Eugenio Caperchione.

«Ma ora servono le condizioni per creare lavoro»

«Niente bilancini» per valutare la nuova normativa varata dal Governo. Per Eugenio Caperchione, preside di Economia all'Università di Modena, ci sono punti di valore e incognite: «La questione vera è come fare passi avanti»
Stefano Filippi

«Il lavoro non è un diritto, va guadagnato», dice il Ministro del Welfare, e subito si scatena la bagarre con contestazioni e scontri a Roma. Con un’espressione non «politicamente corretta», Elsa Fornero indica qual è l’obiettivo della seconda riforma strutturale varata dal governo Monti (dopo quella previdenziale). Che il professor Eugenio Caperchione, preside della facoltà di Economia “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia, spiega così a Tracce.it: «La nuova normativa punta a difendere non il singolo posto di lavoro ma la possibilità di lavorare per chi ne abbia capacità e volontà».

Professore, qual è secondo lei la svolta più importante della nuova legge sul lavoro?
Apprezzo le prime parole dell’articolo 1, cioè che l’intendimento è “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico”, capace di creare occupazione e contribuire alla crescita. È importante dire cose innovative. “Inclusivo” significa che la questione non è più tutelare il posto del signor X, cosa che ha ingessato il nostro mercato del lavoro, ma offrire una possibilità a tutti, soprattutto a chi ha capacità, doti, voglia di rischiare. Costoro oggi non hanno garanzie, che sono riservate a chi ha già un lavoro.

Si è detto che la riforma favorisce i licenziamenti e non le assunzioni.
Detta così, è una visione riduttiva. Sicuramente i licenziamenti per cause economiche (non per motivi illeciti o discriminatori) avranno meno ostacoli. Le imprese non avranno più la spada di Damocle di doversi tenere dipendenti incapaci o improduttivi e avranno più certezze su tempi e modalità di risarcimento. Oggi - per esempio - un dipendente reintegrato dal giudice ottiene gli stipendi arretrati e i contributi per tutti gli anni in cui non ha lavorato. Da domani invece il risarcimento, in questi casi, non supererà i 24 mesi di retribuzione.

Eppure Giorgio Squinzi, neo presidente di Confindustria, ha giudicato la riforma «una boiata che dev’essere votata».
È una posizione negoziale da far valere nelle trattative con i sindacati. Le aziende hanno sacrifici, ma anche vantaggi.

Che cosa cambia per un’impresa?
Sarà più facile liberarsi di personale in esubero in certe situazioni. Questo dovrebbe indurre le imprese stesse a essere più pronte ad assumere quando la domanda cresce o si effettuano investimenti. Si introducono maggiore dinamicità e flessibilità di cui il Paese ha bisogno.

Nella riforma non è più facile licenziare che assumere?
In una fase di crisi come l’attuale può sembrare che sia così. Tuttavia voglio sottolineare le novità in materia di ammortizzatori sociali con l’introduzione della Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) e l’importanza attribuita all’apprendistato e quindi all’esigenza della formazione. È anche vero che sono stati introdotti vincoli sui lavoratori parasubordinati, ma si tratta di misure necessarie a superare forme di abusivismo.

Non è un po’ poco?
Forse in questo momento, sì. La flessibilità in entrata, cioè nell’assumere, resta un’incognita, una scommessa. Non c’è automatismo. Ma allo Stato non dobbiamo chiedere posti di lavoro, quanto un contesto che renda più agevole creare lavoro.

Nel complesso, lei la giudica una buona riforma?
È una legge molto complessa e molto dipenderà dall’evoluzione della giurisprudenza. Eviterei però di usare il bilancino, che riflette sempre una concezione “antagonista” del rapporto tra lavoro e capitale. Capitale e lavoro devono collaborare per il bene della singola azienda e quindi della società. Non dobbiamo chiederci chi ci guadagna dalla riforma, ma quali condizioni possono farci compiere passi avanti.

La nuova legge favorisce questa collaborazione?
La riforma risponde all’obiettivo di creare un mercato del lavoro dinamico e più efficiente. Dobbiamo poi essere noi a cambiare atteggiamento nei rapporti di lavoro. In tema di licenziamenti, per esempio, non dimentichiamo che un imprenditore non ha interesse a lasciare a casa le persone di valore. Il problema è che oggi tanta gente di valore non può avere un lavoro, mentre tante aziende sono costrette a tenere personale inadatto anche a rischio di dover chiudere. Il Paese deve cominciare a dare opportunità reali ai migliori e a chi ha energie da spendere, senza costringerli a fuggire all’estero. Allora aiutiamo le maestranze meno qualificate a trovare lavori più adatti, che non necessariamente sono più umili, e diamo agli imprenditori la possibilità di governare più liberamente e più responsabilmente le loro aziende, dedicando il loro tempo e la loro intelligenza all’innovazione dei prodotti e servizi, al presidio dei mercati e non invece alla ricerca di rimedi contro i vincoli della normativa.