Si può vivere senza politica?

SOCIETÀ - ITALIA
Davide Perillo

La debolezza dei partiti, il vuoto di idee, le riforme mai nate. E poi, le autonomie e la sussidiarietà, la scuola e Cl... Un dialogo tra ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA e GIORGIO VITTADINI per tentare di fare i conti con i fattori di una possibile riscossa. E chiedersi se desiderio e testimonianza sono astrazioni. O il cuore dell’azione

Una «gabbia d’acciaio» intorno a un «corpo piagato», che con la scusa di tenerlo in piedi in realtà lo rende prigioniero e ne incancrenisce le ferite. Oppure, «un morto che abbraccia un vivo che vuole vivere». Immagini forti, non c’è che dire. Soprattutto se il morto è la politica, il vivo la nostra società. E se a usarle, sulla prima pagina del Corriere della Sera, è uno degli osservatori più acuti delle nostre vicende: Ernesto Galli della Loggia, 70 anni, storico, editorialista. Le sue analisi sono dure, il tono è pessimista. Ma accanto alla descrizione di questa «idea spenta del nostro Paese» e delle sue magagne, Galli della Loggia sembra indicare punti di riscossa che guardano più in là dell’implosione del centrodestra e dell’avvitamento del centrosinistra, del boom grillino e del caos permanente in corso sotto i nostri occhi.
In uno degli ultimi interventi, per dire, parlava della «necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato», di un Paese che può ripartire «solo in nome di un’idea di sé e del proprio destino», di un’Italia che «ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito». Abbastanza, insomma, per confrontarsi con lui proprio su questo tema: da dove può ripartire la politica? Come si può ricominciare a costruire?
Lo abbiamo fatto chiedendogli di affrontare un dialogo con Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, che alla crisi del Paese (e della politica) e alle prospettive di riscossa sta dedicando riflessioni, documenti, interventi pubblici (dalla mostra dell’ultimo Meeting di Rimini alle decine di incontri sul volantino di Cl “La crisi, sfida per un cambiamento”, a tante altre occasioni). Galli della Loggia ha accettato, facendo una sola richiesta: «Parliamo anche di Cl, però». Certo.

Professore, lei elenca molte cause della crisi della politica, ma a una dà una rilevanza particolare: la mancanza di un riferimento storico ideale. «Consumata nel 1991-’93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita». Quanto pesa questo vuoto?
Galli della Loggia. È anzitutto una mancanza di idee. Nessuno fa proposte, se non formule che vogliono dire poco o nulla. E nessuno fa i conti con quello che è successo: perché siamo arrivati qui, dove sono stati fatti gli sbagli decisivi, per responsabilità di chi. Per esempio, abbiamo vissuto di un’idea sbagliata della democrazia. In troppi casi è stata scambiata per assemblearismo: tutti decidono di tutto. Che poi vuol dire inefficienza e paralisi. Si è dato troppo spazio a realtà come i sindacati, che nei ministeri sono padroni... E via dicendo. E ora manca qualsiasi capacità di immaginare una via di uscita che non sia quella di attaccarsi all’Europa, o a formule vuote come “Monti dopo Monti”. Mentre su cose decisive come la riforma della scuola, che negli ultimi trent’anni è stata fatta a pezzi, o della macchina dello Stato, che costa tantissimo ed è totalmente inefficiente, nessuno dice nulla. Più crisi di così, è difficile da immaginare.

Vittadini. Sono d’accordo sull’analisi, che però ha sullo sfondo un altro problema: una mancata rivoluzione liberale. Lo sviluppo di una concezione in cui la responsabilità della persona sia posta al centro rispetto alle appartenenze. Un’appartenenza ha senso se fa crescere la capacità della persona di prendersi le sue responsabilità, in qualunque ambito. Questo valorizza ciò che uno sa fare. E giudica l’idea del bene comune. Noi stessi siamo affezionati all’idea di appartenenza, di sussidiarietà e corpo intermedio. Ma questo in molti casi è diventato qualcosa di autoreferenziale. Se non è la persona il punto decisivo, anche l’appartenenza a un certo ambito - invece di diventare fattore di costruzione - diventa un elemento corporativo e di chiusura. Lo dico pensando a fatti che ci riguardano da vicino.

GdL. Noi abbiamo rimandato troppo la riforma del sistema politico. Bisognerebbe farla finita con questo parlamentarismo e introdurre un sistema presidenziale o semipresidenziale, perché è l’unico modo per far riacquistare capacità di comando politico al popolo. Ma andrebbe rivisto anche il sistema delle autonomie locali. Mi spiace, ma forse dopo le ultime vicende dovreste riconoscere che la sussidiarietà non funziona.

