La città di Aleppo dopo un bombardamento.

«Quando la guerra lascia senza parole»

Lorenzo Cremonesi da settimane racconta il dramma siriano sulle colonne del quotidiano milanese. Tutti i giorni di fronte a stragi, bombe e morti: «La ripetitività dell'orrore rischia di banalizzarlo». Cosa salva da questa assuefazione?
Paolo Perego

«Arriva un momento in cui anche il massacro più efferato non fa notizia. La ripetitività dell’orrore rende difficile continuare a raccontarlo, lo banalizza. Mancano le parole». Lo scriveva pochi giorni fa Lorenzo Cremonesi, inviato di guerra del Corriere della Sera, in un editoriale - breve e crudo - sul quotidiano italiano. Lui, milanese, classe 1957, che da settimane convive con il dramma della Siria, quello che tutti abbiamo visto rimbalzare tra web, tv e carta stampata.
«È davvero così», spiega al telefono, da un parco giochi della cittadina di Beb al Hara, nord-ovest di Aleppo, al confine con la Turchia: «Possiamo essere assuefatti anche a questo, come ho detto in quel pezzo». All’ennesima autobomba, all’ennesimo cadavere martoriato dalle torture. «Chi legge i giornali. Ma anche noi reporter che siamo qui per raccontare». Persino le vittime possono diventare indifferenti, aveva scritto. La madre con le foto della figlia violentata e straziata, il quindicenne con quelle del padre sgozzato.

Eppure, leggi le cronache delle sue giornate, i reportage da Aleppo, dai confini turchi. Assuefazione? Non lo diresti. Piuttosto ti accorgi che ogni incontro, ogni faccia non riesce proprio a lasciare abituare all’orrore.
Capisci meglio il suo articolo sul Corriere del 2 settembre. «Una risposta all’opportunità di pubblicare o meno sul giornale l’ennesimo racconto su una guerra che ormai rischia di non fare notizia», spiega Cremonesi. Che suona però come l’alzata di mano di uno che chiedesse: «Ma allora che sono qui a fare? Come può non interessare?»
«Da un lato questo fa parte del mestiere», dice ancora: «Il dover rincorrere una novità o un’eccezionalità. Ma se ci pensi, qui si sta giocando un pezzo di storia di caratura enorme. La sorte della Siria è legata a un equilibrio che durava da decenni e che è destinato a modificare la geopolitica di tutta l’area. Solo che quello che accade oggi nel mondo dell’informazione è che a volte anche la Storia non è più “storia”».

Cosa rende “nuovo”, cosa ti fa scattare davanti all’ennesimo padre con l’ennesima foto della figlia? «La molla? Forse dovrei parlare della tragedia umana. Sì, quella non riesce a lasciare indifferenti. Quella gente... Ma forse qui viene fuori anche il mio cinismo. Mi interessa la Storia, come detto. La partita che si gioca in questa terra. Raccontare uno tsunami, col suo carico di dramma, non sarebbe uguale». Eppure alla banalità del male, al «grigiore nauseante delle stragi a ripetizione», non basta ribattere con l’importanza di una svolta storica epocale. Sono quei volti a ridestare la domanda. Quelle stragi e quel sangue. Quelle bombe. «Perché la Storia si gioca proprio in quell’orrore. Non puoi non farci i conti. Voglio tornare ad Aleppo ora. Anche se è pericoloso. Hanno ucciso una giornalista giapponese da poco. Ma... È vero che l’esercito di Assad pur di colpire i ribelli bombarda interi quartieri senza guardare in faccia a nessuno, uccidendo anche uomini, donne e bambini innocenti, ma è vero anche che in città la vita continua. Pochi lo fanno, e forse è fuori dall’economia dei media, ma ci sono altre realtà da mostrare». Girando per i quartieri ancora in piedi. O andando a vedere posti che nessuno racconta, come una cittadina di sessantamila abitanti nella regione di Aleppo, oggi completamente abbandonata. O ancora, provando a guardare al futuro, alla soluzione del conflitto: «Che ne sarà dei cristiani, a oggi divisi su quale parte prendere. Rischiano il massacro, è sotto gli occhi di tutti». O i curdi, rimbalzati ancora di qua e di là dalle frontiere, vittime di guerre che non hanno mai combattuto. «Raccontare questa complessità, la storia che accade». E la tragedia degli uomini. Questo non è banale.