Il punto sorgivo della gratuità

La Pagina uno di "Tracce" di giugno. Gli appunti dall'assemblea con l'associazione Famiglie per l'Accoglienza. Milano, 19 maggio 2012 (PDF e EPUB)
Julián Carrón

Marco Mazzi. Cari amici, eccoci a questo momento così centrale della nostra storia. Proprio ieri, il 18 maggio del 1982, qui a Milano veniva costituita l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza. E trent’anni sono un bel pezzo di cammino, centinaia di gesti, di storie, di persone accolte e di testimoni, di tentativi, di dolori e di miracoli. I nostri occhi sono pieni di fatti in cui la gratuità e l’accoglienza hanno sostenuto la conversione a cui siamo stati richiamati anche recentemente: vivere la fede come un’esperienza.
Ringraziamo innanzitutto don Julián Carrón di essere qui. È dal cuore di don Giussani che questa storia è nata e sotto la sua paternità ha approfondito la coscienza del suo valore, ha camminato e ora, nell’appartenenza al carisma del movimento e nella sequela di chi lo guida, le nostre persone continuano a trovare vigore e luce. Per questo oggi vuole essere un momento di paragone, in cui essere corretti e rilanciati.

Intervento. Sono una figlia affidataria. Dopo l’affido con mio fratello, liti e caos con genitori affidatari e assistenti sociali, a diciotto anni ottengo di tornare dalla mia mamma, dove penso che sarò finalmente libera di fare tutto ciò che voglio. Passato qualche anno, però, qualcosa non va: sono allo sbando e smarrita, non voglio parlare con gli altri, piango e mi chiedo: qualcuno mi sente lassù? A ventidue anni i miei genitori affidatari mi propongono di partecipare a un filmato per raccontare dell’esperienza di affido condivisa con mio fratello. Davanti alle telecamere piango. Il regista e la mia famiglia affidataria mi pongono mille domande: «Qual è la tua casa? Qual è il tuo punto di riferimento, il tuo punto di bene?». Che rompiscatole quel regista! Sono io la mia baracca, non ho bisogno di altri. Dopo circa un anno il filmato viene montato e proiettato. Dopo il film ho fatto testimonianze un po’ ovunque e lì ho conosciuto veramente i volti di Famiglie per l’Accoglienza. Molti mi dicevano quanto fossi brava, ma in realtà io imparavo da loro.
Da questi incontri la mia vita è cambiata tanto e piano piano ho recuperato tutta la mia storia. Sono tornata in casa con i miei genitori affidatari. Nella mia camera ci sono un sacco di libri di don Giussani, fra i quali Il miracolo dell’ospitalità (Piemme, Milano 2012). Io non conoscevo alcunché di Comunione e liberazione, ma questo libro mi ha incuriosito, soprattutto perché volevo sapere che cosa ha mosso i miei genitori affidatari e le persone di Famiglie per l’Accoglienza che ho incontrato. Quando ho letto il libro mi è sembrato fuori dalla mia ragione, perché io non riuscirei a essere così accogliente, distaccata dall’esito, così libera, tanto che alla fine ero commossa. Intanto porto la mia testimonianza in Italia e all’estero; dalle persone che mi accolgono e pongono domande imparo tanto, un altro stile di vita: ho sete di umano e di capire meglio cosa le muove e le rende così felici e sorridenti. Chiedo alle famiglie accoglienti di raccontarmi la loro esperienza, ancora oggi le ricordo tutte, non per il loro nome, ma per il loro sorriso e le loro storie commoventi.
Finalmente mi fido del mondo, c’è qualcuno che colma il mio assoluto bisogno di fiducia, e rivaluto anche la mia storia. Sono andata persino a Vilnius, così lontana e diversa da noi, dove non sapevo cosa fosse giusto dire. Lì vado anche a messa: dopo anni di rabbia e chiusura sono incuriosita e ho voglia di condividere anche questo momento con i miei nuovi amici della Lituania. Mi spiegano che è la festa dell’accoglienza, in cui Giovanni viene affidato alla Madonna da Gesù. Lo scorso novembre mi viene chiesto di portare la mia testimonianza anche al seminario nazionale di Famiglie per l’Accoglienza. Vorrei che tutti conoscessero il bene che ho ricevuto per condividerlo. Spinta da questa volontà, pongo una domanda che mi sta particolarmente a cuore: in quale modo è possibile diffondere e trasmettere questo bene?

Julián Carrón. Se guardi la tua esperienza, come risponderesti alla domanda che hai fatto? Come trasmetti tu questo bene che hai ricevuto?

Intervento. Avevo fatto questa domanda a quel seminario e un amico mi aveva detto: «Ci vogliono degli incontri, delle testimonianze; anche con piccoli passi». Appena ho finito di parlare c’era una fila di gente che mi chiedeva il numero, il nome per andare a testimoniare, anche se in realtà io non ho mai accolto nessuno.

Carrón. Se noi guardiamo quello che raccontiamo della nostra esperienza e quello che succede in noi, subito identifichiamo la strada. Hai detto che non ti ricordi i nomi delle persone, ma ti ricordi del loro sorriso. E nel loro sorriso tu avevi identificato tutto, si è trasmessa a te la loro esperienza attraverso una modalità semplicissima, facilissima da cogliere in qualunque situazione, in qualunque cultura, in qualunque posizione dell’uomo, perché il sorriso è il primo comunicarsi dell’esperienza, tanto che ti ha affascinato.
Allora, come si comunica? Come ci ha insegnato don Giussani: il contenuto e il metodo coincidono. Non è che prima ti hanno spiegato le cose e poi ti hanno sorriso; non il contenuto, da una parte, e poi il gesto, da un’altra. Nello stesso gesto del sorriso, che è quello che ti è rimasto in mente e che ti ha plasmata, ti si è comunicato qualcosa. Così adesso tu lo comunichi. Non occorre fare altro che continuare a vivere un’esperienza in cui tutta la vita, il tuo essere, si comunica attraverso quello che tu sei. Come tu vivi il reale, come tu ti alzi al mattino, come tu affronti il rapporto con le persone, si comunica attraverso il tuo sorriso. Se non sorridi, anche se racconti cose bellissime, non sarà interessante, né per te né per gli altri, come non sarebbe stato interessante per te quello che avevi sentito.

