Un soldato Usa in Afghanistan.

Una ragione per rivivere, dopo la guerra

Il soldato Usa che fa strage di civili. E il silenzio sui disturbi di chi ritorna dal fronte. «Non si sa come starci davanti», spiega Guido Piccarolo che con i veterani ci lavora. «Sono persone frantumate. Ma il loro dramma è che ci sia un significato»
Alessandra Stoppa

Si portano a casa la guerra. Tornano, ma ce l’hanno dentro. I wounded warriors, i reduci che rientrano in patria con il tormento del ricordo e con gli squilibri di chi ha visto troppa morte e non riesce più a prendere le misure sulla vita. Danni psichici e dipendenze, se non il suicidio. A volte il crollo inizia quando sono ancora là, prima della fine-missione o della licenza. Come probabilmente è accaduto allo staff sergeant americano che domenica notte è uscito dalla sua base nella provincia di Kandahar e ha ammazzato sedici persone, tra cui nove bambini: casa per casa, gli ha sparato alle tempie e poi li ha bruciati. E i giornali a chiedersi se per quell’uomo che sarà processato serve la prigione o la cura. A commento della notizia, sono apparse analisi e numeri sulle migliaia di ragazzi («perché di ragazzi si tratta», come ha ricordato l’esperto di terrorismo Marvin Cetron al Corriere) che soffrono di disturbi della personalità e di problemi psicologici. Negli ultimi due conflitti Usa, sono partiti due milioni di militari: per le stime, quasi 500mila fra loro riportano danni certi.

«Sono dati accurati. Purtroppo non c’è esagerazione». Guido Piccarolo lavora con i veterani ed è sorpreso perché, la mattina dopo la strage, il Los Angeles Times ed il Wall Street Journal, nel dare la notizia, non accennano minimamente al dramma umano che vive chi ritorna a casa: «Si parla solo delle conseguenze sulle relazioni politiche internazionali. Si straparla dei disordini per i roghi del Corano nella base Usa di Bagram... Ma di quel dramma si tace. E non solo perché ha risvolti economici e politici delicati», precisa: «Si tace perché non si sa come starci di fronte».

Guido ha una storia sua che è un prodigio (qui trovate la sua testimonianza all’ultimo Meeting di Rimini), una storia che l’ha portato da essere analista finanziario per la Walt Disney a lavorare con disabili fisici e mentali. In breve, nella primavera del 2008 ha fondato con Nancy, collega e amica, la Los Angeles Habilitation House (Lahh) che crea e gestisce occasioni di lavoro per quelle persone. Il rapporto con i reduci è iniziato per una lettera, trovata proprio sul Los Angeles Times. Era di un giovane soldato, di nome Gamal, e finiva così: «Ogni mattina ho bisogno di trovare una ragione per non uccidermi». Quello che l’ha travolto leggendo questa riga è la ragione di tutto quello che ha fatto finora: «Il dramma di Gamal lo avevo io, è il dramma del significato della vita. Di fronte al limite che loro si trovano addosso emerge solo più potente. Che cos’è se non il desiderio che uno, almeno uno, ti abbracci in un modo che è per sempre?». E quello che ha fatto e che fa con questi ex soldati - finora ne ha seguiti una cinquantina - è aiutarli a riprendere un lavoro. Nell’impatto con la vita di prima si sono frantumati: perché loro non sono più come prima, sono cambiati, e perché qualcuno non ha più nemmeno la casa, o la famiglia, e vengono assaliti da disturbi fortissimi, il più noto è il Ptsd, post traumatic stress disorder, la sindrome da stress post traumatico. Oggi alla Lahh ci sono sei veterani, cinque di loro lavorano nell’ospedale militare di San Diego, pieno di giovani senza arti. Tre di loro vengono dall’Operation Iraqi Freedom, tra cui Bill: 42 anni, è stato fatto saltare in aria almeno sette volte mentre era in missione.

Guido e Nancy non seguono il recupero psicologico o clinico, ma li accompagnano nel reinserimento lavorativo, e li guardano rimettere letteralmente insieme i pezzi di sé. «Ti rimetti insieme se qualcuno ti ama», dice Guido: «Non c’è altro che io posso offrirgli se non lo stupore per il fatto che la vita ha un significato. Se non il fatto che continuo a commuovermi di quello che il Mistero fa nella mia. Imparo con loro che la verità della vita è essere in dialogo con questo Mistero. Che nemmeno la loro schizofrenia impedisce». Il cambiamento lo vedi fin nel dettaglio: iniziano a risparmiare i soldi per comprarsi un’auto, riprendono in mano le cose: «Per me, il fatto che loro tornano qui tutti i giorni è un miracolo in pieno. È vero che c’è l’incentivo dei soldi e della possibilità di fare qualcosa, ma è così acuto il dramma della loro vita». È ciò che finisce per paralizzarli e che al lavoro li costringe a fare tante pause perché sono sotto pressione: hanno la mente devastata da una tensione continua e il cuore dal sospetto, su tutto e tutti. Per questo è accaduto qualcosa se Evan, ventott'anni, guarda negli occhi Nancy e Guido e dice: «Io mi fido di voi». «Una delle implicazioni del Ptsd», dice Nancy, «è proprio che loro si fidano solo di ciò che possono misurare, tutto il resto è qualcosa di ostile, ingannevole».

Chris è stato il primo dei veterani a lavorare al Lahh: dieci anni di esercito e due di Iraq. Dopo due settimane dal suo arrivo, Guido l’ha portato a braccia in ospedale per un attacco forte, non stava in piedi: «È lì che ha scoperto di avere delle lesioni mentali. Ma, proprio in quel momento, la cosa che lo toccava di più era il fatto che io fossi in ospedale con lui. Che ci fosse uno. Almeno uno».