Cosa vale la pena

DELITTI E CASTIGHI - OLTRE LA CONDANNA
Alessandra Stoppa

Si educa al bene attraverso il male? Si cambia la cultura con sentenze e sanzioni? Dialogo con quello che per molti è un simbolo del giustizialismo, l’ex pm GHERARDO COLOMBO. Dagli inizi a Tangentopoli, racconta che cosa ha scoperto su giustizia, perdono e carcere. E fa i conti con una questione che per lui resta aperta

Si ricorda ancora quella donna, più di trent’anni fa, venuta a chiedere un colloquio con il marito in carcere: entra nel suo ufficio, per mano ha il figlio piccolo. «Era in momenti così che accusavi il colpo». All’epoca Gherardo Colombo faceva il giudice istruttore. Aveva chiesto lui di essere spostato, dopo tre anni di Tribunale. «Dopo quei tre anni». Dal 1975 al ’78, quando lavorare alla VII sezione penale della Corte di Milano voleva dire occuparsi di sequestri di persona, infiltrazioni mafiose. E lui, neomagistrato trentenne, preferì l’Ufficio Istruzione, dove il giudice non emette sentenze ma mandati di cattura.
«La questione, però, non cambiava. La mia decisione s’inseriva profondamente nella vita di un altro. Questo era pesante. Interrogava me e il potere che esercitavo», dice l’ex pm. E sorprende sentirlo. Uno dei quattro volti del pool storico di Mani pulite, tra le figure simbolo del giustizialismo in Italia, oggi racconta del «disagio potente» che provava fin d’allora, da quelli che erano gli inizi della sua carriera. Poi sarebbero venute le inchieste celebri, la scoperta della Loggia P2, i fondi neri dell’Iri, l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, e Tangentopoli. Fino alla scelta di lasciare la toga, nel 2007. «Il mio lavoro mi ha convinto che infliggere condanne non è fare giustizia. In fondo è per questo che mi sono dimesso». Ha preferito dedicarsi al sistema “da fuori”, per risalire a quella che, secondo lui, è l’origine del problema: «Una profonda distorsione culturale, nel rapporto tra persona e regola».
Parla dei fraintendimenti sulla concezione di pena, del rovesciamento con cui Cristo ha perdonato i suoi carnefici, e che «è stato lasciato cadere nel vuoto» nel pensare le leggi e la società, o del fatto che «non si educa al bene attraverso il male, la pena». Tutte cose a cui ha dedicato il libro Il perdono responsabile. In ogni pagina c’è un senso forte di sproporzione. Di inadeguatezza. «Sono i mezzi della giustizia ad essere inadeguati, almeno per come si realizza oggi», precisa. «Tenga. Questo è da leggere». Da dietro la scrivania del suo ufficio in Garzanti, di cui oggi è presidente, porge alcuni fogli. È la storia di Lush Gjergji, prete albanese che ha percorso passo a passo il Kosovo per aiutare centinaia di famiglie a perdonare le atrocità della guerra. «Se è possibile là, dove è successo di tutto, ho speranza che anche in Italia si approfondiscano le ragioni di una giustizia diversa. Non basata sul modello punitivo, com’è oggi».

C’è stato qualcosa di decisivo nella scelta di dimettersi?
Ho lasciato dopo l’esperienza della Cassazione. Ci sono arrivato nel 2005 e nel 2007 ho deciso di lasciare. Potevo fare il magistrato ancora per 14 anni, ma quei due sono bastati.

Perché?
La Cassazione non prevede appello: la sentenza è definitiva, l’errore vero diventa irrevocabile, per cui la responsabilità è terribilmente maggiore. Ed io ero angosciato. Non è così per tutti, ma io ero molto preoccupato dall’idea di sbagliare. Continuavo a vedere e rivedere quello che facevo. In Cassazione il carico di lavoro è enorme: si portano quaranta cause per udienza, si comincia alle dieci di mattina e si finisce quando si finisce. E alle undici di sera il rischio di sbagliare si moltiplica. Per me, la soglia d’attenzione era sempre eccezionale. Mi è capitato di chiedere consiglio ai più anziani, ma la risposta, spesso, era questa: «Certo, quando si arriva si hanno tutti questi scrupoli... Ma poi ci si abitua!». Io non ho voluto abituarmi.

Lei pone una questione fondamentale, quella del limite. Del giudizio umano, che non è infallibile. Ma che cosa permette di giudicare senza essere bloccati dall’errore?
Per me il problema era l’irrimediabilità. C’è chi ci convive, con la coscienza di lavorare al meglio ma di essere esposto all’errore definitivo, senza che questo diventi un problema. Io ho preferito dedicarmi alla giustizia in un altro modo. Ma la mia decisione non è dipesa soltanto dall’esperienza in Cassazione: in tutto il lavoro prima, mi ero reso conto che non bastava l’impegno a far sì che la giustizia funzionasse dignitosamente.