Intervento. Da trent’anni anch’io sono dentro a questa storia e, sicuramente colpita dalla sua freschezza, credo che anche dentro la nostra storia e la mia personale la stessa freschezza si sta rinnovando. Infatti io sono appassionata alla mia vita e alla vita dei miei amici, e in questi anni abbiamo lavorato per questa passione che ci ha mosso. Credo che la cosa che abbiamo più in comune è l’incontro con persone mosse - me per prima - dal desiderio dell’accoglienza (o per una sovrabbondanza, perché uno ha tanto da dare, o per un dolore, perché uno ha tanto da cercare). Ci siamo sempre interrogati, siamo sempre stati di fronte a questa domanda. A volte con la tentazione di supplire a quella domanda, di rispondere a quella domanda attraverso una competenza acquisita, attraverso una nostra capacità. Ma io chi sono per rispondere a una domanda che altri hanno? La realtà a cui ci hai educato, a cui il don Gius ci ha educato, per fortuna ci riporta sempre nella posizione giusta. Perché è chiaro che l’Associazione non è nata per sostituirsi alla domanda, ma per sostenere e accompagnare questa sfida della vita. In questo è affascinante.
Attraverso l’esperienza che abbiamo fatto, abbiamo visto anche che tantissimi, partendo dalla domanda vera dell’accoglienza, arrivano alla domanda più radicale, incontrano l’esperienza della fede, e questa è l’altra cosa bellissima, consolante, perché la domanda è più profonda di quello che io vedo, e insieme ci aiutiamo a rispondere. Però, proprio perché siamo seri, non possiamo non fare un lavoro sui dati della realtà, sulla specificità dell’accoglienza, e su questo l’Associazione è cresciuta, e tanto; abbiamo assunto proprio un impeto e una profondità di lavoro. È la stessa serietà con cui vivo il mio lavoro di medico, di madre, di nonna... Ha la stessa importanza e deve avere la stessa forma. Come dicevi a Pacengo: un’opera è un’opera, non è un gioco. C’è in noi il rischio di una riduzione caratterizzata da un bastarsi, e questa è la prima questione. L’altra è, appunto, l’appartenenza, in questo senso: io appartengo oppure mi basto, io appartengo oppure faccio fatica a stare con quelli con cui devo condividere una strada. Che cosa ci aiuta a rinnovare la coscienza dell’appartenenza, che non elimina la responsabilità e la libertà?

Carrón. Che ciascuno sia leale con il proprio io, perché il Mistero ci ha fatti così bene che uno, come ha testimoniato il primo intervento, può andare via di casa, ma trova nella sua esperienza qualcosa che non torna. In qualsiasi tentativo umano tutto quello che proviamo a fare ha come scopo - ci dice don Giussani - rispondere al nostro senso religioso, al nostro bisogno. È inevitabile che noi cerchiamo di rispondere a questo bisogno, ma è altrettanto inevitabile che nel tentativo di rispondere ci accorgiamo con evidenza se il nostro tentativo ci basta o non ci basta. È inevitabile, non dobbiamo aggiungere qualcosa. La nostra amica semplicemente ha provato a vivere la vita via di casa, perché pensava che questo tentativo fosse più adeguato per compiere la sua esigenza. Ma subito ha emesso il giudizio: era smarrita. Non occorre un qualche tipo di genialità, ma semplicemente questa lealtà; ciascuno di noi lo può riconoscere in ogni tentativo che fa. Allora, che cosa ci aiuta a non soccombere a questo bastarsi? Incominciare a guardare l’appartenenza non come qualcosa da cui difendersi, ma come un bene, un bene! Se noi non percepiamo l’altro come un bene, allora dall’altro ci difendiamo; ma per percepirlo come un bene non basta fare il proposito («Adesso devo convincermi che è un bene»), ciò che ci facilita il riconoscerlo come un bene è semplicemente la consapevolezza del nostro bisogno, perché qualsiasi altro tentativo che facciamo non corrisponde a tutta la nostra esigenza. Come lei, non è bastonata, non ha fatto penitenza, no; semplicemente, a un certo momento, ha riconosciuto che era più conveniente per lei tornare che fare i cavoli propri. Come il figliol prodigo. Nessuno ha dovuto usargli violenza; semplicemente, dalle viscere della propria esperienza, nasce - se uno è leale - un bisogno così potente da fare ritornare a casa. Ed è quello che fa appartenere. Possiamo vivere l’appartenenza formalmente (e allora apparteniamo, ma, in fondo, quasi soffocando), oppure possiamo appartenere con la consapevolezza che l’appartenenza è una liberazione, è il bene più grande, e allora non ci difendiamo dall’appartenere, ma siamo grati di avere una casa a cui appartenere.

Intervento. Nel terzo capitolo di All’origine della pretesa cristiana don Giussani dice: «Non è più centrale lo sforzo di una intelligenza e di una volontà costruttiva, di una faticata fantasia, di un complicato moralismo: ma la semplicità di un riconoscimento; un atteggiamento analogo a chi, vedendo arrivare un amico, lo individua tra gli altri e lo saluta» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 35). Dentro questa analogia l’esperienza più bella ed esplicativa di questo capovolgimento di metodo è ciò che a me e mia moglie è capitato e continua a capitare nell’esperienza di accoglienza che stiamo facendo. Guardare alla nostra storia è guardare a come è possibile il rapporto con il mistero della vita, mistero che è entrato nella nostra casa. Ho due figli: il primo di dieci anni, adottato, e la seconda naturale, di cinque. Sono arrivati ciascuno attraverso storie e circostanze particolari, del tutto diverse rispetto a quella volontà costruttiva che avevamo quando ci siamo sposati nell’immaginare come si sarebbe potuta sviluppare e realizzare la nostra vita matrimoniale, la nostra vocazione. Non stiamo tracciando noi la strada, ma è il Mistero che ha visitato e visita la nostra casa attraverso i nostri figli. Innanzitutto perché ci sono. Un giorno mio figlio è esploso dicendomi: «Prova te ad essere adottato. Cosa credi? Io ci penso tutti i giorni: ma perché è capitato a me?». E ho capito che una ferita così non si potrà mai mettere a posto, ma potrà essere solo abbracciata. Questo episodio mi ha messo con le spalle al muro, costringendomi a stare di fronte all’evidenza che né io sono la soluzione alla drammaticità della vita di mio figlio né lui della mia, e che la sua dignità è definita non da quello che gli è capitato, lui è molto di più, è definito dal rapporto con il Mistero che lo ha voluto, e lo stesso vale per me.
Insieme a mia moglie ci troviamo a fare compagnia ad altre famiglie, e proprio a partire dalla provocazione di mio figlio ti vorrei chiedere un aiuto. Mi sembra importante che le domande che sorgono percorrendo questa strada non vengano sbrigativamente chiuse cercando che cosa sia meglio fare, ma siano lasciate aperte. A volte questo accade nei confronti di psicologi o tecnici a cui giustamente ci si rivolge per trovare la modalità più adeguata per affrontare particolari situazioni, però si rischia di demandare la scoperta del significato di quello che accade e che non riusciamo a comprendere. Che cosa vuol dire non ridurre la fame e la sete di cui parlavi agli Esercizi della Fraternità, non anestetizzare l’esperienza del dolore o dell’insuccesso?

