Luca Ricolfi.

Ricolfi: «Ma perché il Palazzo non guarda i desideri veri?»

Sussidiarietà. Europa. E un governo che sembra tecnico, ma non lo è. Terza puntata del dibattito iniziato su "Tracce" di novembre sul futuro del Paese. Interviene l'editorialista della "Stampa". Che parte da un problema...
Ubaldo Casotto

La politica italiana sta dando triste spettacolo di sé. La rappresentazione mediatica (dilapidatori irresponsabili, ladri, arrivisti tentati più dalla possibilità di arricchimento che neanche dal potere) induce a una richiesta di rigenerazione morale assolutamente comprensibile che però sembra condizione necessaria ma non sufficiente. Nuove regole, pur doverose, non ci daranno nuovi politici. Escludendo soluzioni “rivoluzionarie” e violente (di cui ogni tanto si intravede la tentazione), e non potendo continuare all’infinito la supplenza tecnica e la gestione procuratizia del dibattito pubblico, secondo lei la politica dove e come può ripartire? «La politica italiana non possiede la minima capacità di autoriforma, ma la responsabilità è in gran parte nostra», risponde senza giri di parole Luca Ricolfi, editorialista della Stampa. «Il cittadino italiano conosce solo due modalità di rapporto con la politica: l’apatia e l’eccesso di pathos. E molti di noi le praticano entrambe, a fasi alterne, passando dall’indifferenza alla mobilitazione faziosa»

La politica c’entra con la ricerca della felicità?
Sì, nel senso che può impedirla. E la via maestra per impedire la ricerca della felicità è cercare di promuoverla attivamente, presumendo di conoscere i “veri” bisogni e desideri della gente meglio di quanto li conoscano i diretti interessati. Con le parole del presidente americano Roosevelt: “È difficile migliorare la nostra condizione materiale attraverso la migliore delle leggi, ma è molto semplice peggiorarla con cattive leggi”.

Bioetica e confronto con il terrorismo di matrice islamica sembrano dimenticati, da due anni non si parla che di economia. Lei, cifre alla mano, sottolinea spesso le diseconomie reali sulle quali passiamo il tempo a lamentarci invece di intervenire con vere riforme (penso ad esempio al caso Alcoa o ai costi che incidono sulla nostra produttività, piuttosto che agli equivoci su federalismo e fisco). Possono scelte economiche strategiche essere affidate a governi “tecnici”?
Non è impossibile ma è molto difficile, perché è difficile che un governo tecnico sia veramente tale. Quello attuale, ad esempio, non lo è per niente, come non lo erano i governi Amato e Dini negli anni Novanta. L’unico governo che si è avvicinato, senza peraltro raggiungerlo, all’ideale di governo tecnico è quello di Ciampi. Perché un governo tecnico è tale solo se è costituito da personale tecnicamente qualificato, se ha carta bianca, se una scadenza precisa e se è costituito da persone solo temporaneamente prestate alla politica.
Il governo Monti possiede il primo requisito, ma manca del tutto degli altri requisiti. Non ha carta bianca perché i partiti lo tengono continuamente sotto scacco, dalla Legge di stabilità alla legge sulla corruzione. Non ha una scadenza precisa perché per tutto il suo mandato sono convissute sia l’ipotesi di mandarlo a casa prima della scadenza della legislatura (vi ricordate quando si voleva votare a novembre?), sia l’ipotesi di resuscitarlo subito dopo le lezioni (il Monti-bis di cui si discute ogni giorno). Non è costituito di persone prestate alla politica perché raramente si era vista, da parte di ministri e sottosegretari, tanta voglia di restare in politica anche dopo la fine del proprio mandato.

Abbiamo parlato a lungo di federalismo, l’abbiamo realizzato male (Titolo V) ora, di fronte ai vari scandali tornano in auge proposte di un nuovo centralismo, quasi ci fossimo dimenticati i guasti del centralismo statale. Dove può essere un punto di equilibrio?
Il punto di equilibrio è in qualsiasi sistema, non importa quanto centralista e quanto decentrato, che rispetti due condizioni: la non duplicazione o sovrapposizione delle funzioni, la responsabilità territoriale degli squilibri di bilancio (non si può chiedere ai cittadini di un territorio di ripianare i debiti dei cittadini di un altro territorio). Nessuno dei sistemi sperimentati finora in Italia rispettava le due condizioni, quindi nessuno poteva funzionare.

Lei cosa pensa del concetto di sussidiarietà (forse più decisivo di quello di federalismo), della sua efficacia non solo sul piano dei risultato e su quello della partecipazione democratica?
Non penso granché, perché quello di “sussidiarietà” mi pare un concetto che tutti stirano per farne un abito adatto alle proprie esigenze politiche e qualche volta anche economiche. Se per sussidiarietà intendiamo il principio secondo cui lo Stato deve intervenire solo nelle materie che non possono essere gestite a livelli più bassi (comuni, chiese, famiglie) la mia opinione è che è troppo generico: ci sono cose che lo Stato può anche non fare, ma che altri farebbero peggio dello Stato. Io ho una mentalità empirista, e tendo a pensare che le cose vanno giudicate caso per caso. Si può essere per la sussidiarietà in materia di assistenza, ma non di scuola. O viceversa. Quasi sempre dipende dai dettagli, ma dei dettagli non si parla mai perché sono noiosi.

L’Europa sembra diventata solo il controllore dei nostri costi. E nello stesso tempo il vero decisore, ma con il volto del duopolio franco-tedesco. Di fronte al protagonismo nazionale ha ancora senso il progetto di un’Unione anche politica. Più Europa, con cessione di sovranità da parte dei singoli Paesi, può essere una prospettiva che ridà significato alla politica?
“Più Europa” sta diventando una formula per dire che ci vuole un governo europeo democraticamente eletto. Ma il problema è che non vi è alcuna garanzia che un tale governo farebbe meglio degli attuali governi nazionali, anche se - indubbiamente - per fare peggio bisognerà metterci molto impegno. Se posso azzardare una previsione, penso che se faremo gli Stati Uniti d’Europa avremo più ordine e rigore negli stati del Sud, ma ancora più burocrazia nel mercato comune europeo. In sostanza: meno sperpero di denaro pubblico, ma anche un più rapido declino economico (l’iper-regolamentazione eurocratica è una delle cause del tramonto dell’Europa). Forse avere “più Europa” è il male minore, ma non riesco a entusiasmarmi per una prospettiva del genere.

La Chiesa, anche nei confronti della politica, sottolinea da anni il fatto che il vero problema è l’emergenza educativa in cui siamo immersi, considerando l’educazione non solo il percorso scolastico-formativo di un giovane, ma la dimensione costante della vita di un popolo, Lei cosa pensa al riguardo?
La Chiesa, come la politica, non pare rendersi conto che l’emergenza educativa dipende moltissimo dalle famiglie, pochissimo dalla scuola. Anche il migliore degli insegnanti non è in grado di fare il suo mestiere se le famiglie remano nella direzione opposta. Finché i genitori si preoccuperanno solo del pezzo di carta e della serenità dei propri pargoli, nessuna scuola potrà mai tornare a fare quel che ha sempre fatto: trasmettere conoscenze e coltivare il senso di responsabilità individuale.