Perché, scusi?
GdL.
Tutto ciò che è locale è meno controllato e più corruttibile. La quantità di assessori indagati per corruzione o altro è molto più alta dei parlamentari.

V. Mica vero. L’apparato che costa di più è quello burocratico centrale, che brucia miliardi di euro e non serve. Il nostro ministero dell’Istruzione è più grande del ministero della Difesa americano: le pare possibile? E sulle inchieste e gli assessori, forse è perché le indagini si stanno concentrando lì, e non sul modello centrale. La verità è che se si fosse fatto veramente il federalismo fiscale, per cui a livello locale tu spendi quello che hai, questo avrebbe fatto da argine anche alla corruzione, oltre che agli sprechi. Peccato che non si sia scelto di farlo davvero.

GdL. E chi l’ha detto? Se una Regione ricca come la Lombardia, godendo di autonomia fiscale, avesse più introiti, non credo che questo diminuirebbe di per sé il tasso di corruzione lì. Dico la Lombardia per fare un esempio, chiaro...

V. Anche qui, non sono d’accordo: perché nel momento in cui cominci ad essere responsabile dei costi che hai, evidentemente hai un argine sia agli sprechi che alla corruzione. Senza contare che con la sussidiarietà superi il meccanismo tassazione-spesa pubblica-trasferimento. E anche questo evita gli sprechi. Le faccio un esempio: la formazione professionale. Se i soldi invece di darli agli enti li dai alla gente che sceglie, questo taglia la corruzione. Se il Governo, centrale o locale, dà i fondi a qualche ente invece che agli utenti, questo favorisce gli intrallazzi. È un esempio, ripeto, ma potremmo farne tanti altri.

Non vi sembra che qui si torni alla «responsabilizzazione della persona» di cui parlava Vittadini prima? Senza partire da lì, non bastano né regole né meccanismi.
GdL.
Ma cosa vuole dire «responsabilità della persona»? La legge già stabilisce che la responsabilità penale è personale. Non è che questo abbia cambiato qualcosa. Se poi, invece, si parla di motivazioni ideali o cose del genere, mi sembra che siano cose condivisibili, ma di poca concretezza. Certo, se fossimo tutti buoni le cose andrebbero meglio...

Ma quando lei parla di una frattura decisiva con le culture storiche del Novecento, non si riferisce agli ideali che portavano con sé?
GdL.
Quei valori erano legati a dei progetti. La sussidiarietà non è un progetto. È semplicemente dire: spendete bene, ognuno per conto vostro, i soldi che vi diamo. Questo non è un progetto politico. Potrà essere utile in certi settori, ma non è una prospettiva per il Paese.

V. Mi scusi, ma non è vero: la sussidiarietà è la storia dell’Italia. Senza questo elemento, saremmo andati in crisi molto prima. L’Italia ha un’impostazione statalista già dalla nascita: senza un contributo decisivo di base, di nascita di iniziative dal basso, avremmo avuto un’Italia americana da subito, divisa tra ricchi e poveri. Se tre italiani su quattro sono proprietari di case, per dire, lo si deve soprattutto alla cooperazione sociale.

GdL. Veramente se gli italiani oggi vivono di più, meglio, in case migliori, questo lo si deve all’esistenza dello Stato. La scuola l’ha fatta lo Stato. La sanità per tutti, pure. Poi, per essere sinceri fino in fondo, devo dire che mi fa un certo effetto sentire parlare di «vuoti ideali» da voi di Cl, che siete contigui a casi in cui proprio un vuoto ideale ha portato a certi comportamenti...

V. La lettera di Julián Carrón a Repubblica, il primo maggio scorso, diceva esattamente questo: «Qualche pretesto dobbiamo pure averlo dato». Abbiamo dato adito a queste cose. Non ci nascondiamo dietro a un dito.

GdL. Riconoscerlo è un dato di fatto. Ma il problema è: perché è successo? Per errori di qualche singolo?

V. No, perché c’è stato un errore che possono vivere tutti e che, come dicevo prima, abbiamo vissuto anche noi: un’appartenenza malintesa che toglie - o indebolisce - la responsabilità personale. E che porta agli stessi errori che lei, giustamente, denuncia in molti dei suoi interventi. Anche noi siamo caduti in questa stessa cosa. La critica che fa lei la sento pienamente su di noi. E infatti Carrón usava proprio quel pronome, «noi», anche se la responsabilità resta dei singoli e non ci sono «politici di Cl» in quanto tale.