Carrón. Che cosa vi facilita a non ridurre? Che un figlio ti domandi: «Ma perché è capitato a me?». Prova a mandarlo da qualche esperto per rispondere a questa domanda... La domanda che sorge dalle viscere dell’essere è questa. A questa domanda non possiamo rispondere semplicemente con qualche istruzione per l’uso; occorre che ci immedesimiamo, che gli facciamo compagnia in questa sua esperienza. Ascoltando questa domanda, mi chiedevo: che differenza c’è tra lui e me (che non sono stato adottato)? Sta davanti allo stesso dramma mio, che è accogliere un Altro che mi ha fatto. Non è diverso. Per abbracciare me stesso io devo accogliere un Altro, lasciarmi abbracciare da un Altro. Questo bisogno l’abbiamo tutti, e la vera lotta, il vero dramma non è il fatto di essere adottati o meno; il vero dramma è che ciascuno di noi deve fare i conti, deve rispondere ogni giorno, ogni istante a questa domanda, perché l’alternativa è tra l’autosufficienza e l’essere accolti, l’essere abbracciati. E siccome tante volte noi, per la nostra cultura e per la nostra testardaggine e stupidaggine, pensiamo che sarebbe meglio l’autosufficienza - perché tutti abbiamo la tentazione di tagliare i vincoli, ci illudiamo che saremmo più noi stessi se non dipendessimo -, dobbiamo approfondire la nostra esperienza.
Per entrare in rapporto con la domanda dei nostri figli, non ce la possiamo cavare semplicemente con qualche istruzione, bensì condividendo fino in fondo questo dramma. Lì emerge qual è la nostra difficoltà e la sua. Perché lui può usare questa situazione per dire di no (quasi cercando una giustificazione nel fatto di essere stato adottato). Ma noi, quando diciamo no, perché lo diciamo? Tante volte i nostri figli o le persone che hanno subìto una ferita forte pensano che questo gli possa risparmiare il dramma del vivere, il dramma di dover decidere di fronte al Mistero ultimo dell’essere. E noi glielo possiamo risparmiare con qualche tecnica? Tante volte mi trovo a dire: «Guarda, a me non è capitato quello che è capitato a te, ma io ho lo stesso identico dramma tuo: lasciarmi abbracciare, adesso, da un Altro». Infatti qual è il pericolo? Identificare tutto il dramma del vivere con quella ferita. No! Io non ho avuto quella ferita, ma ho lo stesso dramma tuo! Se non li aiutiamo a fare questo passo, tutta la loro insofferenza è legata soltanto a questo aspetto particolare. Non è vero, non è vero, perché noi - che non abbiamo subìto questo - siamo davanti allo stesso dramma, e a noi non lo può risolvere nessuno, nessun tecnico: è il mistero dell’io, che non può essere ridotto - come vediamo - perché il dramma di ciascuno di noi, per il fatto di essere uomini, è rispondere a questo.
Di recente ho preso un taxi a Milano (succede poche volte) e mi è capitato un tassista “teologo”. Stava leggendo un libro di teologia, e allora abbiamo fatto tutto il percorso parlando di queste cose. E a un certo momento, abbiamo incominciato a parlare della libertà: era scandalizzato che succedessero certe cose perché Dio aveva dato la libertà all’essere umano. E io gli dico: «Ma lei preferisce avere una moglie che le voglia bene liberamente oppure che le voglia bene meccanicamente per non correre rischi?». «Preferisco una che mi voglia bene liberamente». «E pensa che Dio abbia meno gusto di lei?». Cioè: il Mistero avrebbe potuto generare altri passeri che cantassero diversamente o altri cani che abbaiassero diversamente, ma questo è totalmente diverso dal creare un uomo che Gli dica liberamente di sì. Per questo il Mistero ha generato un essere correndo il rischio della sua libertà, perché il sì di un essere umano vale tutto l’universo, così come un istante di amore libero della moglie vale tutto l’universo. Altro che un sì meccanico! Se non capiamo questo, pensiamo che il dramma, che è la cosa più bella dell’esistenza (poter dire di sì a Cristo, poter dire di sì alla persona che ami, poter dire di sì a tuo figlio o a tuo padre), in fondo sia qualcosa che sarebbe meglio risparmiarsi. E i nostri ragazzi hanno questa mentalità. Se noi non li aiutiamo a capire che il dramma è la cosa più bella che ci sia e che un figlio non è definito dalla sua storia, dalla sua ferita, ma che adesso, qualsiasi cosa sia successa, in questo istante, può dare del tu al Mistero, può dire a una ragazza di cui s’innamora che le vuole bene (nessuna ferita glielo può impedire e nessuna non ferita glielo può risparmiare), noi riduciamo la domanda. Ma ridurre la domanda, ridurre il dramma, significherebbe costruire un mondo dove forse non ci sarebbe il male che tante volte ci spaventa e ci fa soffrire, ma sarebbe un mondo assolutamente soffocante, senza la possibilità di dire, anche piangendo, pieni del dolore della propria incapacità: «Ti voglio bene» (perché uno sa l’inadeguatezza di quello che dice rispetto a quello che riesce a fare), quasi supplicando di poterlo dire, perché quando uno lo dice con tutta la consapevolezza della sua incapacità non lo può dire se non come una supplica: «Io vorrei volerti bene come ti ama Dio». Allora la questione è come introdurre i figli al mistero del vivere.

