Malala Yousafzai.

Malala, la bambina che fa paura ai talebani

A soli quattordici anni, attraverso il suo blog, lottava perché ragazzine come lei potessero andare a scuola. Per questo i terroristi le hanno sparato lasciandola in fin di vita. Ma il suo amore per la verità sta muovendo qualcosa nel Paese
Marina Ricci

Non si può fare a meno di guardarla: il volto paffuto, ancora da bambina, sul quale emergono, timidi, i tratti di una giovane donna. Il web è pieno delle immagini di Malala Yousafzai con il capo avvolto dal velo pachistano, gli occhi grandi e decisi. Si può restare affascinati ascoltandola arringare il suo pubblico (nonostante sia incomprensibile quello che dice quando ai video mancano i sottotitoli in inglese), esperta già dei toni con cui agganciare una platea, piccola attivista del diritto allo studio, ad avere un’educazione, a poter vivere in pace. E ci sono le ultime immagini, quelle del suo corpo steso su una barella, il capo fasciato, gli occhi chiusi, perché i talebani il 9 ottobre, a Mingora, la città del Pakistan nord-occidentale dove vive con la sua famiglia, le hanno sparato alla testa.

Adesso è in un ospedale inglese, a Birmingham, dove può ricevere cure più specializzate. Nessuno può dire se, e in quali condizioni, continuerà a vivere la bambina che faceva paura ai talebani. Anche Malala aveva paura, nonostante la baldanza adolescenziale con cui un giorno sul suo blog, pubblicato dalla BBC in urdu e rilanciato da un giornale locale di Mingora, ha scritto che le ragazze dello Swat non temono nulla e nessuno. Lo Swat è la sua terra, una valle ai confini con l’Afghanistan, attraversata dal fiume che la battezza, circondata da montagne e piena di frutteti. Una cornice di bellezza naturale che inquadra il terrore di una vita compressa da un’ideologia fanatica. Dal 2007 al 2009 la valle dello Swat è stata regno dei talebani, i cosiddetti studenti delle scuole coraniche, che non hanno smesso di esercitare il loro potere anche quando l’esercito pakistano ne ha ripreso il controllo. Malala aveva paura, eccome, dei talebani.

Lo scriveva apertamente, raccontando la sua vita quotidiana, uguale a quella di tante altre bambine, costrette ad andare a scuola di nascosto, senza la divisa, nascondendo i libri sotto il velo per paura delle rappresaglie, dell’acido buttato in faccia per punire il desiderio impertinente di sapere. A undici anni, oggi ne ha quattordici, Malala Yousafzai, ha cominciato a tenere un diario quotidiano di ciò che le avveniva intorno. Un racconto, scritto in modo semplice, delle notti in cui si svegliava per il rumore dell’artiglieria durante gli scontri fra governo e talebani, della decisione di andare lo stesso a scuola nonostante fosse proibito, rinunciando a indossare la divisa perché troppo pericolosa, scegliendo abiti comuni e lasciando nell’armadio il suo bel vestito rosa perché anche il colore era proibito. In modo innocente raccontava la verità, sostenuta dai suoi genitori e da un ambiente familiare che non rinunciava a educarla. Già, l’educazione.

«Dateci penne oppure i terroristi metteranno armi nelle nostre mani», anche questo aveva scritto la piccola blogger, verità pesante buttata in faccia soprattutto a un governo debole e a una comunità internazionale che sovvenziona l’armamento del Pakistan, ma non fa dell’educazione un obiettivo prioritario. Per questo Malala è stata punita, perché lei bambina pretendeva che gli adulti la educassero invece di terrorizzarla e credeva che raccontare la verità potesse liberarla. Per questo i talebani, a ragione, ne avevano paura. E che la verità sia contagiosa e pericolosa lo prova la reazione che c’è stata all’attentato alla vita di Malala. Altre immagini, oggi, mostrano bambine velate che pregano per la sua vita e ne raccolgono il testimone, affiancate, anche se in numero minore, da timidi maschietti.

Il sangue degli innocenti è sempre un pericoloso moltiplicatore. È vero: si tratta dello stesso Pakistan dove pochi giorni fa la folla inferocita di un villaggio, che minacciava di bruciare le case dei cristiani, ha costretto la polizia ad arrestare Rifta, una bambina di 11 anni, affetta dalla sindrome di down, accusata di blasfemia. Eppure qualcosa si muove e spinge a pregare per la piccola cristiana chiusa in un carcere e la piccola musulmana che ama la verità.