Portare la croce a Gaza

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Andrea Avveduto

Una settimana di inferno. E una tregua fragile, che non si sa quanto possa durare. Fra i razzi di Hamas e l’offensiva israeliana, per i cristiani che vivono nella Striscia il Natale è fare i conti con le ragioni della fede e della loro presenza. Che sembra nulla davanti al potere degli altri. Le vite di George, Johnny, Hanna, Diana... Una domanda continua: «Perché?». E una sola sicurezza:?«Dio sta lavorando»

«Ciao Gabriella, spero che tu stia bene...». La lettera di George alla sua amica comincia con una preoccupazione. Per lei, che vive nella pacifica Italia. George Antone è rinchiuso nella Striscia di Gaza da quando è nato, ed è cristiano. Una delle duemila anime su un milione e mezzo di musulmani. Comincia queste brevi righe mentre un raid israeliano sta bombardando la casa del vicino. «Gaza è in guerra, ma noi sappiamo, nel profondo del nostro cuore, che il Signore non ci lascia soli». Le linee telefoniche vanno e vengono, e George affida tante delle sue preoccupazioni, con le paure e le speranze, ai social network. E a qualche mail che spedisce agli amici. «Adesso la nostra vocazione è portare un pezzo della croce di Cristo. E mostrarla agli altri. È il dovere di ogni cristiano, sostenere quel legno glorioso in ciò che si vive».
Anche quando la vita è fatta di paura e dolore. Momenti che George ha vissuto spesso, in quei giorni di guerra finiti sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, prima di una tregua così fragile da non togliere certo la paura. I razzi di Hamas. L’offensiva israeliana. La Terra Santa di nuovo sull’orlo della guerra. E loro, i cristiani, a fare i conti ancora una volta con le ragioni e la radice della loro presenza. Così fragile da sembrare nulla, sotto le bombe e davanti al potere degli “altri”. Eppure così importante. Decisiva, là dove tutto è iniziato.

«Andategli incontro». Tra poco è Natale. E George ci si è avvicinato così. Senza elettricità e con le finestre della casa aperte, perché i rumori dei missili non infrangessero i vetri. E poi le notti insonni, vicino alla figlia Laila. «Ogni volta che i missili tuonano le diciamo che stanno bussando alla porta». Ma non apre mai, per paura di chi - o cosa - possa entrare. George teme che la piccola possa subire dei traumi e portarseli dietro per tutta la vita. «Pregate per i bambini - scrive su Facebook durante le notti in bianco - loro non hanno colpa per quello che sta succedendo tra queste false ideologie». E poi aggiunge: «A voi che state soffrendo, fate come ha detto Lui: andategli incontro. Non in macchina, o a piedi, in aereo o su un missile. Usate il Rosario».
Nella comunità cristiana locale lo pregano in tanti, ogni giorno. Ognuno in casa sua, rintanato dalla paura, per quella settimana d’inferno. Dopo la tregua, tre semplici parole affidate al suo diario giornaliero: «Dio sta lavorando». E George non ne ha mai dubitato. Basta guardare i suoi occhi, nelle foto scattate in questi giorni e pubblicate su Facebook, per esserne certi. Sì Gabriella, anche George sta bene. Anzi, si direbbe proprio che è un uomo felice.
«Perché Dio permette che a Gaza succedano queste cose?». Lo sfogo di Johnny fa subito zittire suor Nabila, amica di vecchia data, che gli aveva chiesto come stava. Erano i primi giorni di guerra. «Se vuoi puoi chiederlo a Lui», e gli consegna una coroncina per pregare. Non reagisce. Sono giorni difficili per Johnny e la sua famiglia. Non si può uscire di giorno, né dormire di notte. Una prigione più piccola, dentro la prigione più grande della Striscia. «Non capivamo nulla di quello che stava accadendo», racconta: «Sentivamo delle esplosioni fortissime e non sapevamo se erano i missili palestinesi o i raid israeliani». Esausto, prova a chiamare un amico domenica sera, verso le 23, quando i raid riprendono a bombardare Gaza. Di nuovo la stessa domanda: «Perché?». «Non lo so», gli risponde Mujib: «Ma noi siamo cristiani, e dobbiamo perdonare. Io sto pregando per loro». L’amico poi gli ha raccontato di Abu Boulos Salem, un cristiano ortodosso che è morto da poco. Soffriva di cuore, e dopo l’ennesimo raid, «quando ci sono quei momenti in cui non sei sicuro di arrivare a domani», il suo cuore ha ceduto.