Intervento. Io e mia moglie siamo sposati da cinque anni. Appena sposati desideravamo che la nostra famiglia si allargasse, e quindi da subito abbiamo cercato dei figli, che però non arrivavano. Mia moglie ne soffriva. Allora io le proposi di fare una novena a san Riccardo Pampuri per chiedere il dono di un figlio. Una sera, dopo una delle solite cene con nostri amici carissimi, mentre prendevamo il caffè sul divano, ci dicono: «Ci sarebbe una bambina di due anni e mezzo da accogliere il sabato e forse anche la domenica. Cosa dite?». Ricordo lo stupore per quella proposta inaspettata, perché noi pensavamo che prima di accogliere qualcuno bisognasse essere degli esperti, cioè bisognasse prima avere qualche figlio proprio, avere imparato come si fa, mentre noi eravamo sposati da appena sei mesi. In realtà, per accogliere bisogna semplicemente aver sperimentato questo abbraccio su di sé, ed era quello che ci stava accadendo nell’amicizia. Per cui abbiamo detto di sì. Tra l’altro, quella sera, mentre tornavamo a casa, ci siamo ricordati che avevamo finito da poco la novena e ci è venuto da sorridere e da commuoverci perché quella era la risposta a quello che avevamo chiesto, anche se non era come ce la immaginavamo noi. E così abbiamo iniziato a diventare padre e madre non con un nostro figlio naturale. Quell’esperienza di accoglienza aveva portato del bene nella nostra famiglia, e quindi abbiamo deciso di continuare a lasciare aperta la porta di casa, e siccome abitavamo in una casa molto piccola, abbiamo deciso di passare in un’altra dove ci fosse la possibilità di accogliere qualcuno in maniera stabile. Mentre stavamo traslocando ci è arrivata la segnalazione per accogliere un ragazzo di diciannove anni, che ci ha aiutato a fare il trasloco. Vive ancora con noi. Dopo quattro mesi dal suo arrivo, era girata una segnalazione per un bambino di otto anni, tetraplegico dalla nascita. Noi in quel periodo eravamo molto attenti alle segnalazioni, però quando è girata quella segnalazione l’abbiamo lasciata un po’ passare: «Non tocca a noi». Dopo alcuni giorni gira di nuovo la segnalazione. Così abbiamo detto di sì. E quel bimbo è arrivato a casa nostra (che nel frattempo avevamo nuovamente cambiato per trovare una casa con una stanza anche per lui). A chi ci chiede come abbiamo fatto a decidere di dire di sì rispondiamo che abbiamo ceduto ogni volta a un’evidenza: che quello che accadeva era un bene per noi. Il centuplo non è uno scherzo, ma è qui e ora, perché il 3 dicembre dello scorso anno è nato il nostro primo figlio naturale. Appena io e mia moglie abbiamo scoperto di aspettarlo, oltre ovviamente alla gratitudine, la cosa che ci siamo detti è che non sarebbe stato lo stesso se fosse arrivato subito, come avevamo pensato noi, ed è stato tutto centomila volte più bello di come avremmo immaginato.

Carrón. Grazie.

Intervento. Ti faccio una domanda su quest’ultimo intervento, perché il loro sì ha generato tanti altri sì intorno, come è accaduto spessissimo, cioè in fondo è un contagio di famiglia in famiglia. Che dimensione è questa della gratuità e dell’accoglienza? Dove si radica? Come permane? Qualche volta siamo capaci di ridurre anche questa! Come si diceva prima, può diventare una bravura. E poi un’altra cosa che mi sembra legata a questa. Tu ricordavi che la verginità è il rovesciamento del rapporto solito: non attraverso il creato arrivare a Dio, ma il primum, il preponderante, è Cristo in me, Cristo nella storia, Cristo nel mondo, il mistero del Regno di Dio. Il preponderante è questo, e attraverso questo uno vede tutto e tutto viene recuperato nell’unità che altrimenti non avrebbe.

