Sergio Soave.

L'Italia s'è spenta?

Nella quinta puntata del dibattito iniziato su "Tracce" di novembre, il politologo Sergio Soave ci spiega «perché siamo arrivati qui». Lo statalismo, la mancata rivoluzione liberale e la sovranità limitata: «Servono spazi reali di libertà politica»
Alessandra Stoppa

«La politica va male perché serve poco». Stretta tra una sovranità nazionale limitata e «un sistema statalistico, corporativo, paralizzante», che è stato messo sottosforzo dall’elemento catalizzatore della crisi internazionale. Con Sergio Soave, politologo ed editorialista di ItaliaOggi e altre testate, continuiamo il confronto iniziato sul nuovo numero di Tracce, per capire se è possibile - e come - uscire dalla debolezza che pervade il Paese. A partire da una domanda con cui difficilmente si fanno i conti.

Perché siamo arrivati qui?
Questa domanda ci fa chiedere come mai un sistema troppo costoso e poco efficace ha continuato a stare in piedi. E che lo abbia fatto nonostante non siano mancati dei tentativi riformistici, di centro, di destra, di sinistra... Ecco, io non credo che si possa far risalire la responsabilità di questo solo a questioni di coscienza politica o identità nazionale.

E dove si è sbagliato?
Si sono creati, negli anni, dei sistemi di potere - lo dico senza accezione negativa, perché i sistemi di potere sono inevitabili - che man mano sono diventati autoreferenziali, come afferma anche Giorgio Vittadini su Tracce. Penso ai sindacati, o ad alcuni sindacati: non si può negare che abbiano avuto una grande funzione e che ce l’abbiano tuttora, ma se il Paese con un tasso di sindacalizzazione tra i più alti d’Europa abbia stipendi tra i più bassi, vuol dire che anche il sistema è diventato autoreferenziale.

Ci sono sindacati ricchi e lavoratori poveri.
Sì, ma non lo dico per qualunquismo. Lo dico perché vale a maggior ragione per l’organizzazione industriale e padronale. Se si guarda la discussione sulla produttività tra piccole medie imprese e Confindustria, è chiaro che quest’ultima, da una parte, non è riuscita a difendere gli interessi dell’unica grande azienda privata che c’è in Italia; dall’altra, si arrocca nel mantenimento di un sistema di relazioni industriali conservatore. Insomma, si vedono elementi di auto-conservazione delle strutture più che l’esercizio delle funzioni per cui sono nate. Non si può fare a meno della rappresentanza dei lavoratori o di quella delle imprese, ma servirebbe che si occupassero di più dei lavoratori e della crescita dell’impresa, piuttosto che della disseminazione degli uffici... La verità è che si è andato creando un sistema neocorporativo. E questo trova ragione, in gran parte, nella natura storica dell’Italia. Basta pensare che le corporazioni sono nate da noi.

E che relazione c’è tra questo fattore e lo statalismo?
L’espansione del peso dello Stato ha fatto da collante: è ciò che ha permesso di tenere insieme il sistema, sia in fase di convergenze o compromessi, sia in fasi di forte tensione.

Nelle sue analisi, fa risalire questo problema ad un periodo ancora precedente, nella formazione stessa della democrazia...
È ciò che è iniziato dopo il Fascismo. In quel momento c’era da salvare uno Stato, che prima era diventato autoritario e poi è stato diviso in due. E quello che si fece - forse inevitabilmente - fu di restaurare i meccanismi dello Stato sabaudo preesistente, che peraltro aveva tratti corporativi, dandogli una base democratica. Per salvare la situazione, s’introdussero nuovi elementi di statalismo. Per esempio, il modo in cui furono usati i fondi del Piano Marshall vennero criticati dagli stessi americani: videro il rischio reale che ad imprese ed attività produttrice non arrivasse nulla. Comunque, in sostanza, in Italia la democrazia politica non ha costruito lo Stato, ma ne ha assunto la gestione.

Secondo lei, ciò che è mancato è una vera rivoluzione liberale.
La Seconda Repubblica è stata un tentativo di risposta in questo senso. L’analisi era un po’ raffazzonata e le risposte pasticciate, ma si tendeva a dare cittadinanza a visioni e a ceti che rifiutavano un rapporto di sudditanza con lo Stato. Ma questo tentativo è fallito: colpa di chi non è riuscito ad affermarlo e di chi ci si è opposto in modo un po’ fanatico.

