Padre Emmanuel Braghini.

Il confessionale, il tram e il Cardinale

Frate cappuccino, è morto l'11 marzo a Milano. Dalle pagine di "Tracce", la testimonianza per i cinquant'anni di messa nel 2004 e l’incontro con don Giussani. «Sono qui per miracolo», diceva di sé. Il racconto di quell’inizio.
padre Emmanuel Braghini

Era il 1954. A marzo avevo detto la mia prima messa da frate cappuccino. All’epoca era venuta una disposizione della Congregazione per cui bisognava fare un altro anno di Teologia. Poiché non ci stavamo più in piazza Velasquez a Milano, dove c’era la nostra facoltà, ci hanno mandato a Musocco, nel convento di fronte al cimitero Maggiore. Una mattina di settembre in convento c’ero io solo - tutti i miei compagni erano nel cimitero a cantare la messa - insieme al frate in portineria, il quale, a un certo punto, mi chiama: «C’è un prete da confessare». Gli ho risposto: «Noi “padrini” (i frati appena ordinati; ndr) non confessiamo i preti!». Lì per lì c’è stato un litigio col portinaio. Lui avrebbe potuto dire: «Va bene» (sapeva pure lui che non si mandano mai i frati giovani a confessare i preti… anche perché il prete ci rimane male), e invece mi ha detto: «Lo so, ma non c’è nessun altro». È venuto fuori un altro bisticcio. A quel punto mi ha ferito accusandomi di rifiutare un gesto di carità («Allora non vale la pena studiare tanto», ha commentato). Stava quasi per andarsene quando mi ha detto queste cose, allora gli ho risposto: «Va bene, vado a confessare il “tuo” prete».

Sul tram per Milano
Sono andato a confessare quel prete, senza neanche vederlo in faccia. Io provo tuttora imbarazzo a confessare - vorrei dire io i miei peccati -, sta di fatto che sono entrato nel confessionale, l'ho confessato e sono uscito. Non ci siamo neppure guardati in faccia. Lui, però deve avere afferrato nelle due parole che gli ho detto una qualche improvvisa sintonia. Uscito dal confessionale, vado in cella, prendo la mia borsa per andare in città, salgo sul tram e lì c'è un prete che mi fa: «Lei è sempre qui di convento?». Allora ho capito. «Son qui forse per un anno», gli rispondo. E lui ha cominciato a raccontarmi di un suo tentativo, perché si era accorto che il cristianesimo, quel Fatto, quella Presenza non esistevano più tra i ragazzi (di lì a pochi giorni avrebbe iniziato a fare Scuola di religione al liceo Berchet di Milano). Non ci siamo più lasciati.


Tutta la vita diventava bella
Da subito mi ha colpito la passione di don Giussani per il Mistero della Chiesa, per l’Incarnazione, che è sempre stato il fattore più incisivo. Ricordo quello che mi disse durante un viaggio in treno; stavamo andando a Brescia e lui si mise a picchiare sul vetro del finestrino dicendo: «Se uno non si misura, non si impegna, non si coinvolge con questo materiale, non può capirlo», e parlava del coinvolgimento con la realtà, col fatto del cristianesimo. Per lui il particolare è sempre stato importante, mai una cosa trascurabile. E questo per la percezione della presenza sacramentale, cioè sensibile, del Mistero. Quando terminava il raggio si rimettevano le cose a posto, le sedie in ordine; e poi don Giussani faceva raccogliere qualcosa per le missioni, sottolineava la puntualità. Durante le vacanze in montagna, dopo una certa ora girava per l’albergo, e non perché fosse apprensivo per i pericoli, ma per vedere se c’era silenzio. Per non parlare della messa. Non ne finiva una che non tornasse in sacrestia lamentandosi per i canti: che so, perché non avevamo tirato il fiato. Nella recita delle Ore, poi, sottolineava la pausa, l’andare insieme, perché - diceva - «se la preghiera non diventa anche un gesto bello, si finisce per rifiutarlo». E così diventava bella tutta la vita.


Montini intuiva
Tra i ricordi di quei primi anni ce n’è uno che mi porto dietro con commozione. Un giorno il cardinale Montini scrisse al mio convento per chiedere di vedermi. Quando lo incontrai mi domandò com’era la situazione di Gs. Non dimenticherò mai la risposta che gli diedi: «Guardi, Eminenza, lei sa che io sono l’unico che confesso i ragazzi; sa che cosa vengono ad accusare? Qualcosa che lei non ha mai sentito nella confessione di nessuno: chiedono perdono perché, per esempio, invece di andare a mangiare a un tavolo dove forse c’era una persona che aveva più bisogno, più triste, un po’ più sola, che non avevano ancora conosciuta, erano stati tentati di andare al tavolo con la persona con cui c’era più facilità di rapporto. Uno che si accusa di questo capisce che dovrebbe missionariamente andare a mangiare con quello o con quella, tanto che, non facendolo, lo riconosce come peccato…». Il Cardinale mi ascoltava e intuiva che sotto c’era qualcosa, era contento. Padre Giannantonio, un nostro frate cappuccino (tornato miracolosamente dai lager dell’ultima guerra, era confessore in lingue straniere in Duomo), aveva consigliato due suoi nipoti di venire in Gs e mi diceva: «Quando tutta la gente, che di solito va in un sacco di negozi, va tutta in un certo negozio, vuol dire che lì c’è qualcosa che vale di più». Anche il cardinale Montini aveva “fiutato” questo.