Carrón. La cosa che può dare origine e mantenere questa dimensione di gratuità e di accoglienza è l’incontro cristiano, perché anche tutta la nostra pur naturale apertura, se non è costantemente ridestata, viene meno. Per questo non c’è altra modalità per capire qual è la natura di questa gratuità, di questa accoglienza, che ritornare costantemente a leggere il capitolo sulla carità del Si può vivere così? (Rizzoli, Milano 2007, pp. 321-351), perché lì abbiamo tutta la concezione e l’esperienza di come Dio ha fatto per comunicare la natura dell’Essere, la natura di questa gratuità. Tutto nasce, tutto ha un’origine in questa gratuità sterminata del Mistero. E come fa don Giussani a passare da questa gratuità del Mistero alla nostra gratuità? Questo è uno degli aspetti più belli di quel capitolo. Perché tante volte che cosa succede? Che uno dice: «Va bene, questo è quello che fa Dio. Adesso devo farlo io», come se la gratuità nascesse da un’altra origine, come se nascesse dal mio tentativo, dalla mia energia, dalla mia capacità. Ma don Giussani fa veramente un capolavoro, mostrando come la sovrabbondanza di questa comunicazione di Dio genera in noi un’esperienza così spettacolare da rendere anche noi capaci di questa gratuità. È soltanto sotto la pressione di questa commozione per quello che abbiamo ricevuto che possiamo avere uno sguardo pieno di gratuità e di accoglienza rispetto all’altro. Ma questo può essere ridotto a una lezione che uno impara e poi, alla fine, il punto di partenza non è l’esperienza di questo, bensì altro. Allora, se si sposta il punto sorgivo, si produce una sorta di dualismo: da una parte, dico la cosa giusta, ma poi il punto sorgivo del mio agire è altrove. E da che cosa si vede che il punto sorgivo è diverso? Dal fatto che non rimane, che ci stanchiamo. Perché noi non siamo in grado di generare questa gratuità. Noi diamo soltanto quel che riceviamo, quel che trabocca nel nostro cuore di ciò che il Mistero ci dona in continuazione. Per questo, senza essere radicati nell’esperienza cristiana, nella fede, nel riconoscimento di una Presenza eccezionale, che ci desta tutta la speranza, che ci riempie di questa commozione, di questa carità sterminata, prima o poi - come tante volte potete vedere nella vostra esperienza - nessuna cosa ci basta, nessuna cosa ci può fare riprendere. Ritornare a quel punto sorgivo: questa è la grande questione della vita. Noi possiamo fare un’esperienza del vivere che parte, in fondo, dal senso religioso, che parte da una mancanza, e allora anche nell’accoglienza cerchiamo la modalità di riempire questa mancanza. Vi dico in anticipo che questo non soltanto è sbagliato, è peggio che sbagliato, è inutile. Neanche se accogliete tutti i figli smarriti dell’universo potrete riempire il desiderio di infinito del vostro cuore. Tutto è piccino per la capacità dell’animo. Questo deve essere chiaro, perché altrimenti l’affido si riduce al tentativo di risolvere un problema personale non risolto. Non lo risolverete così, anzi, lo complicherete se non capite questo. Perché il punto non può essere che il figlio venga a riempire un buco, un vuoto. Non lo riempie, come non l’ha riempito il marito o la moglie e come non l’hanno riempito i figli naturali: non lo riempie nessuno, perché questa è la natura del nostro desiderio, questa è la natura della esigenza che ci troviamo addosso. Se non succede un’altra cosa, se non succede l’incontro con Colui che risponde, il punto di partenza, anche essendo cristiani (tutti noi qui siamo cristiani), torna a essere il senso religioso, cioè il nostro tentativo. E poi ci arrabbiamo perché non basta.
Ciò che invece può nascere dall’esperienza cristiana (quando il punto sorgivo è identico al fatto di Cristo) è - come dice sempre don Giussani - perché noi siamo su un pieno. Non mancava niente al Mistero quando ci ha creati: «Ma Io questa felicità che vivo nel Mistero trinitario, questa pienezza, desidero comunicarla a qualcuno». Il bene è per sua natura diffusivo di sé. Allora ha creato noi per poter condividere quella pienezza, quella sovrabbondanza di vita di pienezza che Lui viveva; ci ha fatti per questo. Ci ha fatti con questo desiderio sterminato proprio per riempirlo con questa Sua presenza e con questa Sua condivisione di quella pienezza. Allora è soltanto Lui che può riempire il desiderio, ed è soltanto se facciamo questa esperienza che possiamo vivere su un pieno e quindi rapportarci a tutto (anche all’affido) non perché ci manca qualcosa, ma per il desiderio di condividere anche noi con gli altri quello che abbiamo ricevuto. Ecco, questo è ciò che introduce la verginità nella storia. La verginità è questo: che Dio anticipa nella storia questa esperienza. Più mi rapporto al reale, più mi innamoro di una persona e più mi rendo consapevole che lei è assolutamente incapace di rispondere a quella promessa che suscita, e per questo mi sposo, perché è la grande possibilità che mi rimandi altrove, che mi rimandi al Mistero. Nessuno più del marito o della moglie ti ha sfidato così tanto, ti ha fatto una promessa così potente, e perciò ti ha fatto capire tutto il desiderio che hai di pienezza, e allo stesso tempo ti ha fatto capire che non è in grado di compierlo, lui o lei. Questo è il modo solito, dice Giussani: attraverso il marito o la moglie ti apri al Mistero. Ma Gesù ha introdotto nella storia un’altra strada. Ragazzi e ragazze che forse sono innamorati, hanno fidanzato o fidanzata, e si trovano addosso l’imponenza di una Presenza, la presenza di Cristo, che li riempie così tanto, che è così preponderante da far loro dire: «Questo è tutto». E allora sentono una libertà nel rapporto con l’altro, e dicono: «No, io a Lui do tutta la mia vita». La chiamata alla verginità è la forma che il Mistero usa per testimoniare a tutti che quello per cui siamo nati e per cui vale la pena sposarsi e avere figli e per cui vale la pena andare a lavorare è Cristo: Cristo è il preponderante che è in grado di riempire la vita. E quando uno vive così, non è perché ne sia capace, ma perché si impone il Mistero... Mi piacerebbe che tutti voi poteste vedere i ragazzi quando spunta in loro la possibilità della vocazione alla verginità: è l’esperienza dell’imponenza di una Presenza che li rende liberi, che li rende assolutamente dominati da Cristo. Se vi capitasse di vedere il sorgere in qualcuno di questa forma di vocazione, potreste capire che cosa vuol dire vivere la vita a partire da questo pieno. Mi sembra che questo interessi non soltanto a coloro che sono chiamati alla verginità; infatti attraverso di loro tutti noi siamo chiamati a vivere questa esperienza di pienezza, per poterci rapportare al reale gratuitamente. Senza questo, inevitabilmente noi cerchiamo un tornaconto nel rapporto con il reale, con le persone, con i figli (adottati o naturali), e non per cattiveria - attenzione -, ma perché è inevitabile. Poiché, infatti, abbiamo questo bisogno sterminato di pienezza, l’alternativa non è cercare di essere bravi, di trattenersi un po’ frenando il desiderio (perché non ci induca a fare cose sbagliate). È inutile questo tentativo moralistico di frenare il desiderio, è inutile perché sappiamo che non lo freniamo. L’unica risposta adeguata è la fede, cioè un’esperienza talmente positiva di risposta al desiderio che mi renda in grado di potermi rapportare a tutto con gratuità. Se voi ricordate Si può vivere così? , quando don Giussani parla della povertà dice che il rapporto con Cristo rende possibile all’uomo un’esperienza così piena che uno si può rapportare alle cose libero e grato perché niente gli manca. Non è che sono povero perché non posso essere ricco o perché è un problema di ascesi. No, sono povero perché niente mi manca. Questa è la vera povertà. Il rapporto vero con le persone che nasce dall’esperienza cristiana si chiama verginità (con le cose, povertà; con le persone, verginità): essendo così pieni, poggiando su un pieno, possiamo rapportarci gratuitamente con tutto e con tutti. Sotto la pressione di questa commozione della carità sterminata del Mistero verso ciascuno di noi, ci scopriamo ad avere con l’altro un rapporto libero, gratuito, senza pretese, senza tentativo di possesso, o egemonico. E questo è un altro mondo in questo mondo. Perciò, quando uno lo tocca con mano, quando uno per caso sfiora il “mantello” di un’esperienza così, non può esserne che travolto, non può esserne che sfidato, non può non venire la voglia di desiderarlo. Allora la dimensione della gratuità diventa desiderabile, non per volontarismo, non per essere bravi, non per essere coerenti, ma per non perdersi il meglio, per non perdere la possibilità che la vita sia vissuta con questa sovrabbondanza. Altrimenti soccombiamo alla logica di tutti, cioè cerchiamo la soddisfazione dove la cercano tutti.
Per questo, quello che abbiamo scritto su la Repubblica riguarda tutti, perché noi possiamo avere la stessa logica, anche se la modalità con cui la viviamo può essere diversa, ma la logica è tale e quale. E questo non è un problema di moralismo (non essere all’altezza), ma è un problema di fede. Non confondiamoci: è il problema di quale esperienza facciamo della fede. Il problema è che esperienza viva facciamo di Cristo per non dover cercare la soddisfazione dove la cercano tutti. Se non la facciamo, non dobbiamo giustificarlo, ma dobbiamo riconoscere se siamo stati fedeli all’origine di quello che ci è capitato, perché il problema sono la fede e la speranza e la carità, non il moralismo.

