«Se Cristo non fosse risorto...»

Linda che ha conosciuto Cristina e non vuole più prostituirsi. Una donna brasiliana che scopre di essere «una cosa bellissima». E una moglie che vive accanto al marito malato di Sla. Tre storie di vite "fatte nuove"
Paola Ronconi e Alessandra Stoppa

La notte che ho visto le stelle
Un mercoledì sera, come tanti altri. Cristina sta tornando a casa in macchina, dopo la Scuola di comunità. Ad un tratto i fari illuminano una donna, in mezzo alla strada. Inchioda: «Che cavolo fa?!». Scende. Grazie al cielo non s’è fatta niente. È scura di pelle, molto probabilmente una prostituta. Non è l’abbigliamento a farglielo pensare, ma la zona e le “colleghe” poco distanti. Le chiede un passaggio fino a un paese vicino. Cristina decide di caricarla.
Dopo un momento di impasse, iniziano a parlare. La donna si chiama Linda, è nigeriana. Racconta un po’ di sé, della vita che fa. Cristina ci aveva visto giusto. La lascia finire, un attimo di silenzio e poi: «Ma non ti arrabbi mai con Dio?». L’altra scoppia in una grassa risata: «Ma se è Lui che mi protegge! Per esempio, Gli ho chiesto di mandarmi qualcuno e sei arrivata tu. Ho solo da ringraziare!». Arrivate a destinazione, scende. Cristina le dà il suo numero di cellulare: «Chiamami quando vuoi». «Ma chissà se la rivedrò...», pensa quando Linda chiude la portiera dietro di sé.
Il giorno dopo, Cristina racconta tutto alla sua amica Rita che sbianca di colpo: anche a lei è successa la stessa cosa, forse era la stessa persona. «Cerchiamola», si dicono. Così partono insieme all’amico Francesco, a una chitarra e a un mazzo di fiori. Chiedono a tutte le nigeriane di quella zona, ma niente, nessuno sembra conoscerla. Rinunciano, fiori e canzoni decidono di darli alla prima “signorina” che incontrano. Si imbattono in Ros. Non capisce cosa vogliano, ma poco dopo si ritrova con un mazzo di mimose in mano ad ascoltare La notte che ho visto le stelle di Claudio Chieffo: «... la notte che ho visto le stelle/ non volevo più dormire,/ volevo salire là in alto per vedere.../ e per capire...».
La storia sembra finire qui. Ma Linda si fa viva, Ros deve averle raccontato della strana serata: «Quando ci vediamo?», chiede a Cristina. Detto, fatto: la sera successiva si organizza una cena. Poi iniziano i canti e anche Linda ne intona uno della sua terra, che dice: «Dio è buono. Ha mandato Suo Figlio che è morto per il mio peccato e per il tuo. Il nostro debito è stato riscattato. Cantiamo con gioia». L’ora di andare arriva presto, il lavoro la attende. La accompagnano a un incrocio e si salutano.
Passano pochi minuti e il cellulare di Rita squilla. È Linda. Chiede di riaccompagnarla a casa, ha freddo. Rita fa inversione, torna a riprenderla, ma una volta in macchina Linda la guarda: «Non è per il freddo. Dopo una serata così bella, non posso tornare al lavoro. Aiutatemi a trovarne un altro».