Il funerale di Salem. Il giorno dopo, Mujib ha deciso di andare ai funerali. All’ultimo saluto a Salem c’erano tutti. La moglie e i cinque figli, gli amici e chi non l’ha mai conosciuto. Centinaia di parrocchiani hanno lasciato per qualche ora le proprie case. Pazzi, a correre un rischio di questo tipo mentre volavano i missili. «Le famiglie a volte non hanno da mangiare perché non è sicuro uscire per strada», racconta il parroco, padre Jorge: «E invece più di 200 persone hanno scelto di venire qui, a pregare per lui». Ma non è solo una questione di numeri. «Io ero colpito, vedevo queste persone liete, con il sorriso. Mi hanno raccontato delle loro giornate, passate in casa, a pregare il Rosario in famiglia. Lo raccontavano contenti». Anche Johnny era al funerale di Salem. E chissà, se dopo aver visto quella folla così numerosa e felice, avrà trovato anche lui una risposta alla domanda che lo angosciava.
Hanna e Diana sono sposati da dieci anni. Vivono a Gaza da quando sono nati, circa 35 anni fa. Claire, la loro unica figlia, ha 8 anni. Nell’ultima guerra del 2009 il pulmino di Hanna era stato distrutto, e lui aveva perso il lavoro (guidava per tutta la Striscia e faceva consegne ai clienti). «E io, qualche mese dopo, mi sono ammalata di cancro», racconta Diana: «Quando è iniziata questa guerra, temevamo il peggio. L’operazione “Piombo fuso” era ancora davanti ai nostri occhi». Oltretutto Claire stava spesso con i nonni in quel periodo, perché i genitori erano fuori di casa. Da allora è rimasta traumatizzata. «Faceva spesso la pipì a letto, e quando sentiva un rumore o uno sparo cominciava subito a tremare». Per questo, «quando abbiamo sentito le prime esplosioni siamo subito corsi a casa». Claire li aspettava, agitata. Diana è corsa da lei, e l’ha stretta al cuore. «Quei minuti non passavano mai», racconta: «Noi restavamo lì, in camera da letto e sotto le coperte. Claire mi ha chiesto di dire un’Ave Maria insieme». Quando i droni hanno smesso di sorvolare Gaza, Claire ha detto a Diana: «Sai mamma, questo è stato il pericolo più bello di tutta la mia vita». Probabilmente aveva la stessa paura di quattro anni fa. Ma con lei, adesso, c’era la madre. Quella presenza che ti sostiene nella vita. E questo ha cambiato tutto.

Un problema rimandato. A poche ore alla firma della tregua, gli ultimi raid hanno distrutto alcuni edifici. Nemmeno il palazzo dei media è stato risparmiato. Sono state rase al suolo anche diverse case di civili. La famiglia Sruir stava tornando dalla parrocchia latina. All’adorazione eucaristica di padre Jorge, avevano chiesto il dono della pace. Tornando a casa, hanno trovato solo macerie. Tutte le loro cose sono scomparse sotto i detriti. Sono corsi dal parroco, per chiedergli qualche branda in più nella parrocchia. Ancora adesso, di notte, alcuni si rifugiano lì. «Quando li ho visti tornare, non sapevo cosa dire», ci dice padre Jorge. Aveva intuito qualcosa, stava cercando le parole adeguate per rispondere a tutte le domande di senso che gli avrebbero posto. Ma il signor Sruir lo ha preceduto: «Sia lodato il nome del Signore, perché è buono».
Ora tutta Gaza tira un sospiro di sollievo. La tregua annunciata al Cairo ha imposto il “cessate il fuoco” da ambo le parti, anche se l’accordo ha già mostrato la sua precarietà. La gente sa, per esperienza, che una tregua del genere posticipa il problema di sei, sette mesi. Un anno al massimo. Tutti vogliono una pace serena e duratura. Inclusi i duemila cristiani della Striscia. Aspettano anche loro. Ma sanno che tra poco è Natale.