Il cardinale Martini in visita al carcere di San Vittore.

Marco Barbone: «Quella sera con lui, a parlare del Salmo 50»

Marco Barbone, ex leader della Brigata XXVIII marzo, racconta per la prima volta il suo incontro con l'Arcivescovo di Milano, all'inizio dell'85: «Gli raccontai di me. Di quella preghiera sul perdono. E venni via con l’idea di essere stato accolto»
Davide Perillo

«Non andò così. Non esattamente». E non è un dettaglio da poco, nella vita di Marco Barbone. Non fu il cardinal Martini a celebrare il suo matrimonio, come ha scritto il Corriere della Sera in questi giorni parlando di una «decisione che fece discutere». Era il 9 settembre 1986. L'ex terrorista era libero, grazie alla legge sui pentiti. Ma sull’altare, a sposarlo, non c’era l’Arcivescovo che due anni prima si era visto consegnare una borsa di kalashnikov da un gruppo di brigatisti in disarmo. «C’era don Giovanni Barbareschi, un sacerdote suo amico. L’uomo che mi ha accompagnato a ricevere il Battesimo. E che mi ha fatto incontrare Martini, una sera dell’85, a Piazza Fontana. È la prima volta che ne parlo».

Non si era mai saputo prima. O meglio, il Cardinale aveva parlato più volte di quell’incontro «con un ex terrorista pentito che si mise a parlarmi del salmo 50». Ma senza mai farne il nome. «E invece ero io», racconta Barbone: «Lo sapevamo solo noi due».

Percorso lungo, quello che lo condusse lì. Lungo e sofferto. «In carcere avevo incontrato Adolfo Bachelet, gesuita, fratello di Vittorio, il docente ucciso dalle Br. Era diventato amico di molti dissociati. Lo conosco e inizia un rapporto intenso, serrato». Perché? «Era il fratello di una vittima del terrorismo: per noi aveva un certo significato». In carcere, nel periodo dell’isolamento duro, Barbone conosce altri religiosi. Suor Teresilla, che ha segnato la storia di molti ex di Prima Linea e dintorni («donna del popolo: una forza della natura, la ricordo con affetto enorme»). E «un altro prete, che faceva la pastorale per gli zingari. Io non ero battezzato, non venivo da una famiglia religiosa». Ma perché li cercava? «Mi colpiva molto che ci fosse questo interesse gratuito, questo dono di loro a me. E da parte mia c’era il fatto di avere sconvolto la mia vita, di aver ribaltato quello che oggi chiameremmo un sistema di valori. Sentivo un’esigenza fortissima di dare un senso a tutto, di potermi svegliare la mattina e dire “sono qua”. La scelta ideologica ci aveva portato in un vicolo cieco, senza speranza. Queste persone, in qualche modo, la riaprivano».

Con padre Bachelet, in particolare, iniziò un percorso. «Non faceva una “pastorale per carcerati”: era una persona che cercava a sua volta risposte. Un prete strano, lontano da certi canoni che avevo in mente: gesuita, anziano… Per me divenne una specie di padre spirituale. E con lui, a un certo punto, decisi di battezzarmi». Perché? «Fu un moto di conversione vera, un momento di sguardo assoluto su di me. Da una parte c’era il nulla, dall’altra una speranza. Ho fatto un voto a Cristo, chiedendo perdono. E domandando che la mia vita cambiasse».

Fu Bachelet a contattare il suo Arcivescovo, gesuita come lui. E Martini gli indicò come catechista ad hoc un sacerdote famoso a Milano, don Giovanni Barbareschi, già amico di don Gnocchi e del cardinal Schuster. «Iniziammo la catechesi. Nacque un’amicizia molto umana. E a un certo punto venne fuori l’opportunità: “Si può incontrare Martini”». Lo chiese lei? «Francamente, non ricordo. Ma Barbareschi mi suggerì di preparami su qualcosa. Io scelsi un salmo: il 50. “Pietà di me, o Signore, secondo la tua misericordia; / nel Tuo grande amore cancella il mio peccato. / lavami da tutte le mie colpe…”. Lo sentivo mio, per la mia vicenda».

L’incontro avvenne in arcivescovado, all’inizio dell’85. «Forma privatissima, molto discreta. Era sera. Gli parlai di me. Della mia meditazione molto naif su quel salmo. In quel periodo molti dissociati parlavano del loro gesto come di un atto politico. Io cominciavo a riconoscere che la molla non era la politica. La lettura di quel salmo mi aveva colpito. E gliela proposi. Gli dissi che in quel momento la mia meditazione era su quello». Cosa le rispose il Cardinale? «Ascoltava, per lo più. Mi esortò a proseguire. Non ricordo le parole esatte, ma aveva l'urgenza di una riconciliazione con le famiglie delle vittime. Ci fu un abbraccio. Venni via con l’idea di essere stato accolto. Che la Chiesa mi potesse accogliere. Senza censurare nulla di quello che ero e senza farmi sconti su quello che avevo fatto». Avete più avuto occasione di incrociarvi? «No, di persona no. Ma quando mi sposai, padre Barbareschi mi diede questo volumetto del Cardinale, Popolo mio esci dall’Egitto. C’era una dedica, autografa: “A Marco e Cristina, con i migliori auguri Card. Martini, 9.9.86”. Un gesto di vicinanza».

Dopo ne vennero altri. E altri incontri, diversi. «Fu Bachelet a dirmi: sono contento del rapporto tra noi, ma devi trovare persone che vivano un’esperienza di fede simile alla tua. E lì ho incrociato Cl». È rimasto in contatto con Bachelet? «Certo, fino alla sua morte, nel ’95. E anche con Barbareschi. Pure lui felice che avessi incontrato questa esperienza».

Cosa pensò quando seppe che un commando Br aveva consegnato le sue armi a Martini? «Non mi stupì. Non ne sapevo nulla, ma era un momento particolare per Milano. Era la capitolazione di una stagione. In quel periodo tutta la Chiesa di qui era occupata a cercare di risolvere in qualche modo quella situazione. Martini era una figura simbolica di un moto diffuso». Che giudizio dà di lui? «Un pastore austero, severo anche, ma capace di incontrare. Di gettarsi nella mischia. Dal punto di vista culturale, controcorrente. Del resto, Milano è una città ricca di contraddizioni. Chi è a capo di una Diocesi come questa, in qualche modo deve essere controcorrente. E capace di accogliere. Lui lo era».