E le mancate riforme istituzionali hanno contribuito?
Se la Costituzione fosse quella che era stata riformata dal centrodestra due legislature fa, la situazione sarebbe migliore. Se pur con errori, quella era una ragionevole e abbastanza organica riforma dell’assetto istituzionale. E, su questo, bisogna guardare una cosa importante: non fu bocciata dal Parlamento, ma dal popolo con il referendum. Per cui quando si parla di riforme mancate, bisogna ricordarsi che una riforma di grande rilievo la politica l’ha fatta e il popolo l’ha rifiutata. Lo dico perché sembra sempre che il popolo sappia risolvere tutti i problemi e che i politici non sappiano nemmeno cosa siano quei problemi... Comunque, bisogna intendersi bene anche su che cosa significhi rivoluzione liberale. Perché servirebbe a fare qualcosa di utile.

In che senso?
Dico che se le due concezioni liberali, quella laica e quella basata sulla Dottrina sociale della Chiesa, non trovano un compromesso fra loro, è difficile creare qualcosa di utile. Quando questo tentativo è stato fatto, con De Gasperi ed Einaudi, sono nate le cose migliori dell’Italia. L’apertura dell’Italia ai mercati, la riforma agraria di Segni, l’ingresso nell’allora Comunità del carbone e dell’acciaio, e così via. In questa fase, ci furono certamente errori, si risolsero dei problemi creandone altri, ma si gettarono le basi del passaggio da un Paese prevalentemente agricolo ad uno industriale. E insieme si compì, che piaccia o no, la secolarizzazione.

Perché questo tentativo ha poi lasciato il passo ad un’impostazione sempre più statalista?
C’è stata la Democrazia cristiana, che ha introiettato gli elementi di statalismo corporativo. Naturalmente, l’ha fatto con l’idea di promuovere uno sviluppo, ma l’impostazione era man mano più statalista. Il problema è che l’idea di Stato, com’era in Costituzione, si fondava esclusivamente sul compromesso tra due classi fondamentali: il padronato e la classe operaia. Poi non si tiene conto di un’altra cosa.

Quale?
Fino a metà degli anni Cinquanta il settore prevalente era quello agricolo, poi lo è stato quello industriale, e da metà degli anni Settanta quello terziario. Quest’ultimo e nuovo passaggio, che implica il passaggio dall’economia basata sulle merci a quella dell’informazione, non è stato gestito in modo liberale.

Perché?
Per una disgregazione: tutti i punti istituzionali, le organizzazioni rappresentative, la Costituzione, la prassi della contrattazione e della concertazione... Tutto ha continuato a reggersi su istituti, su metodi e rapporti costruiti sulla base di questa prevalenza dell’industrialismo. Man mano che perdeva peso, veniva sostituita dallo statalismo. Il che ha portato all’immenso debito pubblico che è la causa di tutte le altre difficoltà.

Su Tracce, nel dialogo con Vittadini, Ernesto Galli della Loggia parla della necessità di recuperare «una memoria di sé», perché «si è spenta ogni idea dell’Italia, di che cosa sia». E della mancanza di ideali, dovuta anche alla frattura con le culture storiche del Novecento.
Il problema non è il superamento delle culture e delle formazioni politiche del passato: il problema è che non sono state superate criticamente. Non è stata elaborata la crisi di quelle forme: la crisi della Dc, la crisi del Pci e Psi... Tutti parlano bene del socialismo europeo, di quello mondiale, ma che cosa è morto o vivo del socialismo italiano non lo sa nessuno. Tutti hanno avuto soltanto il problema di mantenere, nel sistema della rappresentanza, uno spazio d’azione e di risultati elettorali. Perché nascano cose nuove è necessario che i problemi, le crisi, le contraddizioni vengano elaborati con sincerità. Invece non vengono esaminati da nessuno.

E oggi questa possibilità è affidata a riflessioni che non incidono nella vita politica o, ancor peggio, è un’occasione del tutto persa?
Io non credo alle occasioni perse. La questione è, sempre, la capacità costruttiva.

E dove la vede oggi?
Io non so chi ha questa capacità. Vedo dei tentativi a sinistra, altri ancora molto magmatici nell’area moderata. Il limite grande è che tutti vogliono mettere il carro davanti ai buoi, tutti vogliono prima governare, avere il potere e soltanto dopo cercare di capire in che modo poterlo esercitare. Aggiungo che in parte questo è inevitabile.

Perché?
Perché è un Paese a sovranità limitata e, quindi, chiunque governi fa il 95% delle cose come le farebbero gli altri. Semplicemente, le racconta in modo diverso. Rifondazione comunista che sosteneva Padoa Schioppa o Visco metteva una frase populista in mezzo a misure economiche di stampo liberista; quelli di destra hanno fatto le stesse cose, mettendoci dentro un po’ di chiacchiera sociale...

