L'europarlamentare Mario Mauro.

I sessant'anni di Europa senza cannoni

Niente gruppi o persone singole. A Oslo sul palco salirà l'Unione. L'europarlamentare Mario Mauro spiega perché, pur "sui generis", è un riconoscimento che ha delle motivazioni valide. E oggettive
Emanuele Braga

Sorpreso? «Be’, sì. È la prima volta che un Nobel va a un’istituzione così complessa, invece che a una persona o a un gruppo. Ma la motivazione è valida». Il Nobel per la pace va all’Unione europea, «per oltre sessant’anni a difesa della democrazia e dei diritti umani». E Mario Mauro, europarlamentare di lungo corso, non nasconde una certa soddisfazione. «L’Unione ha tanti limiti, ma se c’è stato un ambito in cui c’è stata coerenza tra le istituzioni, è proprio quello: pace e diritti umani. Anche se poi la proposta europea non si incarna in una persona».

«Sessant’anni senza guerre», almeno in questa fetta di mondo. Non è che tendiamo a darlo per scontato, come una cosa acquisita, e ne abbiamo perso di vista la portata?
Non solo la pace è data per scontata, ma è come se ne potessimo fare a meno. Ma c’è da ricordare che la regola della storia europea non è la pace: sono le cannonate. E che l’Unione è l’unico contesto politico di questa vastità e complessità del genere dove non c’è la pena di morte. Una certa lettura dei diritti umani partendo dai diritti fondamentali, e l’aver capito che la pena va commisurata tra istituzioni e che gli Stati non sono padroni della vita dei cittadini, almeno in questo ambito, è stato un esito enorme. E poi c’è un terzo fattore, storico.

Quale?
Il modo più concreto con cui l’Europa ha concorso ai diritti umani è stato l’assorbimento dell’ex mondo comunista. L’Unione ha portato alla costruzione della democrazia in Paesi che non sessant’anni fa, ma vent’anni fa erano in pieno marasma.

Però nelle iniziative politiche verso l’esterno, soprattutto verso Paesi che non rispettano i diritti, non è che l’Unione brilli per iniziativa…
Sì, ma anche lì di solito si guarda il bicchiere mezzo vuoto: “Avete rapporti economici con certi Paesi, ma non ottenete il rispetto dei diritti”. Se guardassimo la parte piena, ci accorgeremmo che peso anche solo ricordare in certi contesti che quei diritti vanno rispettati. L’Europa lo dice, chiaro. Poi i risultati dipendono da tanti fattori…

Ma nei momenti di crisi non ci si continua a muovere in ordine sparso? Non continua ad essere vera la vecchia frase di Kissinger, «se c’è un problema urgente e devo parlare con l’Europa, che numero faccio»?
Abbiamo una struttura che non ci permette di rispondere ancora con una voce sola, un “numero” unico. Però abbiamo espresso in molte circostanze un orientamento unitario. La macchina è farraginosa, ma in situazioni chiave per la pace, come il disarmo nucleare o del contrasto al fondamentalismo, la voce europea pesa. Si vedono i limiti, ma in certi casi anche il meglio dell’Unione. Sull’Iraq, per dire, l’Europa si è spaccata, ognuno è andato per conto suo. Ma nello stesso tempo, sul fenomeno altrettanto complesso della disgregazione dell’Europa dell’est si è avuta una posizione storica molto compatta, che ha cambiato il mondo.

Perché il Nobel arriva ora? È un incentivo a un’istituzione in crisi di identità?
A me pare una sottolineatura utile perché gli stessi europei si ricordino di quanto è importante l’Unione. Molti sono pronti a metterla in discussione, o lo stanno facendo. Questo richiamo ci fa dire: attenti a non buttare a mare questo fattore che, a conti fatti, ha migliorato di molto la vita non solo degli europei, ma del mondo.

Servirà?
Più che per le istituzioni, spero che serva per l’opinione pubblica. Più la coscienza dell’opinione pubblica si fa pressante, più le istituzioni devono tenerne conto. Oggi si è portati a pensare che sempre meno europei vogliano l’Europa. Io spero il Nobel serva a far capire che l’Unione è indispensabile. Non siamo in crisi per la forza degli argomenti degli euroscettici, ma per la debolezza di chi nell’Europa dice di crederci.