Io, davanti al richiamo di Scola (e del Papa)
Ingerenza o richiamo. Oppure abbraccio. Un giovane consigliere comunale si confronta con le parole dell'Arcivescovo di Milano e di Benedetto XVI. «Ribadiscono la cifra del mio essere cristiano. Impossibile archiviarle in fretta e furia»Ennesima ingerenza. O severo richiamo disciplinare. A seconda dell'angolatura da cui le si ascolta, le parole rivolte ai politici cristiani, e pronunciate lo stesso giorno, da Benedetto XVI e dal cardinale Angelo Scola vengono così archiviate in fretta e furia. Il miglior modo per non fare i conti con il loro contenuto.
Eppure sia il Papa, incontrando la delegazione dell'Intenazionale democristiana, sia l'Arcivescovo di Milano, inaugurando la nuova stagione della scuola diocesana di politica, mi hanno toccato a fondo. Perché ribadiscono la cifra dell'essere cristiano in politica. Il motivo per cui io la faccio.
Non trovo parole più belle di quelle scritte da don Giussani ad Angelo Majo: «La gioia più grande della vita dell'uomo è quella di sentire Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore». Questa è la sfida personale che sento ogni giorno. Anche quando prendo in mano un provvedimento da votare in aula. Perché se non desiderassi di sentire palpitare nelle carni del mio pensiero e del mio cuore l'Incontro che mi è capitato nella vita, la storia che mi ha condotto dove sono, l'educazione che mi fa essere quel che sono, sarei un mero ingranaggio di macchine che oramai sono arrivate al capolinea. E mi riferisco tanto ai partiti quanto a un certo modo di intendere le istituzioni stesse, lacerate da malcostume e inadeguatezza da un lato e dalla crescente disaffezione dei cittadini dall'altro.
Tenere vivo quel legame, invece, quell'appartenenza alla comunità dei credenti, è l'unico modo perché l'esperienza dell'incontro personale con Gesù non sia relegata ad un fatto del passato. È l'unico modo perché le logore logiche di schieramento non soffochino a tenaglia il desiderio di indicare a tutti ciò che di bello e di vero c'è nella società: un uomo e una donna che si impegnano pubblicamente a farsi carico l'uno dell'altro, a crescere stabilmente dei figli (che poi sono i cittadini di domani), a educare questi liberamente e senza l'imposizione di nessuna "pubblica morale", con buona pace di qualche novello Robespierre al di là ma anche al di qua delle Alpi. Perché nella famiglia - come ha detto il Papa - «la persona sperimenta la condivisione, il rispetto e l’amore gratuito, ricevendo al tempo stesso la solidarietà che gli occorre», alimentando così «le stesse basi della convivenza sociale». E si può affermare tutto ciò senza discriminare alcuno, bensì ribadendo le ragioni laiche che impongono che situazioni non omogenee siano trattate in modo differente. Altrimenti ne va del diritto e, quindi, della stessa convivenza civile.
L'appartenenza alla Chiesa, allora, per me rende viva la ragione. Anche correndo il rischio di essere considerato dai più «retrogrado», come ha ricordato Benedetto XVI ai vescovi francesi, «ma certo non abbassandosi a ricercare il consenso a qualsiasi mezzo», come ha ancora richiamato Scola.
Nessun intervento a gamba tesa, dunque, ma la sottolineatura di un'appartenenza che non può essere solo "ispiratrice" o "valoriale". A me non basterebbe. Ci viene ricordato che solo chi appartiene è veramente libero. E questa sollecitazione, che arriva contemporaneamente dal Papa e da Scola, è anche una coraggiosa provocazione per il tempo in cui viviamo. Un tempo in cui sembra che solo chi non appartiene, chi si rivendica come "neutro", chi è tecnico può dedicarsi per davvero al bene di tutti e di ciascuno. Un tempo in cui l'opinione comune vuole relegare la dimensione comunitaria della persona alla stregua del reato di "associazione a delinquere", Benedetto XVI e Scola ci ricordano che chi è "di Gesù" assume «con realismo, fiducia e speranza le nuove emergenti responsabilità». E tutto ciò non rende stupidamente orgogliosi. Fa tremare le vene ai polsi.
*Consigliere comunale a Milano