Manifestanti catalani chiedono l'indipendenza.

Catalogna, "secessione" dalla crisi

Il presidente della regione spagnola annuncia un referendum per l'indipendenza. Differenze culturali, patto fiscale... Cosa c'è dietro queste rivendicazioni? Lo storico José Andrés Gallego ci spiega quello che sta accadendo tra Madrid e Barcellona
Alessandra Stoppa

Els segadors, i mietitori. Il 26 settembre, l’inno ufficiale della comunità autonoma della Catalogna è risuonato nel Parlamento regionale, all’annuncio del suo scioglimento e di nuove elezioni. Fissate per il 25 novembre. Non solo. Il presidente Artur Mas ha annunciato che nella prossima legislatura sarà indetto un referendum per l’indipendenza: «Con o senza il placet della Spagna». Abbiamo chiesto allo storico José Andrés Gallego, membro dell’Istituto superiore spagnolo per la ricerca scientifica, che cosa sta accadendo tra Barcellona e Madrid.

Un referendum secessionista non sarebbe illegale?
Lo è. A mio avviso, Mas ha inteso dire che, se vince e ha un numero di voti sufficiente, proporrà che sia il Parlamento ad autorizzarlo a indire un referendum. Così da evitare un possibile reato di prevaricazione, che potrebbe portarlo all’inibizione per dieci anni. L’articolo 149 della Costituzione, infatti, attribuisce la facoltà di indire un referendum solo al Governo spagnolo e nell’art. 92 si richiede che vi partecipino tutti gli spagnoli che hanno diritto al voto. La Catalogna potrebbe organizzare una “consultazione popolare”, ma secondo la sua legge sarebbe necessario, in primo luogo, avere l’autorizzazione del Governo spagnolo e, in secondo luogo, che i consultati non coincidessero esattamente con il corpo elettorale catalano, ossia con coloro che hanno diritto di voto in Catalogna: quindi, dal punto di vista giuridico, ciò non avrebbe carattere né valore di referendum. Altra cosa sarebbe attribuirgli un valore “morale”. Ma che il Governo lo possa autorizzare è del tutto inverosimile.

Il principale motivo di scontento è il rifiuto del Governo Rajoy di concedere maggior autonomia fiscale. Può spiegarci meglio?
Tutti i Governi delle comunità autonome in cui si suddivide la Spagna hanno autonomia fiscale e, nel complesso, più poteri di quelli che hanno i Länder tedeschi, per esempio, e quanti o più di quelli dei diversi Stati degli Usa. Ciò che vogliono i governanti catalani - e parecchi altri - è più autonomia e, al tempo stesso, l’aiuto del Ministero delle Finanze per far fronte alla rinegoziazione del suo debito pubblico. Quest’ultimo fatto è quello davvero urgente, e rende paradossale il tutto. Il Governo catalano è uno dei più indebitati di Spagna, tanto riguardo alle somme globali (44 miliardi di euro) quanto in proporzione al suo Pil. Ha richiesto al Governo spagnolo oltre cinque miliardi per tutte le urgenze che deve affrontare. A fronte di questa richiesta, il ministro delle Finanze spagnolo esige una politica commerciale più aperta ai prodotti del resto della Spagna, ma i governanti catalani non vogliono e ripetono la loro richiesta di maggiore autonomia fiscale. Comunque, non siamo bene informati sulla realtà fiscale catalana. Sappiamo soltanto che le quote versate dai catalani alla Previdenza sociale non coprono nemmeno le pensioni che riscuotono i pensionati catalani; nel 2011 il deficit è stato pagato dallo Stato, ossia dagli altri spagnoli.