La sovranità limitata: dall’Europa?
La cessione simmetrica della sovranità è giusta, il problema è che è asimmetrica: un conto è la corresponsabilità in Europa, un altro è un diktat unilaterale. Ma in Italia, se invece di buttarsi addosso l’un l’altro la responsabilità di questa subalternità, si ragionasse?

Su cosa di preciso?
Su come gestire, in base all’interesse nazionale, un tentativo di riduzione di questa subalternità. Questo sarebbe un tema sul quale varrebbe la pena di impegnarsi.

Ma prima bisogna stabilire qual è l’interesse nazionale.
Certo bisogna prima identificare questo. Quale è l’interesse nazionale in Medio Oriente? Qual è quello in Libia? Ma la risposta non dovrebbe essere il risultato del fatto che “siamo tutti d’accordo”: dovrebbe essere esito del riflettere e studiare seriamente quale sia, per poi perseguirlo insieme.

Non è astratto come punto di partenza?
Ma la politica va male proprio perché serve poco. Vive un limite, che non nasce, come si pensa, dalla corruzione, dai Batman che si comportano male... Dipende dal fatto che le scelte principali del Governo le fa Draghi, e le fa anche bene, non dico questo. La politica può rinascere solo dall’identificazione dei suoi spazi reali di libertà ed azione. E poi dalla ricerca delle soluzioni e delle iniziative dentro questi spazi. Il che implica, anche, togliere di mezzo tutta questa farragine di sistema statalistico corporativo.

E la responsabilità personale in tutto questo come si gioca?
Vede, per esempio: il discorso di “non obbedire ciecamente alla Merkel” fatto da Berlusconi, anche se con lo stile della fiera di paese, è la stessa cosa che dice Bersani quando accusa quelli che pensano di comprarsi l’Italia per poco. Dicono la stessa cosa, lo fanno insultandosi e sa solo Dio perché, ma il terreno c’è. E su questo terreno c’è la responsabilità degli uomini, dei leader. Poi, dire che vada recuperata la memoria del Paese... La memoria l’abbiamo. Sono più necessari i fatti, le imprese, gli interessi economici. Già una volta ci siamo illusi che l’Italia la facessero i letterati...

Ma affrontare il vuoto di ideali, il problema educativo, è un “discorso” culturale o un fattore concreto?
No guardi, è il più concreto.

Perché?
Metà dei problemi sarebbero risolti se le famiglie facessero più figli. E l’altra metà, se ci fosse una vera istruzione tecnica che preparasse al lavoro. Non sono d’accordo con Galli della Loggia quando dice che le riforme dell’istruzione degli ultimi trent’anni hanno fatto a pezzi la scuola. Dico che c’è un vizio accademico iper-umanistico, crociano, che ha considerato inferiore l’istruzione scientifica e tecnica. L’unico in Italia che ha capito che invece era una condizione per il progresso è stato don Bosco, che ha detto: ragazzi, bisogna imparare a lavorare. Comunque, il primo punto resta decisivo: è inutile cantare Fratelli d’Italia, quando i fratelli non ci sono più.

E perché non si fanno i figli?
Questo accade perché c’è una visione consumistica. Oggi si pensa al bambino come al costo che comporta perché bisogna comprargli le scarpe Nike da subito. È una questione di mentalità, di educazione.

Nelle conseguenze di questa riduzione consumistica, è evidente che il desiderio è la chiave anche della società e della politica.
Io vorrei capire meglio che cos’è il desiderio, perché se è enunciato in quanto bisogno, oggi i bisogni diventano diritti e ne vediamo le conseguenze... Se il desiderio è tenere viva la speranza dell’uomo, lo capisco. Perché oggi siamo indotti a pensare che non ci sia una prospettiva, che se va bene siamo rovinati. Ma si arriva a questo anche per effetto di una serie di deficienze, di blocchi, perché non c’è promozione sociale... La politica dovrebbe risolvere tutte queste cose alla base.

Torniamo alla politica che salva.
No, la politica dovrebbe creare delle condizioni per cui diventi più realistica quella speranza. Ma bisogna interpretare il desiderio e questo non lo fa la politica, ma appunto un’iniziativa morale ed educativa, lo fa la responsabilità personale, la costruzione della mentalità. La politica non può dettare gli obiettivi umani. L’idea della politica perfetta che risolve tutti i problemi e fa tutti felici la lascerei a Beppe Grillo.