L'ospedale San Filippo Neri di Roma.

Novantaquattro embrioni, tante opinioni e un fatto

Al San Filippo Neri il guasto all'impianto di refrigerazione del Centro di procreazione ha fatto una strage. Per qualcuno è solo «materiale biologico». Dietro le dispute c'è una cosa che rimane: il dolore di una madre che non si può anestetizzare...
Emanuele Braga

Novantaquattro embrioni morti. Novantaquattro vite spezzate. Un fatto così imponente che qualche giornale, nei titoli, ha usato la parola «strage», mai così a proposito e mai così vera rispetto ad altre cronache in cui, tra virgolette d’imbarazzo, si parla di «distruzione» e «materiale biologico». Il guasto all’impianto ad azoto liquido del Centro di procreazione del San Filippo Neri di Roma ha scosso. E molto. Ha provocato commenti di esperti e reazioni politiche sulla «legge 40», annunci di inchieste e richieste di danni. E ha fatto emergere prese di posizione interessanti come quella di Michela Marzano, filosofa di stanza a Parigi, che in un editoriale su Repubblica («La speranza spezzata») parte da una rassegna sommaria delle posizioni in gioco nel «dibattito ideologico» sullo «statuto ontologico dell’embrione», su cui «si discute da secoli» ma «senza giungere ad alcun consenso»: da una parte la Chiesa e la sua difesa della vita umana fin dal concepimento, dall’altra i «neokantiani» che identificano la persona con le sue «capacità razionali e relazionali». Criticabili entrambi, dice lei; per motivi diversi e intuibili da chi segue almeno un poco il dibattito eterno su questi temi.

L’interessante, però, arriva dopo. Quando la Marzano ricorda che questi embrioni erano congelati per essere impiantati nel corpo di una donna. «Rientravano direttamente all’interno di un progetto familiare: erano lì perché alcune coppie sterili volevano un figlio». Insomma, «rappresentavano già, almeno da un punto di vista simbolico, il bambino tanto atteso». Altro che «materiale biologico»: per le quaranta coppie in attesa erano «l’inizio della speranza. E la speranza non è facile da risarcire».
Vero. Tanto che assieme a cronache e commenti, sui giornali ci sono le reazioni di alcune di quelle coppie. Smarrimento. Amarezza. Rabbia. Soprattutto, dolore. Perché «quell’embrione è il tuo tesoro, la tua speranza, il tuo sguardo su una vita nuova», dice Emma, una delle potenziali mamme interpellate: «È tutto».
Dolore. Non solo l’amarezza e la disillusione per un progetto svanito dopo anni di sofferenza (la «speranza spezzata», appunto). Non solo la rabbia perché qualcuno, magari, ha sbagliato e «bisogna trovare di chi è la colpa» e «chi ci deve risarcire». No: dolore. Simile a quello provato da tante donne che quell’embrione l’hanno già in grembo, e lo perdono. Identico a quello di chi si ritrova ad abortire senza volerlo. Dolore.

Da dove viene quel dolore? Come si spiega? Basta un «punto di vista simbolico», a darne ragione? O tocca per forza tirare in ballo qualcosa che c’è e ci è già caro? Minuscolo, invisibile, ma caro. Già oggetto di affezione e attenzione. Già amato. Già così irriducibile nel suo valore, così importante per noi, da farci sentire un senso di vuoto, se va perduto. Un dolore, appunto. Qualcosa che non puoi anestetizzare a forza di idee o discussioni. C’è.
Ecco, forse basterebbe essere leali con quel dolore per fare chiarezza nel «dibattito» su embrioni, procreazione e aborto. Per spostarlo dalle opinioni - più o meno fondate, perché non sono tutte uguali anche se poi sono irrimediabilmente messe sullo stesso piano - al punto dove affiora il vero, irriducibile: l’esperienza. Ovvero la realtà. E nella realtà, l’io.