«Tu gli vuoi più bene a tuo marito?»
Il medico lo guarda: «Non faccia programmi a lungo termine. Non faccia mutui di dieci anni. E se vuole farsi una corsa, vada oggi. Perché forse domani non potrà più». Ugo ha saputo così di avere la Sla. Silvia era lì, seduta accanto al marito con il pancione di sei mesi. Aspettava la seconda figlia, Letizia, che oggi ha la stessa età della malattia: due anni e mezzo. Quando è nata, è uscita dall’ospedale in braccio al padre seduto nella carrozzina, spinta dalla madre: «Sembrava avesse partorito lui!». La risata di Silvia è limpida ed è uno squarcio. Ti fa vedere meglio tutto, la prova che vivono ogni secondo della giornata e la grazia che li visita.
La diagnosi è del 2009, dopo quattro anni di matrimonio. Ugo ne aveva quarantaquattro, e ha iniziato ad avere una stanchezza esagerata. Poi ad incespicare con un piede. È ingegnere, lavorava in un’azienda di componentistica per elettrodomestici. «E ha continuato a farlo imperterrito, come se nulla fosse», dice Silvia. Ma un mese alla volta si è fermato qualcosa. Prima le gambe, poi il diaframma, poi la lingua. Ed ogni colpo era un aiuto in più a cui cedere: la carrozzina, poi il ventilatore per respirare, poi la peg, il tubicino che lo alimenta. Ora il comunicatore, perché Ugo muove solo gli occhi. Guarda le lettere e il computer riproduce le parole. Una lettera alla volta, pianissimo, in silenzio. E Silvia attende, tutto il tempo che ci vuole. Anche solo per un ciao.
«Ogni passaggio, ogni peggioramento, ha significato una scelta, e quindi immense discussioni tra noi. Lui non accettava». E tu? «Ho fatto quello che fa una moglie: stargli accanto per farlo ragionare. Per cercare di scegliere insieme il bene». I muscoli di Ugo sono sani, cioè sente tutto, il dolore e le carezze. È che non può controllarli. Non può abbracciare i figli, e il suo volto ha perso l’espressività. «È un dolore anche questo», dice Silvia: «Non sai se sta ridendo o se è arrabbiato. Ma generalmente è arrabbiato…», ride. Lei sta imparando ad amare questa arrabbiatura. «Ho dovuto imparare tutto. Innanzitutto a chiedere aiuto. Come lui, che ha dovuto accettare di dipendere. E di vedere che la vita ti scorre intorno come prima e tu non puoi partecipare come vorresti». Ma la vita che gli gira intorno non è proprio come prima. È molto di più. «È esplosa». Negli ultimi due anni, in questa casa saranno passati almeno duecento ragazzi, con cene di dodici alla volta. E gli amici, senza tregua. «Per aiutarci in tutto. È vero che io ho imparato a chiedere, ma la cosa incredibile è stata la risposta. Innanzitutto dalla comunità di Dergano, che è stata qui, ogni giorno». Vengono anche le classi intere di catechismo, ché il prete le porta a vedere che cos’è la Comunione nell’Eucaristia a un malato: i bambini si mettono qui per terra, stanno a lungo fermi in silenzio. Poi le chiedono «ma tu gli vuoi più bene a tuo marito?».
Silvia, quando parla di lui, sembra parlare di "un'opera". E come chi porta avanti una grande opera, chiede preghiere. E ciò di cui ha più bisogno. «Io sono certa alla mattina, perché so che c’è qualcuno che sta pregando per me. Questa è la compagnia più grande: si è scatentata, proprio scatenata, una catena di preghiere impressionante. C’è una quantità di preghiere per noi che ci sostiene fisicamente nella fatica del quotidiano, che non passa, anzi è sempre più critica. Ma questa apertura l’ho imparata da Ugo, che è un uomo di fede, grande».
Il mutuo l'ha fatto lo stesso. Di trent'anni. E ieri sera è stato lui a volere che la Scuola di comunità si facesse a casa loro, «con una pizzata», ha fatto dire al computer. «È sempre disponibile, dentro tutta la sofferenza che porta», continua Silvia. «Del resto, quando senti dire da chi viene qui: “Ugo io ho bisogno di vederti, e di vedere come ti guarda Silvia, per imparare a voler bene a mia moglie”… Quando senti questo, capisci che porti qualcosa di grande e non puoi rifiutarlo». Dice di aver capito che è vero che il Signore non ti chiede niente di più di quello che puoi portare. «Ma neanche niente di meno. Bisogna imparare a dare tutto. E io ho una grazia grandissima, perché voglio bene a Ugo proprio come uomo, perché c’è, perché mi è dato. Come i miei figli. Ma se questa prova non fosse accompagnata come lo è, non potrei vivere così. Se Cristo non fosse risorto, se non fosse vivo oggi, tutto ciò che è accaduto negli ultimi due anni e mezzo in questa casa non sarebbe possibile».


Quell'ora che sostiene le altre ventitré
Canto, danza, ricamo, pittura. Sono le ultime attività che ti aspetteresti di incontrare in un quartiere brasiliano, periferia di San Paolo. E invece proprio questo è il modo con cui Cleuza Ramos da anni tenta di «togliere la favela dalla testa di chi ci vive». Aiutando la gente ad avere una casa, ma soprattutto a riconquistare la dignità. Come? Attraverso la bellezza, che soprattutto per una donna vuol dire aver cura del proprio corpo, dei capelli, degli abiti. Potersi esprimere attraverso la musica, il canto. O la pittura. È proprio in un corso di questi, in uno dei locali comuni del quartiere, che Mariella (insegnante toscana) si imbatte, alcuni mesi fa, accompagnata da Cleuza: «Entro in questo stanzone», ci racconta. «Ci sono una dozzina di donne, stanno dipingendo. È evidente che sono molto povere. Do uno sguardo alle tele, sono molto belle, ma una, in particolare, mi incuriosisce. Mi avvicino: la bellezza del quadro stride con il contesto. “Fatti raccontare la sua storia”, mi dice Cleuza». Mariella si siede con discrezione accanto alla donna. Ha 50 anni ma ne dimostra molti di più. Da sempre una vita difficile, la sua: il marito è un uomo violento. Più volte ha pensato di lasciarlo, non l’ha fatto per i figli, poi per la possibilità di avere una casa. Sono 36, ormai, gli anni di matrimonio. Certe volte è davvero dura. L’incontro con i trabalhadores è un grande aiuto, ma è la proposta che le fa Cleuza a dare la svolta: «Vieni a dipingere tutte le volte che puoi».
Mariella - ci racconta - ascolta, ma sembra perplessa: «Quando ho visto che nelle case dei Memores Domini ognuno dedica del tempo al silenzio», le spiega Cleuza, «ho capito che in un momento difficile uno ha bisogno di tempo per sé: un’ora basta a sostenere le altre 23 della giornata. Lei aveva bisogno di un luogo così».
«Per dipingere ho dovuto guardarmi intorno», continua a raccontare la donna. «E mi sono accorta che ci sono cose bellissime. Prima vedevo solo la vita in casa mia. Quando ho visto che ero in grado di dipingere, l’ho capito: anche io ero una cosa bellissima».
La svolta è arrivata lì: «La violenza di mio marito non è più arrivata in fondo a me stessa. Ho smesso di essere le botte che prendevo».
Un giorno porta a casa una delle sue tele e la appende al muro. «Dove hai comprato questo quadro?», le chiede il marito. «L’ho fatto io», risponde. Da quella sera il marito non ha più alzato le mani su di lei. «Mi ha guardata in faccia per la prima volta».
Altri quadri sono stati appesi in quella casa. E i muri non sono più scrostati. Sono bianchi.