Intervento. Siamo sposati da dodici anni e abbiamo tre figlie: due delle quali gemelle. Una delle due gemelle è gravemente disabile, ma è una bambina molto sensibile e intelligente. Fin dai primissimi giorni, dentro lo smarrimento e l’angoscia, avevamo chiaro che lei era per noi un dono inimmaginato, e che racchiudeva misteriosamente una grande occasione per la nostra vita. Ci dicevamo: davanti a una figlia che ha così grandi problemi, o l’incontro con Cristo, la fede, è ultimamente una fregatura, oppure ci deve essere una possibilità di bene, un “di più” che dobbiamo scoprire. L’amicizia e la convivenza con Famiglie per l’Accoglienza ci ha educati e ci educa tutt’ora a non abbassare il desiderio di felicità nostro e delle nostre figlie. E questa è una sfida quotidiana attraverso la quale possiamo riconoscere la grandezza dell’amore di Cristo alla nostra vita.

Carrón. Grazie.

Intervento. Dalla costituzione della mia famiglia a oggi mi percepisco cambiata perché nel tempo è cresciuta la certezza che questo è il luogo in cui il desiderio di felicità del mio cuore si apre al compimento. Vero è che la mia vita è cambiata anche per seguire i miei figli che hanno avuto bisogno di molte cure, ma soprattutto è cambiato il mio modo di starci, perché nella mia storia Cristo si è fatto attrattivo nel presente attraverso l’unità nuova con mio marito e attraverso l’accoglienza dei miei figli (io ho due figli adottivi), uno stare spalancata alla realtà così com’è, una novità per il senso di inizio. Il dolore nella mia esperienza è ciò che mi ha permesso e mi permette di accedere alla realtà e alla verità dei fatti per amarla. Se volessi stare nella realtà senza sentire il dolore, come potrei conoscerla, come potrei stare intimamente accanto ai miei figli? Nella realtà attuale vivo un dolore sordo e persevero nello stare davanti all’umanità offesa dei miei figli, ma allo stesso tempo provo pace perché ho imparato a chiedere perdono del male che a loro è stato fatto. Nell’affermare che l’esperienza del dolore c’è ed è per un bene, intendo dire che non sottraendomi a essa vivo la compagnia delle persone che amo con la profondità dell’incontro con Cristo. Nel dolore mi hanno incontrato amici carissimi e ho ricostruito relazioni familiari per me molto importanti. I miei figli sono il richiamo continuo e fedele alla preghiera, all’amicizia con Cristo; grazie a loro si è amplificata la mia affezione al carisma di don Giussani e la mia domanda di amicizia in questa compagnia. Il dolore è l’occasione per stare nella posizione di chi guarda la croce ed è certo del Risorto. Che dire del dolore nostro nell’accogliere e del dolore dei nostri figli? A volte qualcuno vacilla sotto questo peso: cosa permette di stare nella croce e nella tristezza senza sentirci in scacco?

