Il ministro nella pasticceria del carcere.

«Il lavoro è la vera soluzione ai problemi del carcere»

Lunedì il ministro della giustizia Paola Severino ha incontrato i detenuti delle carceri padovane, prima nella casa circondariale e poi nei laboratori del Consorzio Rebus. Ecco l'intervento di uno di loro

Non è stata una vista formale quella del ministro della giustizia, Paola Severino, alle carceri padovane. È stato chiaro fin dall’inizio, dalla prima tappa alla casa circondariale, dove si è fermata innanzitutto ad ascoltare e poi rispondere alle richieste dei detenuti stipati in dieci in celle che dovrebbero contenere al massimo cinque persone. Lo aveva detto fin dall’inizio: «Voglio partire dalle situazioni più difficili». Ad accompagnarla, Giovanni Tamburino, capo dell’amministrazione penitenziaria, poche autorità e i rappresentanti delle principali cooperative impegnate in Italia nel lavoro con i detenuti.
Varcato il portone del Due Palazzi, si sentono le grida dei detenuti e il rumore delle posate contro le sbarre. Il ministro li guarda, alza la mano e saluta. Il primo incontro è con i gli agenti della polizia penitenziaria. Poi il giro nei padiglioni dove 130 detenuti lavorano con regolare contratto con il Consorzio Rebus. La cucina, la pasticceria di alto livello, il call center, l’officina dove vengono assemblate le biciclette di marchi prestigiosi, i laboratori di valigeria, pen drive e chiavette usb. Il ministro parla con i detenuti, chiede, vuole capire e poi con gli imprenditori che hanno investito su questo progetto. Nell’auditorium del carcere, dopo la visione di un video sull’attività e gli incontri della cooperativa avvenuti in questi anni, quattro detenuti leggono ciò che dentro il carcere ha cambiato la loro vita. Attraverso il lavoro, l’incontro con persone che hanno creduto in loro. L’errore rimane, anzi se ne prende sempre più coscienza, ma c’è una strada per essere felici, pur rimanendo dietro le sbarre, magari aiutando chi fuori sta male. Al termine, vengono regalati al ministro una bicicletta, una valigia e una torta: tutto frutto dell’opera dei carcerati. «Il lavoro è la vera soluzione stabile ai problemi del carcere», ha detto il ministro.
E del lavoro ha parlato nell’incontro nell’aula magna dell’università organizzato dal gruppo studentesco Articolo 27
dal titolo: «Vigilando redimere: il lavoro come elemento fondamentale nel recupero del detenuto». Al tavolo dei relatori, insieme al ministro, il giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella e l’ex presidente della Camera Luciano Violante.
L’ultimo incontro con i carcerati avviene dopo al caffè Pedrocchi. Alcuni detenuti, con permesso di uscita, hanno voluto salutarla e ringraziarla. E anche qui niente di formale.

Ecco l’intervento che uno dei detenuti ha letto davanti al ministro:

«Buongiorno, Onorevole Ministro Severino, sono un detenuto ergastolano, mi chiamo Bledar Giovanni Dinja, sono da 10 anni in questo istituto e da 7 anni lavoro per questa meravigliosa cooperativa.
Signor Ministro, la mia vita qui in carcere è migliore di prima di entrare. Sono condannato per reati brutti. Mi vergogno, giorno dopo giorno, per le brutte cose che facevo prima.
Sono partito con i gommoni dall’Albania, ho lasciato il mio papà, la mia mamma, un fratello e una sorella. Sono venuto in Italia pensando di trovare l’oro e mi sono rovinato la vita e ho rovinato la vita alla mia famiglia. Eravamo un gruppo di 10 amici. Tutti i miei amici sono morti. Sono l’unico rimasto vivo. Se non mi arrestavano sarei morto anch’io.
Da quando lavoro onestamente, sto capendo i valori della vita che prima non conoscevo. Ho imparato che con un lavoro onesto si può vivere una vita onesta. Nei primi anni di carcere pensavo ogni giorno di mettere fine alla mia vita. Un giorno leggo che la Cooperativa cerca operai e subito faccio la domandina. All’inizio ho fatto un corso di formazione e poi sono stato assunto. Quando l'ho saputo, è stato come rinascere un’altra volta.
Onorevole Ministro, anche se mi trovo in carcere, prendo uno stipendio come quelli che lavorano fuori: pago le tasse, pago le spese della giustizia, pago il mio mantenimento e mando i soldi alla mia famiglia in Albania.
Non so se lo posso dire, ma io ho tolto la vita a un essere umano che oggi poteva essere mio fratello. Ho distrutto due famiglie: la famiglia della vittima e la mia famiglia.
Due anni fa ho adottato un bambino in Africa, in Uganda. Si chiama Cristiano Dinja. Ho fatto questo piccolo gesto perché vorrei, come posso, dare e sostenere un’altra vita, perché tutto il rispetto va alla famiglia della vittima.
Ringrazio questo Istituto, la Direzione, il presidente e tutti gli operatori e i colleghi detenuti della Cooperativa. Sarò grato tutta la vita per aver potuto vivere questa esperienza.
un'ultima cosa, se posso: noi ergastolani, giorno dopo giorno, siamo in attesa di un fine pena certo. Non vi dimenticate di noi.
Grazie Onorevole Ministro»