Il politologo Angelo Panebianco.

«L'antipolitica torni nello scantinato»

La sfiducia nei partiti e i finanziamenti pubblici. Il ritorno dei moralizzatori alla Grillo e la crisi economica, che è «il fattore determinante» dell'insofferenza di oggi. Angelo Panebianco spiega che cosa serve all'Italia per riprendersi
Ubaldo Casotto

«Sentimenti antipolitici virulenti» con «aspetti minacciosi per la democrazia» cui è bene «dare risposte plausibili» per far riprecipitare l’antipolitica «in quei bui e un po' maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde». Il professor Angelo Panebianco non dissimula il suo pensiero, e in due editoriali del Corriere della Sera (uno del 16 l’altro del 24 aprile) ha fatto con disincanto la diagnosi dei sintomi della malattia della politica italiana, e prospettato una cura.

Indignazione e inefficienza. Lo scandalo per la corruzione e l’accusa di non saper risolvere i problemi. Questi, per lei, i due alimenti dell’antipolitica. Perché non le piace chi usa la retorica della moralità, della trasparenza?
L’antipolitica è un sentimento diffuso, non sta solo nei movimenti attivi che fanno i moralizzatori, sta anche nell’atteggiamento di chi denuncia l’incapacità dei politici. L’inefficienza è tema cruciale, se non ci fosse questa sensazione non si spiegherebbe l’iniziale popolarità del Governo Monti, nei confronti del quale il primo pensiero è stato: «Questi sanno come si fa». Moralizzatori sono Grillo e Di Pietro, ma non è questa l’unica componente del diffuso sentimento di antipolitica, gli elementi sono molteplici. Il fattore unificante è che quasi tutti sbocciano nel rifiuto della democrazia rappresentativa.

L’antipolitica può essere levatrice di un cambiamento? Lo è stata, ad esempio, nel 1992? A loro modo non l’hanno cavalcata pure Bossi e Berlusconi?
Fattore di sommovimento? Sì e no. Nel 1992 crollava un regime a seguito di una degenerazione del sistema dei partiti, delle inchieste della magistratura, e delle notizie di arresti che quotidianamente giornali e televisioni diffondevano. Il risentimento leghista verso "Roma ladrona" era alimentato anche da questo clima, ma quello di Bossi era un progetto politico preciso: difendere gli interessi del Nord.

Oggi non vede un ritorno di quel clima?
No. Non da parte della magistratura almeno, non mi sembra questo l’intento dell’azione di alcune Procure. Oggi il fattore determinante è il momento di grande difficoltà economica che sta attraversando il Paese, di fronte al quale corruzione e inefficienza alimentano un sentimento generalizzato di sfiducia nei confronti della politica.

E la campagna mediatica anti-casta?
Fa parte anch’essa di questo movimento. Anche se bisogna distinguere, e valutare di volta in volta quanto siano documentate le inchieste. Spesso non lo sono. Ma, ad esempio, nel caso del finanziamento pubblico ai partiti, c’è poco da discutere: il finto rimborso che rimborso non è, è frutto di quanto i partiti stessi hanno deciso. È andato avanti per anni, poi, quando si scoperchiano le pentole, monta inevitabile l’ostilità. Che è un tratto latente del rapporto paradossale che l’italiano ha con la politica: ne parla continuamente, si appassiona, quasi ne vive, e nello stesso tempo la disprezza. L’antipolitica è sempre sotto traccia e ogni tanto riemerge, quando non si palesa ci si illude, ma è sempre lì. In momenti, poi, di grande difficoltà come quello che stiamo vivendo a livello internazionale, si manifesta anche in altri Paesi che con la politica hanno rapporti più normali del nostro.

Quale ne è la conseguenza più pericolosa?
Il rifiuto della mediazione, che nelle democrazie rappresentative è fatto centrale. Nei momenti di crisi emergono allora politici - perché sono figure politiche anche loro - che promettono di tagliare il nodo delle difficoltà con quattro colpi ben assestati. Quello democratico-rappresentativo è un sistema complesso, di difficile funzionamento, in situazioni come quella che stiamo attraversando i semplificatori hanno presa facile sull’opinione pubblica.

Ha fatto l’esempio del finanziamento pubblico ai partiti. Cosa pensa della proposta del segretario del Pdl, Angelino Alfano, di una sorta di otto per mille politico in cui siano direttamente i cittadini a sostenere i partiti?
Penso che quella del finanziamento privato sia l’unica strada. Certo, fissando dei limiti, che se no dicono che si consegna la politica alle lobby. Ma questo sistema permetterebbe di stabilire con riscontro certo quanto una proposta politica sia socialmente accettata. Se nessuno pensa di dare del suo a un partito, qualcosa vorrà dire. Il finanziamento privato è un sintomo reale e concreto di partecipazione democratica. La sua demonizzazione mi pare sciocca e legata a visioni antiche della politica e anche un po’ ipocrite.

Il finanziamento pubblico ai partiti dovrebbe dunque sparire?
Come passaggio di denaro, sì. Può restare come erogazione di servizi, sedi, facilitazioni. Il confluire di soldi pubblici in mani ben precise, le tesorerie dei partiti, favorisce la creazione di centri di potere che poi vengono usati, come si è visto, anche per la lotta politica interna ai partiti. Meglio disincentivare.

Più che riformare i partiti, però, lei propone di riformare le istituzioni; il cambiamento dei partiti, come l’intendenza, seguirà. In Italia (e in democrazia), dice, servono governi forti e stabili in grado di poter fare le riforme. Non pensa che le resistenze a un potere politico messo nelle condizioni di decidere siano più nella cosiddetta società civile che nella politica?
La resistenza ai Governi forti è dappertutto. Con istituzioni deboli è inevitabile l’uso del potere di veto, che può essere posto da tanti centri di potere sparsi, più o meno grandi più o meno forti, dentro e fuori la politica. In Italia, il potere di veto è prerogativa di molti, e se non riesci a farlo passare attraverso l’amministrazione lo fai passare attraverso il Parlamento… Il Governo che voglia intervenire in un settore non riesce a farlo perché viene bloccato dai vari poteri di veto. Mentre un governo deve poter essere più forte di questo immobilismo. Non è detto che il Governo agisca sempre bene, può fare disastri, ma deve essere in grado di agire, e sottomettere la sua azione al giudizio dei cittadini, che possono sempre cacciarlo alle elezioni successive. Ma se il Governo diventa un potere forte, contestualmente gli altri poteri si indeboliscono. In questa nuova situazione i partiti si adegueranno, perché i partiti si strutturano a seconda di come sono fatte le istituzioni. E l’antipolitica tornerà a nascondersi.