Carrón. In queste domande possiamo tutti toccare con mano quello che dicevamo prima: che non può esserci una risposta a queste domande che possa nascere dalla nostra capacità, proprio perché è la nostra incapacità a essere in ballo. E tanto più drammatica è la situazione, tanto più grande è il dolore, tanto più grande è la ferita dei figli, quanto più vediamo e percepiamo la nostra incapacità. Questo ci può introdurre a capire veramente il significato di Cristo: il Mistero ha voluto implicarsi con noi proprio per condividere fino in fondo questa sofferenza, fino alla morte, per potercene liberare. Il Signore ci associa a questa Sua esperienza e, siccome Lui l’ha attraversata per primo, può diventare la compagnia che ci rende veramente capaci - nella nostra incapacità - di attraversarla. E questo dice quale compagnia occorre ci sia tra di noi, perché questo non può essere sostituito da un’associazione, di qualsiasi tipo sia, o dagli esperti. Stiamo toccando il fondo ultimo dell’esistenza dell’uomo, che si può affrontare solo non riducendo Cristo. Come afferma l’inizio di All’origine della pretesa cristiana, solo uno sguardo appassionato e pieno di tenerezza al nostro bisogno può far sì che Cristo non sia ridotto a puro nome. Il dolore che il Signore permette noi non sappiamo perché c’è; quello che invece possiamo sapere è che noi non siamo da soli in questa situazione, ma siamo accompagnati. Agli Esercizi della Fraternità dicevamo: non un miracolo, ma un cammino. Noi, tante volte, vorremmo un miracolo che risolvesse tutto. Una settimana fa, a lezione in Università Cattolica, dovevo spiegare il capitolo decimo de Il senso religioso (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-151). Tutti ricordiamo l’immagine iniziale: se noi nascessimo in questo istante con la coscienza dei vent’anni, la prima cosa che proveremmo sarebbe lo stupore per la realtà. Appena finita la prima ora, durante la pausa viene alla cattedra un ragazzo che mi dice: «Io capisco benissimo questo, perché ho avuto un incidente motociclistico l’anno scorso e ho salvato la pelle per miracolo, e quando mi svegliavo al mattino ero così commosso del fatto di esserci che quello stupore era facilitato. Io non devo “immaginare” quello che dice don Giussani: io l’ho vissuto, è come se la vita mi fosse stata ridonata. Ma oggi mi sono alzato distratto, oggi - come tanti altri giorni -, dopo che quel momento si è affievolito, io sono tornato al vecchio tran tran, a questo sguardo ridotto sul mio io e sul reale». Questa è la migliore esemplificazione di quello che dice don Giussani: non basta un miracolo, perché il miracolo a lui è capitato, ma senza un cammino ritorna la scontatezza di prima. Perché? Perché il miracolo dà questa scossa di autocoscienza, ma se questo non è l’inizio di un cammino per cui diventa familiare uno sguardo così sul proprio io, anche con il miracolo si ritorna alla situazione di prima. A volte pensiamo di essere più intelligenti del Mistero, pensiamo che sarebbe più facile se il Mistero ci desse subito il miracolo. A volte (come nel caso di questo studente universitario) Lui ce ne fa fare esperienza. E che cosa dimostra così? «Vedi? Il miracolo Io te l’ho dato. E adesso che cosa te ne fai, senza un cammino?». Non basta. Non basta, se non facciamo un cammino in cui lo stupore del miracolo diventa nostro come modo di usare la ragione, come modo di vivere la libertà, come modo di rapportarci al reale. Il miracolo, da solo, non basta. Capite perché Giussani dice che questo è «il tempo della persona» (cfr. «L’autocoscienza, il punto della riscossa», Tracce, n. 4, 2012, p. II)? Nessun miracolo ci può risparmiare il cammino che ciascuno di noi deve fare affinché questo sguardo, che in qualche momento ci troviamo addosso, diventi nostro. Soltanto se la persona cresce nella propria autocoscienza, questo sguardo diventa suo. Ma questa autocoscienza non è frutto di un mero miracolo. Il miracolo è un grande aiuto, è lo stimolo per un cammino, non può esserne l’alternativa. Se noi concepiamo il miracolo come alternativa al cammino, nel tempo ci ritroveremo al punto di partenza. Questo dice qual è il tipo di aiuto e di compagnia che dobbiamo farci, perché senza farci una compagnia a questo livello, poi ci troviamo a portare dei pesi che non sosteniamo, se tutti i dolori e tutte le sfide che il Signore non ci risparmia non li guardiamo con uno sguardo diverso. Quando il Signore non ce li risparmia è per qualcosa di più, è per un bene, perché questo ci rende consapevoli del bisogno vero che abbiamo, e ci rende capaci di riconoscere la grazia del fatto che Lui ci sia, che noi non siamo da soli con il nostro niente, con il dolore nostro e dei nostri figli. Soltanto se ci rendiamo conto di questa carità sterminata del Mistero con noi, allora possiamo veramente sentire soddisfatto tutto il nostro bisogno.
Questo è il dramma che ciascuno di noi deve affrontare: aprirsi costantemente (qualsiasi sia il dolore, la sofferenza, la situazione, la sfida) a questo imponderabile, a questo preponderante che è successo nella nostra vita. La vita è facile. Una volta che Cristo è accaduto, il problema è non ritornare al senso religioso, ricominciando a cercare ventimila risposte come se nulla fosse accaduto. La questione è ritornare a Cristo, che è lo stesso dramma che hai con tua moglie, con tuo marito, con i tuoi figli. Non devi cercare altro, devi metterti in moto ogni volta rispondendo al tu che hai davanti. Perché il fatto di aver incontrato Cristo non risparmia ad alcuno di noi questo lavoro. Ma noi vorremmo qualcosa di automatico: «Abbiamo incontrato già il grande Tu, e allora è finito il gioco». No, non è finito: è incominciato! Devo ringraziare della Sua presenza ogni mattina in modo che non sia formale. Cristo non è la bacchetta magica che ci risparmia le sfide. No! Che cosa sarebbe la vita se Lui ci risparmiasse tutto? La noia totale. Speriamo che non succeda mai! Perché è così che noi a volte immaginiamo la vita eterna: la noia totale dove non succede alcunché. Invece è la possibilità che tutto sia riempito, la possibilità di dire “io” con tutta la nostra commozione e di dire “Tu” a Cristo con tutta la nostra commozione. E spero che sia sempre di più così, altrimenti la vita decade. Invece, come dicevo in un’assemblea con gli universitari della Cattolica, noi possiamo dire il contrario di quello che succede a tutti. Per chi non ha incontrato Cristo, Eliot ha perfettamente ragione: «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?» (T.S. Eliot, I Cori da “La Rocca” , Bur, Milano 2010, p. 37). Ma noi possiamo dire che, vivendo la vita, la guadagniamo! Questa è la verifica della fede.

Intervento. Tenendo conto delle caratteristiche della nostra Associazione, che è fatta di famiglie, come possiamo aiutarci a fare passi adeguati rispetto al soggetto che siamo, alle caratteristiche che abbiamo, senza lasciarci prendere dalla frenesia di sfruttare le occasioni per l’opera o dall’affanno di essere presenti? Come, quindi, quella compagnia a cui tu adesso ci richiamavi ci può e ci deve aiutare su questo? Tu dicevi che dobbiamo essere leali con noi stessi. Ora, mi rendo conto che l’esperienza che sto facendo con Famiglie per l’Accoglienza è conveniente per me.

