Don Emilio Bellani.

«Quando tutto sembra perduto»

Nelle stesse strade dove seppelisce ragazzini, lo spettacolo della gente che canta. E «la forza miracolosa» delle madri che vivono nell'attesa che "tocchi" al figlio. Un missionario ci racconta la sua parrocchia in Brasile. E i suoi «giorni più belli»..
don Emilio Bellani

«Stanotte sono rientrato alla una e mezza!». «Perchè?», gli chiedo. Ignazio, l'amico prete che è qui a Salvador de Bahia con me, risponde assonnato: «Stavo rientrando tardi dalla città quando ho visto una grande folla assiepata al bordo della strada, ho spento il motore e sono sceso. C'era un ragazzino di 14 anni morto. Abitava qua da pochi giorni e lo hanno ammazzato. Ho aiutato la polizia a caricarlo sul furgone perché tutti guardano e nessuno muove un dito. Ho seguito i suoi fino all’ospedale. Là, la mamma è uscita da una sala e ha detto soltanto: «Non soffre piú e io ora ritorno libera»

Cari amici, mettevo mano a queste prime righe per dirvi dell’ennesimo ragazzino fatto fuori in questo mese dal giro della droga. E per raccontarvi soprattutto di certe madri e della miracolosa forza che le fa vivere, quando ogni giornata sembra solo prolungare la cupa attesa del "loro" momento, della "loro" ora. «Quando toccherà al mio?», si chiedono.
Erano le due di un pomeriggio pieno di sole e di vento. Smetto scrivere, prendo la mia macchina (una Kia Picanto rosso sangue di Cristo, che sento oramai come prolungamento del mio corpo) ed esco in fretta per incontrare un paio di famiglie che abitano al lato opposto del quartiere. D’improvviso la strada mi appare colma di gente, persone di tutte le età. «Strano a quest’ora», mi dico. Penso ad una manifestazione come quella che al mattino aveva bloccato la strada che porta dal suburbio alla città: mezzo milione di persone. La gente, a grappoli sui marciapiedi e perfino sui tetti, sembra tutta indicare un punto lassù, sul fianco della collina piena di casupole. Allora freno e abbasso il finestrino, mi guardano tutti con una specie di sorriso che ho imparato a riconoscere. Ho capito. Ieri notte era toccato a don Ignazio, oggi tocca a me. Prendo la strada che s'inerpica, tutti sono fuori dalle loro case.
L’ultimo tratto, dove l’asfalto lascia il posto al terriccio, è pieno di polizia. Ho con me l’aspersorio, chiedo e mi fanno passare. Henrique, vent’anni, è riverso a terra, in cima alla lunga scalinata scavata nella terra. È lì col volto disfatto nel sangue che contrasta con l’azzurro del mare là in basso. Gli mancavano due, tre gradini e forse trovava riparo nella casa che cercava disperatamente di raggiungere. Sua madre, sostenuta da donne amiche, grida una lunga litania contro tutto e tutti. La nonna mi accoglie in casa, mi invita a sedere sul vecchio divano e mi racconta che il nipote, dopo un periodo di prigione, era andato a trovarla a quell’ora, del tutto inaspettatamente, e non cessava di stringerla a sè e baciarla. Ma quando poi lui stava uscendo, lei si si è accorta di tre giovani che arrivavano in fretta, passando a volto scoperto proprio davanti alla sua casa. Gli hanno teso una trappola. La vecchia mi invita ad uscire e dal terrazzo mi indica da dove vengono i tre «senza timore e senza pietà». Io sento un brivido: li conosco.

Mi sono rimesso a scrivere stamattina, aspettando lo squillo che mi invita al cimitero per l’enterro, cioè la sepoltura. Avevo discusso l’altra sera con don Ignazio - la domenica sera ceniamo insieme per giudicare la settimana e la nostra vita - della processione che c'era stata. Tra le stradine della favela aveva partecipato un bel po' di gente, per festeggiare la nostra parrocchia che è dedicata a Cristo risorto. Gli dicevo che al pomeriggio, attraversando in lungo e in largo la nostra area, mi si era stretto il cuore nel vedere le migliaia di persone, soprattutto giovani, che neppure vengono sfiorati dalle "nostre cose di Chiesa". «Siamo proprio un pugno di gente, un piccolo resto...», gli ripetevo. Ma, alla luce degli ultimi eventi che hanno dipinto tanto terrore sul volto di molti, ci è sempre piú chiaro quanta speranza contenga il piccolo luogo che il Signore sta edificando con noi e per mezzo di noi. Siamo in pochi ed io gli chiedo sempre un po' della Sua fantasia, o della fantasia dei Suoi santi che, con il loro traboccare, per arrivare al cuore di ogni uomo, le hanno inventate tutte, ma proprio tutte. Siamo in pochi da queste parti, ma che grazia ci è donata, quale fortuna immeritata!

L’ultima volta che sono uscito in canoa (non pensate agli antichi missionari che risalivano il corso dei fiumi per battezzare tribù semisconosciute, lo faccio di tanto in tanto solo per prendere un po’ di fresco e muovere un poco i muscoli), là dove l’acqua si faceva più bassa ho incontrato Maria, una di quelle madri che di recente hanno pianto la propria disperazione. Dopo la tempesta di un figlio ammazzato nel bar, davanti agli occhi di tutti, era tornata tranquilla al proprio lavoro, a cercare del marisco, i molluschi, nelle ore in cui il mare si abbassa. «Padre! - mi chiama sorridendo per avermi incontrato in tenuta inedita - non è vero quello che tutti mi hanno detto, che il tempo che passa guarisce! Per me ogni giorno che passa il male è più forte». Abbiamo detto insieme un'Ave Maria e sono ripartito. Di fronte a creature così concrete e sanguinanti capisci che il prete ha ricevuto da Dio una missione che solo Dio però potrebbe compiere perfettamente.