A proposito di quella lettera: non vi pare in qualche modo la testimonianza di un ideale ancora vivo? Voglio dire: il fatto stesso di ammettere «riconosciamo che possiamo avere sbagliato», di invitare a correggere se stessi per recuperare fino in fondo la propria identità e testimoniarla, non è il segno che in quell’ambiente c’è un criterio più grande della gestione del potere e basta? Un ideale, appunto? A me sembra il contrario del «maso chiuso» di cui parlava Galli della Loggia tempo fa proprio a proposito di Cl...
GdL.
Guardi, tutti lo fanno. Quando scoppia uno scandalo, tutti dicono: abbiamo sbagliato. Lo dice il Pd, lo dice il Pdl... Che cosa possono dire? Ma se si vuole fare un passo, si convoca una discussione pubblica, su questo. Perché le cose politiche sono pubbliche. E Cl ha svolto un ruolo pubblico in certe regioni.

V. Ma questo è un tema che per noi nasce da lontano. Almeno dal 1976. L’alternativa tra egemonia e testimonianza, tra utopia e presenza, e la necessità di un soggetto che deve continuamente emendarsi dal rischio di cercare il potere e basta, anche con le migliori intenzioni, don Giussani lo pose lì. Davanti a tutti. E lo stesso Carrón ne parla almeno dal 2008. Quello di un’educazione rispetto al rischio di certi errori è un argomento continuo, per noi. Tenendo conto, però, anche di tutto il bene che è stato fatto. La Lombardia di questi ultimi 17 anni, per dire, è stata l’unica alternativa reale a un certo modo di governare in Italia. Sulla sanità, sull’istruzione... Questo non può non essere riconosciuto. Se no, non si è storici.

Parliamo dei punti di ripartenza possibili. In uno degli ultimi interventi, Galli della Loggia ne indicava uno interessante: parlava di un «senso del passato», di una «memoria di sé» da recuperare, perché in chi fa politica «come del resto in tanta parte del Paese , si è spenta ogni idea d’Italia e della sua storia, di che cosa sia».
GdL.
Io credo che abbiamo avuto due grandi problemi come Paese: non abbiamo saputo gestire la democratizzazione né la modernizzazione. Ne siamo stati travolti. E questo ci ha portato a interrompere qualsiasi legame con la tradizione. A mandare tutto nel dimenticatoio. Comunque, su questo sarei piuttosto pessimista. L’Italia conosce un declino forte. Non so fino a che punto ci sia la possibilità di riprendersi. Se la storia ce la darà, questa chance. Non è detto. Ci sono Paesi che sono declinati e poi magari si sono ripresi dopo due secoli...

V. Anche qui, sull’analisi sono d’accordo: mi pare che ci sia davvero da lavorare su questo. Ma per farlo serve la costruzione, lenta e quotidiana, di un soggetto educativo. Capisco che a Galli della Loggia possa apparire un progetto vago, quasi buonista. Ma serve un’educazione, una costruzione capillare, persona per persona, di valori in cui uno crede e si riconosce.

GdL. A patto, però, che non si parli di intervento di famiglie: nel campo della scuola non sanno nulla e non possono decidere di nulla. Le famiglie hanno tanti pregi, ma per quanto riguarda l’istruzione sono pessime.
V. Mi pare difficile generalizzare così. Ci sono famiglie e famiglie, no? Basterebbe venire a vedere certe realtà.

Galli della Loggia, lei ha scritto che «solo in nome di un’idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi». Che cosa vuol dire di preciso? E lei, Vittadini, è d’accordo?
GdL.
Vuol dire anzitutto essere consapevoli del fatto che siamo una comunità. Nessuno può salvarsi da solo, il Paese si salva tutto insieme. E poi, significa renderci conto che abbiamo una storia alle spalle non indegna. Siamo usciti dalla guerra feriti, e siamo riusciti a diventare uno dei primi dieci Paesi industrializzati del mondo, abbiamo una democrazia che ci dà libertà... Ma sono cose in pericolo. Le abbiamo messe in pericolo noi con le nostre scelte, con atteggiamenti sociali dissennati e anche pensando molto a una dimensione particolare e poco a quella del bene pubblico. Ma non mi chieda di entrare più nel dettaglio. Non faccio il Presidente del Consiglio, scrivo ogni tanto articoli di giornale.

Glielo chiedevo perché mi pare si avvicini parecchio a un tema capitale. Don Giussani, in un famoso discorso del 1987 alla Dc lombarda ad Assago, lo poneva così: «Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’infinito, che rende la persona soggetto vero e attivo della storia». Il desiderio è il motore anche della politica.
GdL.
Sì, ma il desiderio può indicare molte cose diverse. Anche cattive. Il desiderio di che? Messo così, è astratto. Mi pare che si sia sempre lì: siate buoni, se siete tutti buoni le cose andranno bene.