Secondo lei, uno dei principali problemi è che oggi la pena coincide con il carcere. Pensando alla sua carriera, non ci si aspetterebbe questa conclusione.
Sono stati i 33 anni passati in magistratura a portarmi a questa profonda convinzione: il carcere non è la risposta adeguata. Quando ho iniziato la mia carriera, pensavo che servisse, che fosse uno strumento idoneo. Poi ho cominciato a nutrire dubbi. Comunque, è un’evidenza che la detenzione è inadeguata rispetto allo scopo che si prefigge. Ora c’è anche il sovraffollamento, che è disumano, così come lo sono le condizioni fisiche e psicologiche. Ne consegue che il 68% di chi esce commette nuovi reati. Ma l’opinione comune qual è? Che serve a garantire la sicurezza!

Nel libro, dice che è un luogo comune da sfatare.
Pensiamo davvero di essere “sicuri” se mettiamo otto persone in una cella quattro per tre, impedendogli di vedere la famiglia se non sei ore al mese o di farsi visitare dal proprio medico? Soprattutto, crediamo che questo educhi al bene? Qui si pone il problema della pena: una persona che ha commesso un reato deve essere retribuita con il male o essere aiutata a non farlo più? La seconda strada può essere anche ben più pesante della punizione in sé, perché “muove” le intimità più profonde, rende consapevoli del male fatto e della sofferenza della vittima. Sono convinto che la detenzione è da evitare nei modi in cui si realizza oggi, perché chi ha sbagliato non si smarrisca ancora di più. Per cui il tema alla radice è culturale: domina una giustizia retributiva, basata sull’esclusione, non sul recupero.

Lei parla di giustizia riparativa e mediazione.
Purtroppo, in Italia non esiste una disciplina legislativa che le contempli. Ma si fa qualcosa in questa direzione: le pene alternative, i momenti di vita comunitaria per i detenuti, fino ai procedimenti di mediazione davanti al Tribunale dei minori, attraverso spazi normativi che, pur non prevedendoli esplicitamente, li consentono.

E come si può rispondere al problema culturale che lei vede?
Credo sia essenziale l’educazione. Senza di essa, l’intervento giudiziario serve a poco. Per esempio, sul rapporto tra regola e persona c’è un profondo fraintendimento. La regola viene confusa con la punizione. Non solo nella concezione di reato e pena, ma anche nel campo educativo in quanto tale, il primo in cui si esplica una cultura più ampia. Per semplificare: quando tu rompi la relazione affettiva con me, meriti che io la rompa con te. L’educazione è troppo facilmente impostata così, su premio e castigo. Invece la regola non è la punizione: è un’indicazione per raggiungere uno scopo.

Lei incontra i ragazzi nelle scuole sui temi della legalità. Ma è possibile educare alla regola senza educare allo scopo che essa afferma?
L’educazione è al valore che le regole, le regole della nostra Costituzione, affermano. Infatti, il presupposto di tutto è la dignità della persona. Nel riconoscimento del rispetto dell’altro, io mi educo alla responsabilità.

Educare “al bene” vuol dire educare a “non sbagliare”?
Lo scopo dell’educazione è far crescere: io credo voglia dire educare alla libertà, cioè alla responsabilità. Ma proprio per questa ragione, se resta la confusione su un aspetto come la regola, se si fa coincidere con la punizione, allora regola e perdono sono inconciliabili. Incomunicabili. Invece non è così.

Lei mette proprio il perdono al centro del cambiamento culturale.
Sì. Io credo che prima, però, occorrerebbe chiarire il senso del perdono, che non è rimozione, amnesia, cancellazione del fatto. È proprio il contrario. Il perdono sta nella relazione e chiede responsabilità, consapevolezza.

Nel libro, riporta esempi eccezionali: dalla madre di Varese, Carolina Porcaro, che perdona il ragazzino che le ha ucciso il figlio, a Giovanni Bachelet che prega per gli uccisori del padre. Fino al profondo cambiamento nelle lettere di alcuni ex brigatisti. Lei interpreta il perdono come la possibilità di una pratica comune. Ma come si può “applicare” quello che è successo in loro? Forse bisogna guardare l’origine del loro perdono.
Il perdono è un fatto assolutamente personale. Ha dentro una disponibilità assolutamente intima. Quando dico di trasferirlo come “modello” al rapporto sociale non intendo solo al ripensamento della pena, ma parlo soprattutto di educazione. Penso all’esperienza educativa di considerare l’altro come persona, qualunque cosa abbia fatto. Educare a non degradarlo. L’esatto contrario di ciò che afferma il Grande Inquisitore di Dostoevskij: gli uomini sono vili, ribelli, deboli e abietti, incapaci di usare la libertà e perciò necessitano del governo altrui.