Comunque, la processione di domenica è stata davvero bella, bella come certi gesti di pietà popolare. E bisognerebbe essere un po’ scemi, secondo me, per buttare alle ortiche queste cose seminate e cresciute con l’esperienza e l’intelligenza di molti prima di noi. Il sole picchiava forte, di mattina, e sotto la pineta bianca ero una fontana. L’altoparlante all'ultimo minuto si era rotto, allora salivo e scendevo dai gradini delle case, correndo un poco avanti, per gridare ai quattro venti le varie orazioni e suggerire le parole dei canti. La gente, sudatissima, cercava coni di ombra quasi impossibili. Sul più bello, mentre predico ad un crocicchio, mi passano sotto il naso tre cavalli e così la distrazione raggiunge il colmo. I mortaretti che un giovane deve lanciare nel cielo fanno il botto quasi sempre quando non lo devono fare. Ma la gente canta, canta che si sente di lontano, prega e cammina felice. Uno spettacolo. Come quello del Venerdì Santo, la Via Crucis cominciata alle sei del mattino e terminata dopo le nove, per le strade e i vicoli della favela. Il gruppetto iniziale, una quindicina di persone, è andato via via crescendo. Davanti al campo di calcio, uno degli innumerevoli campetti, giovani e adulti si fermano rispettosi al passare della Croce. Le ante delle finestre a volte si aprono ed appaiono facce piene di sonno. Davanti alla porta di casa qualcuno butta lì un segno di croce o canticchia qualcosa con noi. Se non passiamo noi, quel giorno, nessuno ricorda quell’Uomo! È solo un istante, ma può essere pieno di cose belle, come quello di Pietro che incrocia lo sguardo di Gesù che lui ha tradito: ad un tratto, nell’istante in cui tutto sembra perduto, tutto invece è salvato. Il Venerdì Santo, qui, è giorno di grande baldoria: alle otto si accendono i primi fuochi per il churrasco, la grigliata, alle nove comincia la musica per le strade e a mezzogiorno cominciano a cadere sulla strada le prime vittime della birra e del vino. Al vino non ci sono abituati, si va tutto l’anno di birra, ed è pessimo vino, lo dico perché te lo offrono e non puoi dirgli sempre di no. Mi spiegano che un tempo, quello, era l’unico giorno di libertà che i signori concedevano alla servitù nera, lo si festeggia ancora oggi con tutta la sregolatezza possibile.

Per la birra e la cachacha, il rum, lo stillicidio è quotidiano, non si deve attendere la Settimana Santa, anche se il bilancio si aggrava tra il venerdi sera e il lunedì. Ma per noi preti sono forse quelli i giorni più belli. La domenica per esempio. Fatte salve le sante Messe, camminiamo ore e ore per le strade, incontriamo la nostra gente. I piccoli cortili si affollano e, intorno ai tavoli, vedi finalmente i padri che poi si dileguano durante la settimana, per lavoro o per altri affari, lasciando alle madri tutto il peso della casa. Gli uomini possono fare tre cose: o già bevono, stravaccati sulle panche, o di nuovo lavorano, per sistemare un pezzo di casa, mettere pietre al posto del compensato, aprire una finestrella nella parete, alzarsi di un piano, collocare un tetto vero, o vanno in pantaloncini e canottiera, scarpe in mano, verso un campo da calcio.
L’immersione domenicale ci ricorda che una parrocchia è, per dirla alla Bernanos, «forzatamente sporca». Voglio dirvelo con le parole del francese, se non vi stufate, messe in bocca ad un vecchio curato che descriveva la sua parrocchia di campagna al giovane prete ancora profumato di seminario. Parole che mi hanno fatto compagnia l’altra sera mentre cercavo di prendere sonno. «Caproni o pecore, il padrone vuole che gli rendiamo ogni bestia in buono stato. Non metterti in capo di impedire al caprone di puzzar di caprone, perderesti il tuo tempo, rischieresti di cadere nella disperazione». Non è rassegnazione. Mi accorgo che è realismo puro. Per me e per i miei parrocchiani. Tutti quei giovani davanti agli innumerevoli piccoli bar, così carnali, così bestiali. Quelle donne piene di birra. Uomini e donne che provocano, senza il più piccolo ritegno. Bambini con gli occhi sgranati, che assorbono e imparano in fretta. Ti vien voglia di combattere la sporcizia, ma ti accorgi che il volerla annientare non può essere della Chiesa. Avremo un bel darci da fare, ma non cambieremo questo mondo in altarino del Corpus Domini! «Un popolo di cristiani non è un popolo di colli torti. La Chiesa ha i nervi solidi, il peccato non le fa paura, al contrario. Lo guarda in faccia, tranquillamente, e persino, secondo l’esempio di nostro Signore, lo prende a proprio carico, se lo assume. Quando un buon operaio lavora come si conviene sei giorni della settimana, si può bene concedergli una ribotta, il sabato sera». Oddio, su chi lavora come e quando, in Salvador che è la città più festaiola del Brasile, ci sarebbe da dire. Ma la fatica e la sofferenza dei miei parrocchiani è lì tutta da vedere!

don Emilio Bellani, Salvador de Bahia