V. Astratto? È una visione dell’uomo e della storia. La modernità nasce sull’idea di un uomo negativa; di uno Stato come Leviatano, chiamato a bloccare l’egoismo dei singoli; e di un’economia in cui lo stesso egoismo dei singoli, attraverso la mano invisibile del mercato, porta a un benessere collettivo. L’idea della dottrina sociale della Chiesa ripresa da don Giussani è quella di un uomo «relazionale, positivo e propositivo», per dirla nei termini di Benedetto XVI. È una struttura dell’io e di un pensiero un po’ diversa da quella che ha dominato una certa modernità. L’azione dell’uomo, la crescita, la voglia di costruire, di risolvere i problemi, vengono da lì. E se non ripartiamo da lì, non si riaccende il motore.

Da questa debolezza endemica si può recuperare o no? Siamo alla fine della politica? E non è rischioso anche solo ipotizzarlo?
GdL.
Con queste regole, no. Non se ne esce. Almeno in Italia.

V. Vero, le regole che abbiamo non vanno bene. Ma il problema è ricostruire quello che sta dietro. Se non c’è un percorso di ricostruzione ideale - come scriveva proprio Galli della Loggia -, nessuno rifarà queste regole. Sarà un gioco infinito a cercare di vincere le elezioni senza rimettersi in discussione. E questo sì che è pericoloso.

In questo «percorso di ricostruzione» che cosa vedete come strumenti utili?
GdL.
Le famiglie. Il rapporto tra genitori e figli. E tra lo Stato e i cittadini. Molti genitori in Italia non hanno più l’idea di quale sia la loro funzione educativa. Quindi non riescono più a trasmettere nulla ai figli. Anche perché in loro sono venute meno delle cose.

V. Sono totalmente d’accordo, si figuri. Ma come si concilia questa valorizzazione delle famiglie con l’idea che non c’entrino con la scuola?

GdL. Le famiglie hanno una funzione, la scuola un’altra. Quando andavo a scuola io, le cose non si incontravano mai, se non quando mia madre andava a parlare con i professori. La scuola è un’iniziazione alla vita collettiva, alla socializzazione. La famiglia è un’altra cosa.

Altro fattore: la Chiesa. Che ruolo ha?
GdL.
Importantissimo. Può formare le coscienze. Ma per come la vedo io, c’è un problema di vertici istituzionali e di rapporto con le strutture di base, pastorali, che pure fanno un lavoro utilissimo. Questo tema però richiederebbe una riflessione più lunga di quella che possiamo fare qui...

V. Vivendo la Chiesa, ti accorgi che se non c’è vita dal basso anche quella rischia di diventare un’istituzione bloccata. È un momento di travaglio pure in questo senso. Capisco che possa sembrare uno slogan, ma si torna al punto decisivo dell’educazione, della costruzione di un soggetto nuovo. E questo riguarda l’istituzione come la “base”: i movimenti, le associazioni e via dicendo. Forse una crisi così può essere l’occasione per rimettere a fuoco anche certi aspetti della vita ecclesiale. Io mi sento chiamato in prima persona a quella che per me si chiama conversione. Che riguarda senza soluzione di continuità l’istituzione e me. La politica riparte anche da lì.

Ma voi, in conclusione, siete più pessimisti o ottimisti sul fatto che la politica si possa riformare?
GdL.
Io pessimista, l’ho già detto. Il sistema ormai è un tappo che tiene tutto compresso. Non si autoriforma di certo. Non credo proprio che sia disponibile a farlo. E questa è una ragione che aggiunge pessimismo a pessimismo. Non è l’unica, intendiamoci: non è che tutto dipenda dalla politica. Ci sono tanti fattori in gioco. Un Paese che non fa figli, per dire, è destinato di per sé ad estinguersi... Ma anche questo è un argomento che ci porterebbe lontano.

Magari a riparlare di desiderio e di speranza...
GdL.
Vero. I figli si fanno quando c’è un po’ di speranza. La società italiana di oggi non ne ha molte per il futuro. Soprattutto, in molti non riescono più a pensare l’esistenza in termini di sacrificio per gli altri, per qualcosa che va oltre se stessi. Per fare figli è necessario avere questo tipo di sentimento.

V. Io, invece, non sono pessimista. Questa crisi è un’opportunità, grande. Ma la vera questione viene prima della politica. Prima si parlava di “identità italiana”: ecco, secondo me quello che la costituisce è anzitutto un modo di conoscere. Un modo di rapportarsi con la realtà che non riduce il soggetto né le cose, ma è un incontro, una conoscenza realistica. Questo è caratteristico della nostra cultura e della nostra genialità, anche imprenditoriale. Noi possiamo ricostruire partendo da lì. Da questo modo di stare di fronte ai problemi. E dal desiderio.