare». Grazia: «I figli, forse con quelli adottati questo è più lampante, ma dico forse, sono diversi da te. Tu gli dai una mano a crescere, gli stai di fianco, ma la strada la devono fare loro. Tu puoi solo esserci. Sempre». Cosa è per te la maternità? «Un amore che va oltre, che non sai spiegare, che ti fa andare avanti anche nei momenti duri. Perché poi li guardi in faccia e pensi che un dono così bello Chi me lo poteva dare?».
Siamo tornati all’inizio: un dono gratuito di un di più inimmaginabile.