La villa della rapina a Perugia.

La notizia è che non siamo morti

Luca muore per difendere la fidanzata in una rapina. Una madre prega per chi ha stuprato sua figlia. E Ivano disarma il killer che sta per uccidersi. In tre fatti di violenza, affiora «qualcosa di irriducibile che è dentro ogni uomo»
Anna Leonardi

I polsi legati con il filo del caricatore del telefono. Luca viene immobilizzato così, insieme alla fidanzata Mary, alla madre e al nipotino di otto anni, da tre rapinatori che irrompono all’ora di cena nella loro casa a pochi chilometri da Perugia. Il bottino è scarso. I tre, innervositi, slegano Mary e la trascinano fuori. Luca a quel punto teme il peggio per lei. Si butta a terra e strisciando li implora di lasciarla andare. Il primo colpo alla coscia non lo ferma. Non si arrende e fa di tutto per convincerli. Partono altri colpi, questa volta al petto, e Luca muore.
Particolari e interviste ci consegnano una ferocia e una crudeltà che in molti hanno definito degne di Arancia meccanica. Sembra non esserci spazio per una parola di più, eppure anche cronisti e commentatori hanno dovuto far posto nei loro racconti a qualcosa che forse non si aspettavano di trovare lì, dentro a tanta bruttura. Il gesto totale di questo ordinario trentottenne, impiegato di banca, ha scosso tutti, mettendo a nudo quel qualcosa di irriducibile che è dentro ogni uomo. Che lo rende capace di un bene senza misura, che lo porta ad affermare l’altro fino alla fine.
Una gratuità che diventa ancora più vertiginosa quando questo “altro” non è chi ami, ma chi ti ha danneggiato, o peggio, ha rovinato la vita dei tuoi figli. Come affiora da un altro fatto di cronaca accaduto a L’Aquila in questi giorni. Una studentessa viene violentata, ferita, abbandonata seminuda nella notte sottozero fuori da una discoteca. La trovano per caso i buttafuori all’alba. A quindici giorni di distanza dall’accaduto, le parole della madre impressionano, quando ai giornalisti, che le chiedono se perdonerà l’aggressore di sua figlia, risponde: «Pregherò per quel ragazzo». Poi aggiunge che l’odio e la vendetta non servono a nulla e che «non si risolve niente non facendo uscire di casa i figli. L’unica via possibile è l’educazione». Al perdono dell’aguzzino, il mondo non riuscirà mai ad abituarsi. È qualcosa che non si finisce mai di capire, ma che tocca la parte più narcotizzata di noi.
Esattamente come è accaduto all’appuntato dei carabinieri Ivano Gatti nel quartiere San Polo a Brescia. Nell’appartamento accanto al suo, un camionista uccide la ex-moglie e altre tre persone che si trovavano in casa con lei. Ivano è a letto che dorme quando sente le urla e gli spari. Scende in strada e vede il suo vicino di casa che si porta la pistola alla testa. Ma il caricatore si inceppa. L’uomo scappa, urla di lasciarlo morire. Il carabiniere lo rincorre, lo bracca e lo disarma. Poi risale nell’appartamento della strage, per capire cosa ne è delle tre bambine della coppia. Ai giornalisti confessa di non averci riflettuto molto, si è buttato senza esitare. Un eroe, hanno scritto - e detto - in molti. Ma non è solo quello. Anche in quel gesto c’è di più. Anche lì si schiude un pertugio da cui possiamo guardare veramente a ciò che accade dentro ogni fatto, la notizia dentro la notizia: non siamo morti, c’è qualcosa in noi che ci fa muovere nella storia di questo povero mondo pieni di desiderio per la vita. Nostra, e degli altri.