Ma basta il rispetto della dignità a rendere possibile il perdono?
Come mai la mamma di Varese, il giorno dopo l’omicidio, afferma: «Sono preoccupata per quello che dovranno affrontare il ragazzo e la sua famiglia»? Vuol dire che quella donna ha qualcosa dentro, ha acquisito una struttura, cioè ha letto, ha avuto certe esperienze, certe relazioni, che l’hanno portata a darsi quella struttura: fino a “sentire” dentro di sé l’esistenza del ragazzo che ha ammazzato suo figlio e dei genitori di lui. Questo vuol dire mettere insieme, in modo diverso dal tradizionale, la parte dell’affetto e la parte della ragionevolezza. Educare vuol dire quindi formare, consolidare quella struttura.

Nel libro, afferma più volte che l’applicazione della giustizia non basterà mai a riparare la vittima. Don Giussani ne Il senso religioso dice che la giustizia è un’esigenza la cui realizzazione è impossibile senza la prospettiva di un oltre.
L’esigenza di giustizia, quando non è diventata solo desiderio di vendetta, non trova risposta né nella pena inflitta al colpevole né in nessun esito giuridico. Ecco, per chi crede in Dio la risposta all’ingiustizia sta in un oltre, ma per chi non crede il tema è più coinvolgente, perché chiede risposte qui, avendo come riferimento l’esperienza.

Anche per chi crede il riferimento è l’esperienza. Il bisogno di giustizia è irriducibile a qualsiasi applicazione giuridica, tanto che il richiamo a quell’oltre è un fatto, dell’esperienza.
Vuol dire che non è possibile la giustizia qui? Io credo che il senso della giustizia, così relativo a seconda dei luoghi e delle epoche, proprio qui possa evolversi verso il rispetto incondizionato.

Ma il bisogno di giustizia non è relativo. Coincide con la persona: è bisogno di risposta ad una ferita subita.
In questo senso parliamo del dolore... Il dolore per un’ingiustizia di cui si è vittima. Quando si sente dolore, o si cerca di guarirne oppure si cerca la vendetta, la punizione, senza pensare se veramente serva, anche a se stessi. Per questo, bisogna approfondire la strada della mediazione, il tentativo di riconciliazione tra vittima e colpevole.

Sono vent’anni da Tangentopoli. Nel 1993, don Giussani affermava che «un’azione che per punire i colpevoli distrugge un popolo come coscienza unitaria e come raggiunto benessere ha almeno nella sua modalità di attuazione qualcosa di ingiusto». Lei ne è stato protagonista. Che cosa pensa di questo giudizio?

Non vorrei che si confondesse il fenomeno con la sua scoperta: la corruzione era un sistema, la sua scoperta l’ha resa evidente e non era un’azione punitiva contro i colpevoli. In questo quadro, penso che Tangentopoli sia la prova che la strada per cambiare la cultura non è la minaccia delle sanzioni. Ciò che serve è un grandissimo lavoro di educazione. Infatti, non è cambiato nulla da allora.

Ma lei come ha sentito il lavoro che stavate facendo?
Io sono entrato nel pool ad aprile del ’92. A luglio ho proposto un’idea, caduta nel vuoto, che era già stata avanzata da Roberto Mongini (uno degli indagati; ndr): chi ammetteva le proprie responsabilità - a precise condizioni - evitava il carcere. Perché quei pochi mesi erano bastati a farsi l’idea delle dimensioni e della capillarità del problema: si trattava di centinaia di migliaia d’imputazioni. La questione stava travalicando il livello giudiziario e chiedeva risposte in altra sede.

E perché è rimasto nel pool?
Il mio intendimento era questo: guardate che per questa strada è difficile, quasi impossibile, riuscire a marginalizzare la corruzione e arrivare a una società giusta. Compete al Parlamento adottare una soluzione e, se ciò non si verifica, io continuo il mio lavoro, cercando di farlo al meglio.

Mi colpisce che in un libro sul perdono non si parli mai del peccato. Don Giussani affermava che se si toglie il mistero del peccato «non si capisce più nulla».
Il mio libro cerca di risolvere una questione essenzialmente laica: le conseguenze alla violazione delle regole, non le conseguenze del peccato. Detto questo, io credo che uno dei problemi più gravi abbia origine nella forte tendenza a vedere se stessi come innocenti. Come se la colpa dell’altro non ci riguardasse. Per questo ci rassicura la prigione, perché il principio per cui “chi ha fatto il male deve subire il male” ci toglie da qualsiasi impiccio di pensiero. Trasferisco il problema sugli altri e me ne sento esente. Il male sta solo fuori di me. Ma ciò che mi fa ben sperare sono cose come quella che ho visto ieri.

Che cosa?
A San Vittore, dove c’è il progetto Nave (nove ore al giorno di vita comunitaria; ndr) cui partecipo, era presente una scolaresca e mi ha colpito la frase di una ragazza, quando abbiamo chiesto cosa pensavano della visita. Ha detto solo: «Ho visto gente come me». È una risposta importante. Decisiva.