Quali sono le radici del sentimento separatista catalano?
Le radici risalgono almeno al XVII secolo. L’unità spagnola del XV secolo è stata unicamente dinastica: i regni si mantennero ognuno con il suo proprio ordinamento legale e perfino - in alcuni casi - con dogane e dazi per il passaggio di prodotti dall’uno all’altro. Questo fino al 1812. D’altra parte, fino ad allora circa il 60% di quello che oggi chiameremmo il bilancio delle spese della monarchia ricadeva sui regni europei della corona di Castiglia (che a quel tempo era la più ricca). Si effettuarono diversi tentativi falliti per riequilibrare la situazione, perché i regni della corona di Aragona pagassero di più: tra di essi vi era l’allora Principato di Catalogna, fatto che provocò una prima ribellione secessionista nel 1640. Risale a quel periodo l’attuale inno ufficiale, Els segadors. Il sentimento di essere “diversi” si mantiene vivo in varie regioni della Spagna. Ma si confondono due realtà distinte: da una parte, il rapporto tra Stato e regioni e la necessità che sia impostato su una logica di solidarietà e sussidiarietà; dall’altra, il bilinguismo di queste regioni (Catalogna, comunità autonoma Basca e Galizia). Esse vantano un’indubbia “differenza” culturale rispetto al resto della Spagna, con tutte le relative conseguenze, ma è tutt’altra vicenda.

Lei sostiene che questo dibattito serve per non affrontare il vero problema, che sono i cinque milioni di senza lavoro. Può spiegare meglio?
Alla base c’è un problema di scelta che riguarda tutta l’Europa: affrontare la crisi economica attuale dando la priorità alla creazione di posti di lavoro realmente produttivi, oppure mettendo al primo posto il fatto che gli investitori recuperino i loro investimenti. Si sta percorrendo la seconda strada. Cito soltanto un aspetto che lo spiega, secondo me, molto bene: molti investitori tedeschi hanno affidato i loro risparmi alle banche tedesche, i cui gestori hanno investito proprio nella bolla spagnola - tra le altre -, inclusa quella catalana. E ora non vogliono accettare il rischio che implica qualsiasi investimento e considerare perso ciò che hanno perso quando la bolla è scoppiata. Vogliono trasformare le perdite dei loro investimenti in debito pubblico spagnolo. Per questo insistono sul fatto che Rajoy chieda il “salvataggio” e per questo avvertono che il “salvataggio” deve confluire unicamente nelle banche e deve considerarsi parte del debito pubblico spagnolo. I governanti catalani, d’altra parte, insistono nel richiedere più autonomia fiscale e nel giustificarla con la differenza culturale, che è un fatto reale, ma con ciò non ha niente a che vedere. Giocano col fuoco. E per il momento a bruciarsi sono i disoccupati.

Che cosa significa il “caso” Catalogna per tutta l’Europa?
Dall’europeismo degli anni Cinquanta, che incoraggiava a collaborare economicamente per sovrapporsi alla divisione tra vincitori e vinti, siamo arrivati a un puro - e ingiusto - mercato comune protezionista. La base morale è il nichilismo gaio di cui ha parlato lucidamente Augusto Del Noce quarant’anni fa, quindi il consumismo e l’edonismo. Uno degli ostacoli per vivere “bene” sono i figli, così noi europei ci siamo suicidati demograficamente. Proprio l’Italia e la Spagna - e, in Spagna, la Catalogna - sono tra i Paesi con il tasso di natalità più basso del mondo. Di fronte alla crisi del 2007-2008 si è fatto un ulteriore passo: il nostro nichilismo gaio mette tutto in pericolo (la “festa”, e gli investimenti con cui la si è pagata e la si paga). Ma gli investitori non vogliono assumersi il rischio che implica qualsiasi investimento. Ormai non siamo più tutti europei “fraternamente uniti”, né ci interessa come priorità la famiglia umana. Alcuni hanno gettato la maschera, altri si nascondono ancora dietro a delle maschere, come il catalanismo o la pigrizia degli spagnoli. Tutta l’Unione europea si trova in questa dinamica. E non dimentichiamo che molti protagonisti si chiamano “cristiani”. Forse è giunta l’ora che ognuno si tolga la maschera davanti a se stesso.