Carrón. Possiamo aiutarci soltanto se la nostra compagnia è vera, cioè se ci lasciamo correggere costantemente in ogni tentativo che facciamo - perché ogni tentativo, come dice Giussani, è un tentativo ironico - dall’esperienza stessa, perché ogni esperienza ha dentro un giudizio. Cioè, che cosa ci ha dimostrato già il primo intervento di oggi? Che nel tentativo che fa ciascuno personalmente o che fa un’associazione si sia anzitutto leali col nostro bisogno. Se c’è qualcosa che non va, se c’è qualcosa in cui la realtà incomincia a dare dei segni, se cominciano ad accendersi delle spie, non dobbiamo incaponirci dicendo che va tutto bene. Sembra banale, ma a volte prima di riconoscere che nel nostro tentativo c’è qualcosa che non va preferiamo morire, tanto siamo orgogliosi. Giussani aveva scritto una lettera a la Repubblica quando Giovanni Paolo II, in occasione del Giubileo del 2000, aveva chiesto perdono a nome della Chiesa su alcuni fatti storici, e, fra le tante cose bellissime che dice, una mi ha colpito più d’ogni altra: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato» (L. Giussani, «Quella grande forza del Papa in ginocchio», la Repubblica, 15 marzo 2000, p. 16). Detta così, può sembrare una frase pia, devota (Giussani, essendo Giussani, che cosa vuoi che dica?). Invece no, alt! Proprio perché noi non siamo attaccati ad altro che a Gesù possiamo riconoscere qualsiasi imperfezione in ogni atto umano senza doverlo difendere accanitamente (quasi che fosse ciò che ci dà il respiro della vita). Infatti, sentite cosa dice subito dopo: «Tutte le ideologie hanno un aspetto per cui l’uomo è sicuro almeno in una cosa che lui stesso fa ed è quella a cui non vorrà mai rinunciare né mai mettere in discussione. Ma il cristiano sa che i suoi tentativi e tutto ciò che possiede o fa sempre debbono cedere alla verità» (Ivi). Una cosa come Famiglie per l’Accoglienza sarebbe impossibile senza il desiderio di coinvolgersi di tante persone con una gratuità sterminata; ma proprio perché è un tentativo ironico - e questo ci dà una libertà e un respiro enormi - non è sempre perfetto, anzi, è sempre correggibile, sempre troviamo delle cose che occorre essere disponibili a cambiare; è questa ironia che dobbiamo avere sulla nostra vita e sulla realtà. Correggersi è la possibilità di fare una strada, di lasciarci guidare dai dati dell’esperienza. Allora da che cosa si vede se noi non siamo attaccati ad altro fuorché a Gesù? Dalla nostra capacità di riconoscere quando c’è qualcosa che non va. Infatti qual è il primo segno che ha avuto Zaccheo dell’avvenimento che gli era capitato? La capacità di riconoscere lo sbaglio. Non ha fatto tanti pensieri, semplicemente Gesù è stata per lui una sovrabbondanza così grande che ha detto: «Posso riconoscere anche quello che è sbagliato, non sono più definito dai miei errori, sono definito da questo essere attaccato a Lui, per cui posso riconoscerli senza problema». Aiutarci a questo, secondo me, è l’unica possibilità di essere veramente amici, di tenere alla verità di quello che viviamo nel tentativo che condividiamo di rispondere a un bisogno; altrimenti, a un certo momento, non sappiamo più se stiamo rispondendo a un bisogno reale oppure se stiamo rispondendo alla nostra brama di essere al centro della vicenda per trovare una soddisfazione che non troviamo dove occorre trovarla. E tra una cosa e l’altra, tra il progetto di rispondere a un bisogno in modo gratuito, verginale, come dicevamo prima, e il tentativo di rispondere a un bisogno per la ricerca di una soddisfazione personale, sappiamo tutti che il crinale è sottile. Guardate le tentazioni di Gesù. Dice il diavolo a Gesù: «Fai che queste pietre diventino pane: risolverai il problema della fame» (cfr. Mt 4,3). Non è forse una cosa davvero adeguata al bisogno dell’uomo e alla gloria di Gesù? Ma allora perché Gesù non cede e la considera una tentazione? Perché potrebbe significare affermare Sé invece del disegno del Padre. La stessa tentazione che, poi, rifiuterà in Pietro quando questi Gli chiede di rinunciare alla prospettiva della Passione: «Allontanati da Me, perché tu pensi secondo un progetto tuo e non secondo il disegno di un Altro» (cfr. Mc 8,33). La questione è: noi siamo vera compagnia se siamo costantemente definiti dal disegno di un Altro, se nel rispondere al bisogno noi obbediamo al Mistero (e se siamo in grado di fare due, facciamo due invece di cercare, per affermare noi stessi, di fare cinque; ma se possiamo fare cinque, non facciamo solo tre per pigrizia). Se facciamo carte false per arrivare all’esito di un nostro progetto, già è il test che non è il disegno di Dio, perché se Dio vorrà proprio quell’esito, allora ci darà tutte le opportunità e tutti gli strumenti per raggiungerlo. Il problema è fare la volontà di Dio, il problema è seguire un Altro secondo la modalità che emerge nel reale. La volontà di un Altro non è definita da noi, bensì dalle possibilità in cui investiamo tutto e cui poi obbediamo. Affermare noi stessi oppure affermare un Altro: questa è la scelta della vita. Per questo vi chiedo di stare attenti a questa annotazione, perché noi siamo insieme per far crescere la responsabilità personale. Se invece, per il nostro desiderio di collaborare a determinate cose, siamo conniventi con certe modalità, poi ci troviamo nei guai. Occorre esserci, con tutte le nostre ragioni, chiedendo di fare le cose in modo adeguato, perché questo è il vero amore alle opere. Perché se le mettiamo a rischio facendo cose che sono irrealistiche o imprudenti, noi mettiamo a rischio tutto.
Vi dico un’ultima cosa: nel modo di operare non fate prevalere il progetto sul dilatarsi della gratuità di Dio. Perché se spostate l’attenzione solo su certi aspetti progettuali, poi non troverete tra di voi una compagnia che sia autentica risposta alla vostra solitudine; allora farete molti più progetti perché sarete più abili nel farli, ma si comincerà a svuotare l’origine della vostra esperienza. Questo è, secondo me, decisivo perché quando uno si stacca dall’origine, incomincia a perdere quello che l’ha alimentato all’origine. Noi dobbiamo chiedere alla Madonna di aiutarci a rimanere legati costantemente all’origine. Perciò di che cosa abbiamo più bisogno in assoluto? Della Scuola di comunità. Perché se la modalità con cui viviamo tutto non è costantemente alimentata e corretta dalla Scuola di comunità (che è lo strumento più regolare che abbiamo per cambiare mentalità, per introdurre una modalità nuova, una cultura nuova nel modo di rapportarci al reale), nessun altro gesto sarà in grado di risolvere il problema. Anche se ci ritrovassimo qui ogni tre mesi, sarebbe inutile. Quando ero in Spagna - l’ho raccontato altre volte - due persone mi vennero a chiedere di sposarli (da due anni si faceva la Scuola di comunità su Il senso religioso). A un certo momento, sono arrivato alla questione: «Ma non penserete che l’altro vi renda felici?!». Mi hanno detto sbigottiti: «Ma allora perché ci sposiamo?». E io: «È una bella domanda: potevate farvela prima». Che cosa mi ha fatto capire questo episodio? Due anni (due anni!) di lavoro settimanale su Il senso religioso non avevano introdotto in loro il senso del Mistero. E pensate che facendo un corso prematrimoniale in cinque sessioni potremmo far breccia in quel muro che due anni di lavoro su Il senso religioso non hanno intaccato? Allora non incrementiamo il nichilismo facendo gesti che sono vuoti. Non possiamo avere altro strumento più adeguato, più regolare, più semplice della Scuola di comunità. Allora, amici, vi raccomando: fate la Scuola di comunità!